Il Morso della Memoria – Nel Sud dell'Italia


“Il morso, come il rimorso,
è aspro da sottomettere”
(Ernesto De Martino)


© Franco Pinna, 1959
© Franco Pinna, 1959


Finalmente sono riuscito ad avere un libro molto interessante, uscito da poco, nel 2021.

Il libro, curato da Maurizio Agamennone e Luigi Chiriatti, due esperti di Etnomusicologia e tradizioni popolari, si intitola “Le spose di San Paolo – Immagini del tarantismo” (Kurumuny), e offre – per la prima volta – uno sguardo fotografico completo sul fenomeno del tarantismo, oltre le celebri fotografie di Franco Pinna che illustravano il saggio del 1961 di Ernesto De Martino che portò alla conoscenza di tutti proprio l'antico rituale delle tarantate.

Nel libro “Le spose di San Paolo” ci sono ben nove protagonisti, più o meno professionisti, ma che con le loro immagini hanno documentato quello che accadeva nella cappella di San Paolo a Galatina di fianco la basilica di San Pietro, fin dal 1954, con un'ancora diciannovenne Chiara Samugheo, fino agli scatti più recenti del 1992.

Le immagini sono impressionanti ed è una grande soddisfazione vederle tutte riunite insieme per la prima volta; inoltre, questo argomento ha per me diversi punti d'interesse.

Di tipo etnografico, comparativo, metodologico e affettivo.



Etnografico. Iniziamo dal cuore dello studio di De Martino, anche se ormai è ben conosciuto in Italia e non solo, giusto per chi legge da oltre i confini e non ne ha mai sentito parlare.

Riassumo brevemente.

Il saggio è il risultato di un lavoro sul campo, in una équipe che comprendeva etnografi, fotografi, etnomusicologi e psicologi, nell'estate del 1959 nel profondo Salento, estremo sud dell'Italia. Così scrive de Martino nella Prefazione che apre il libro:

La Terra del Rimorso è, in senso stretto, la Puglia in quanto area elettiva del tarantismo, cioè di un fenomeno storico-religioso nato nel Medioevo e protrattosi sino al '700 ed oltre, sino agli attuali relitti ancora utilmente osservabili nella Penisola Salentina. Si tratta di una formazione religiosa “minore” prevalentemente contadina ma coinvolgente un tempo anche ceti più elevati, caratterizzata dal simbolismo della taranta che morde e avvelena, e della musica, della danza e dei colori che liberano da questo morso avvelenato.

Con una tradizione che parte fin dalla Magna Grecia, questa strana forma di possessione, esula dal territorio psichiatrico dell'isteria fine a sé stessa ma si inscrive in un contesto molto più complesso, di tipo culturale e altamente simbolico.

Innanzitutto con la ricerca del tipo di ragno che causa l'avvelenamento. Anche se non si giungerà mai alla certezza che sia la tarantola, poiché il nome fa più riferimento alla città di Taranto, viene comunemente designata come la più probabile specie velenosa, specialmente per le sue abitudini che vanno a combaciare perfettamente con i tempi dell'avvelenamento: come la tarantola è feconda e partorisce proprio nella stagione del raccolto nei campi, quando le donne vengono morse dal ragno, in un coacervo simbolico di fecondità-erotismo-rinnovamento e raccolto.

L'etnografo parla anche di noia, di duro lavoro senza nessun orizzonte di cambiamento o elevazione di stato sociale: De Martino dimostra come le pratiche rituali abbiano la funzione di scongiurare le ansie di un'esistenza segnata dalla povertà e dall'emarginazione, il tarantismo affondava pertanto le sue radici nel disagio individuale ed era un tentativo patologico di “avere voce” in quello che diventava il Sud “simbolico” del mondo intero – quello degli ultimi.

Alla malattia corrispondeva la cura, che era di tipo musicale, coreutico, durante la quale il soggetto veniva portato ad uno stato di trance nel corso di sessioni di danza frenetica, dando luogo a un fenomeno che è stato definito un “esorcismo musicale”. Gli strumenti – violino, organetto, tamburello e chitarra – hanno una funzione terapeutica, così come la danza non è affatto un isterismo sconnesso ma ha movimenti precisi e codificati nei secoli. Senza questa terapia musicale ci sarebbe una crisi isterica.

Nella danza questa donnine, anche molto anziane, possono ballare per ore e ore, anche per giorni interi. Ogni taranta vuol il suo ritmo e se non le piace cade a terra o diventa aggressiva. Per “uccidere” la taranta occorre mimare la danza del piccolo ragno, cioè la tarantella: occorre cioè danzare con il ragno, essere anzi lo stesso ragno che danza, identificandosi con lui ma, allo stesso tempo, anche combattere interiormente con il ragno, costringendolo a danzare sino a stancarlo, schiacciandolo con il piede che percuote violentemente il suolo al ritmo della pizzica.


© Annabella Rossi, 1960
© Annabella Rossi, 1960


Una volta guarite, o per chiedere al santo l'intercessione per la guarigione, ogni 28 e 29 giugno, le tarantate si raccolgono presso la cappella di San Paolo di Galatina, a Lecce. In questi due giorni si assisteva alle manifestazioni di possessione con danze sfrenate e rotolamenti al suolo sia nella strada davanti la basilica che nella cappella dedicata al santo che guarisce dal morso del ragno. Quando arrivò l'équipe di De Martino il pozzo nella cappella era stato già murato, ma nelle fotografie della giovane Samugheo era ancora aperto e le donne vi bevevano l'acqua giallastra (si dice fosse piena dei corpi triturati delle tarantole) che le faceva vomitare fino alla guarigione.

Il lavoro etnografico di De Martino su questo rituale fu in assoluto il primo lavoro di registrazione fono-fotografica sincrona nell'ambito di una indagine interdisciplinare. Franco Pinna portò a casa l'imponente numero di 464 negativi, così come sono storiche le registrazioni audio di Diego Carpitella.

Rimane un lavoro pionieristico che ha rese famoso in tutto il mondo un rituale contadino del sud dell'Italia.

È impossibile renderne conto qui in poco spazio. Ma è facile trovare informazioni perché molto si è scritto su questo lavoro e il tarantismo.



Comparativo. Io ho già avuto occasione di scrivere, in questo blog, sul rapporto che esiste tra musica e cura in diverse tradizioni popolari.

Inizialmente ne parlai a proposito della danza Kuda Lumping in Indonesia, poi sulle Babaylan in Filippine e il Pleng Arak in Cambogia.

Nel Kuda Lumping a Yogyakarta ho raccontato di come la mente vuota di pensieri, stordita dalla musica ipnotica del gong, dei flauti e dei tamburi che accompagna la danza, consenta ai jinn, gli spiriti, di entrare nel corpo della persona – fenomeno chiamato “kesurupan”, una vera a propria possessione che viene esorcizzata attraverso la stessa musica, con punizioni fisiche e facendo bere del latte che fa “vomitare” lo spirito maligno.

Le Babaylan filippine sono invece le antiche sacerdotesse, eredi della civiltà prearcaica e animista filippina che viveva ancora in simbiosi con la natura e i suoi spiriti, capaci, attraverso il canto, di curare i corpi e le menti malate.

È però con il Plang  Arak che le similitudini si fanno potenti.

Il Pleng Arak ha origine dalla parola Niot Lerng Rong, il cui significato è che gli spiriti preferiscono possedere le donne mentre nel Neak Ta gli spiriti prediligono gli uomini. Questi gruppi di musica tradizionale che ormai sono quasi del tutto scomparsi in Cambogia, e che risalgono addirittura all'epoca precedente Angkor, suonano per gli spiriti: li invocano, procurano loro piacere se sono in viaggio e li supplicano di abbandonarci se ci arrecano dolore o malattia. Avevano la stessa funzione terapeutica, coreutica, della pizzica salentina: le famiglie delle persone malate li chiamavano in casa e potevano andare avanti a suonare anche per giorni finché non giungeva la guarigione.

Ed ogni tipo di malattia aveva una melodia e un canto differente.

Lo spirito sceglieva il ritmo così come la tarantata sceglieva il ritmo su cui danzare, a secondo del ragno che la possedeva.

È incredibile pensare a questo filo invisibile che si annoda nei secoli accomunando le guglie delle stupa di Angkor Wat in Cambogia alle guglie della cappella di San Paolo a Galatina, nel sud dell'Italia.

Per De Martino quelli erano ormai gli ultimi anni di una tradizione ancora genuina, anche se poi nel libro sono state scattate foto fino agli anni Novanta. Adesso è rimasto solo il grande concerto “La Notte della Taranta” che riunisce ogni anno artisti da tutto il mondo.

Ma un tempo il Salento era parte di quella tradizione coreutica in cui jinn, ragni e spiriti dialogavano con gli strumenti musicali, così come nei villaggi in Filippine o in Cambogia.


© Franco Pinna, 1959
© Franco Pinna, 1959


Metodologico. L'introduzione di Maurizio Agamennone, “Fotografare il tarantismo”, suggerisce un tema molto interessante per me.

Parlando delle problematiche che l'équipe di De Martino dovette affrontare nell'estate del 1959, emerge quella metodologica. Fu infatti la prima volta che si usavano in una indagine sul campo delle riprese fono-fotografiche.

Così scrive Diego Carpitella:

Si è molto discusso, ed ancora si discute, sulla opportunità e legittimità di fare entrare gli strumenti fono-fotografici nel corso di un rito, di una cerimonia, ecc. Alcuni sostengono che questi strumenti alterano a tal punto la situazione che converrebbe affidarsi alle proprie risorse mnemoniche piuttosto che all'obiettivo e al microfono. Altri sostengono invece che gli strumenti moderni non solo danno la possibilità di studiare, dopo, la situazione cerimoniale, il rito, ma sono essi stessi un mezzo indispensabile dell'indagine scientifica, proprio perché nella cosiddetta alterazione che essi comportano, è spesso possibile misurare il tasso di “distrazione” o di “deperimento” di un rito, il grado maggiore o minore di sacralità o profanità dei partecipanti. (Carpitella, 1973)

Questa credo sia una riflessione da fare veramente importante.

Ogni volta che sono in un tempio, durante una cerimonia buddhista o induista o durante la preghiera islamica mi domando sempre quanto sia elevato il tasso di “disturbo” della mia presenza. Non c'è una volta che io non mi senta di troppo quando vedo gli occhi dei partecipanti rivolti verso di me mentre li fotografo. È capitato anche che, durante i recenti workshop, degli amici mussulmani in moschea abbiano chiesto ai partecipanti fotografi di non scattare durante la preghiera, perché il suono della macchina fotografica può essere una distrazione alla preghiera.

Quello che Carpitella scrive: in questo modo è possibile “misurare il tasso di “distrazione” o di “deperimento” di un rito, il grado maggiore o minore di sacralità o profanità dei partecipanti.” Ovvero, più i fedeli o gli attori del rito sono assorbiti e concentrati più la nostra presenza è ininfluente ai fini del rito stesso. Ma questa idea di “testare” la fede, la concentrazione o la convinzione dei partecipanti attraverso la mia macchina fotografica non mi piace, la avverto più come una violenza o una intrusione “colonizzatrice” per cui sono i partecipanti ad un rito che devono adattarsi alla mia presenza, invece penso che il nostro compito sia quello di testimoniare cercando di condizionare il meno possibile, essere evanescenti o diventare parte dello stesso rito.

Rimane una lezione storica la celebre fotografia di Koudelka durante un funerale nel suo epico libro “Zingari”, di cui ho già scritto qui.


© Chiara Samugheo, 1954
© Chiara Samugheo, 1954


Affettivo. Per ultimo, vorrei aggiungere un aspetto emotivo non da poco.

Io già sapevo delle tarantate ancora prima di iniziare a fotografare o aver letto il libro di De Martino, per il semplice fatto che mio padre è nato proprio a Galatina. Con la mia famiglia fin da quando avevo un anno, ho trascorso tutte le estati proprio in un paesino di mare a pochi chilometri da quella città, almeno fino ai trent'anni.

Mio padre mi raccontava sempre delle tarantate e quando andavamo a Galatina, a trovare i nonni quando erano ancora vivi, mi portava a vedere la basilica di San Pietro e la cappella di San Paolo.

Quando gli ho mostrato questo libro, guardando le foto, lui mi ha raccontato che già quando aveva 8 anni correva a vedere le tarantate il 28 e 29 giugno. Mio padre è del 1945.

Mi racconta che la loro casa dava sulla strada e già i giorni precedenti la festa vedeva i carrettini passare con le donne sopra che i lamentavano.

Poi andava a vedere quelle donnine che danzavano in piazza davanti la cappella di San Paolo; dentro non si poteva accedere, era solamente per i parenti delle ammalate, ma all'epoca il pozzo era ancora aperto, mentre nel '59 De Martino lo trovò già murato.

Mio padre mi dice che leggenda riporta che nel fondo del pozzo ci fossero le serpi vive. Lui ci ha sempre creduto, non pensa sia una questione di isteria perché anche lui da bambino raccoglieva il tabacco nei campi e si sentiva spesso di gente morsa dai ragni che poi come impazziva.

“Poi come fa una donna di ottant'anni a danzare per ore e ore sotto il sole?” Mi dice.

E aggiunge come questa donnine si arrampicavano sull'altare fino quasi al soffitto. E di quanto fossero importanti i colori, come scrive De Martino.

Un giorno venne in città una zia che abitava da tempo nel nord Italia; lei non ci credeva assolutamente e quel tempo venne proprio per la festa patronale di san Pietro e Paolo. Aveva un vestito tutto rosso, racconta mio padre, e andò come tutti in piazza a vedere le tarantate.

Dovette correre via, mi dice sorridendo, perché loro non gradivano il rosso e le si lanciavano contro in modo aggressivo. La zia scappò terrorizzata.

Poi gli ho mostrato il video che posto qui alla fine, e mio padre è rimasto in silenzio ad osservarlo. Di certo gli avrà riportato alle memoria i suoi genitori, la sua infanzia, gli amici. Tutto perso, ormai.

Ma grazie a queste immagini, ai video, non vengono dimenticati mai.

Questo è il potere della documentazione.

Se fatta con rispetto e studio, allora ha un valore fondamentale.

Non testimonia solo riti, cerimonie e tradizioni popolari che andrebbero perse, ma anche gli affetti.

E l'amore degli affetti è un veleno che non vorremmo mai esorcizzare ma continuare a danzarlo fino alla fine dei nostri giorni.


“Le spose di San Paolo – Immagini del tarantismo” a cura di Maurizio Agamennone e Luigi Chiriatti (Kurumuny, 2021)
Ernesto De Martino: “La terra del rimorso. Il Sud, tra religione e magia” (NET – Il Saggiatore, 2002)
Archivio storico, De Martino:


English version

Comments

  1. Straordinario filo invisibile che tu, Stefano, rendi visibile! Grazie!
    "È incredibile pensare a questo filo invisibile che si annoda nei secoli accomunando le guglie delle stupa di Angkor Wat in Cambogia alle guglie della cappella di San Paolo a Galatina, nel sud dell'Italia."

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