ចេះឯងអោយក្រែងចេះគេ។
“Cheh eng oay kreng cheh keh.”
“Puoi sapere molto, ma anche rispettare la conoscenza degli altri.”
(Proverbio Khmer)
Siem Reap, Cambodia. © Ishu Patel |
Ci sono storie che cadono dentro altre storie.
Si perdono lontane nel tempo, risalendo i decenni come salmoni in un
fiume.
E proprio i fiumi congiungono i luoghi e i tempi di questa vicenda.
Dal tortuoso Siem Reap che si avviluppa intorno al magico sito del
tempio Angkor Wat, tuffandosi nelle acque più vaste del fiume Tonlé Sap che,
con i suoi 120 chilometri, attraversa il cuore della Cambogia, nutrendo delle
sue acque dolci il grande lago che porta lo stesso nome, facendolo sposare al
Re dei fiumi, il Mekong, per poi allontanarsi verso sud fino a lambire Kampong
Chhnang, prima di raggiungere la capitale Phnom Penh.
La storia che sto per raccontarvi è bagnata da quelle dolci acque.
Ly Mut, sedeva a terra con i suoi 84 anni di rughe e pelle bruciata dal
sole, nei pressi dell'antica casa in legno issata sui piloni, mentre accordava
come ogni mattina il tro* khmer, con la cassa fatta di noce di cocco
rivestita di pelle di serpente.
Viveva ormai da anni con tutta la sua famiglia nel villaggio di Prey
Sak, non distante dalla città Kampong Chhnang. Preferiva la vita calma di
villaggio anche se sapeva bene che avere la città a poche miglia era necessario
per il lavoro dei figli e la scuola dei nipoti; e comunque, anche se era una
piccola provincia, distava appena 90 chilometri dalla capitale Phnom Penh.
Come si dice, era un uomo di altri tempi, ma era intelligente da capire
le necessità di una vita moderna.
Gli era sufficiente tenersi allenato con il suo strumento e bere il suo
bicchierino di sraa tram*, cullato dai versi degli uccelli dalla
vegetazione e le voci provenienti dalla sua casa e quelle vicine.
Bopha si avvicinò come al solito con il suo piatto di baw baw* a
piedi scalzi nella terra rossastra.
Bopha era la nipotina più piccola, di dieci anni, e lei era affezionatissima
a suo nonno; ogni settimana aspettava trepidante che arrivasse il sabato per
stare con lui. All'inizio non voleva andare a scuola, ma il nonno le fece
capire che doveva ritenersi fortunata perché ancora adesso moltissime bambine
della sua età non potevano frequentare la scuola.
“Vuoi andare a lavorare nei campi domani mattina? E tornare a casa la
sera? Ogni giorno della settimana?”
Le disse un giorno il vecchio Ly con occhi severi.
Bopha scosse la testa così forte che il nonno la prese in giro.
“Stai attenta che il tuo nome significa fiore, se scuoti la
testa con tale vigore poi rimani senza petali!”
Alla fine non le dispiaceva neanche poi troppo andare a scuola, anzi,
era la scusa per vedere la città. E il fine settimana poteva stare con suo
nonno.
Aveva una fitta capigliatura nera quasi riccia, e le labbra piccole e
carnose come un bocciolo.
Poteva trovare suo nonno a occhi chiusi, lui non cambiava mai il posto.
Seduto a terra su uno stuoino di fili di bambù, trascorreva le ore
della mattina accordando e pulendo con un panno la cassa dello strumento.
Bopha si avvicinò a lui.
“Chao*, buongiorno...” Disse il nonno con un sorriso mentre
pizzicava le tre corde del tro.
La bambina posò il piatto a terra vicino a Ly Mut e lo salutò con un
sampeah*, le mani congiunte con gli indici a toccare le labbra e un cenno
profondo del capo. Poi gli sorrise e si sedette davanti a lui, tornando a
mangiare affamata, con le dita della mano punteggiate dal bianco dei chicchi di
riso ammorbiditi dalla zuppa.
Erano appena le prima ore del mattino ma già l'aria era umida e gli
abiti si appiccicavano alla pelle.
Bopha amava vedere con quanto amore suo nonno si prendeva cura del suo
strumento. Ormai era raro che lo suonasse con il suo gruppo, ma non vi era
giorno che non lo accordasse e ne lucidasse il corpo.
“Suona bene?” Gli domandò la nipotina senza cogliere nessuna
differenza.
Il vecchio annuì, con l'orecchio vicino alle corde.
“Sì, chao*, anche se queste corde in metallo non potranno mai
suonare come le antiche corde di seta.”
“Quando tornerai a suonarlo, tha*?”
Le chiese Bopha con gli occhi intenti a seguire le dita del nonno sullo
strumento e la fronte imperlata di sudore.
“Mah...” L'anziano poggiò il tro tra le gambe e tornò a
sorseggiare il suo vino di riso con la schiena dritta.
“Ormai questa nostra musica non è più di moda”, pronunciò ogni parola
con una pesantezza della voce che contrastava con il sorriso placido del volto.
“Ancora si usa suonarla nelle zone rurali, ma nelle città le nuove generazioni
neanche sanno più la differenza tra Pleng Arak e Neak Ta. Quando ero giovane
questa era una delle musiche più popolari; le persone la richiedevano sia nelle
cerimonie spirituali che nei matrimoni. A volte anche affinché piovesse o per
curare le persone.”
Bopha pendeva dalle labbra color legno del nonno.
“Che differenza c'è tra Pleng Arak e Neak Ta?”
Ly Mut sorrise, felice dell'interesse della nipotina.
“Devi sapere che questa è una delle musiche più antiche della nostra
tradizione, risalente addirittura a prima dell'epoca di Angkor Wat!” Disse Ly
Mut avvicinando il viso rugoso a quello di Bopha per farle sgranare gli occhi e
la bocca. Poi tornò con la schiena ritta come una canna di bambù e tirò un
altro sorso di sraa tram.
“Pleng Arak ha origine dalla parola Niot Lerng Rong, il cui
significato è che gli spiriti preferiscono possedere le donne mentre nel Neak
Ta gli spiriti prediligono gli uomini. Noi suoniamo per gli spiriti: li
chiamiamo a noi, diamo loro piacere se sono in viaggio, supplichiamo di
abbandonarci se ci arrecano dolore o malattia. Siamo noi suonatori che
eseguiamo le canzoni che piacciono agli spiriti.”
Bopha non riuscì a trattenere il sorriso. Anzi, si coprì la bocca con
la mano e iniziò a ridere.
“Wuhhhh!!!!! Gli spiriti!” Esclamò sorridendo con le braccia tese ai
lati agitandole come ali di farfalla.
“Ma veramente tha credi agli spiriti e ai fantasmi?” Disse la
bambina cercando di trattenere la risata per non offendere troppo l'anziano
uomo.
Ly Mut rilasciò un lungo sospiro vellutato di alcol dolce con gli occhi
rivolti verso il fondo del bicchierino vuoto.
“Certamente che ci credo. Gli spiriti esistono...” Affermò il nonno con
un tono di voce più stanco.
Bopha si sentì in colpa, guardò il bicchiere di fianco ai suoi piedi e
disse provando ad alzarsi: “Ti vado a prendere altro sraa tram, tha,
e del baw baw...”. Ma il nonno la afferrò per un braccio e la trattenne
davanti a lui.
“Non fa niente, stai qui. Dopo vado a prenderlo io.”
Vilaggio di Choeung Ek, Cambodia. © Ishu Patel |
La bambina tornò a sedersi, allontanò il piatto vuoto con zampe di
gallina e qualche foglia tritata di verdura ai bordi e incrociò le gambe con i
gomiti puntati sulle ginocchia e il mento poggiato sui palmi delle mani come
una pietra preziosa incastonata in un anello.
“Ascoltami bene. Le tradizioni sono la spina dorsale di una nazione;
sono la linfa di un popolo come per una pianta. Le nuove generazioni tendono a
dimenticare, ad ignorare. Ridono di ciò che è sacro. Questo è il preludio della
rovina, dell'oblio.
Tutto è tradizione. Ne siamo circondati e innervati. Guarda! Perché i
miei denti hanno placche di argento e il rosso del betel?”
E con l'indice tirò in basso un lato del labbro inferiore per mostrare
i denti alla bambina.
Bopha guardò i denti scuri del nonno e scosse la testa.
“Perché nella nostra cultura i denti bianchi sono considerati di
cattivo auspicio. Capisci? Ogni cosa ha una ragione. Certo, non tutto ciò che
ci identifica come popolo khmer si è originato spontaneamente: prendi il sampot*!
Pare che fu K'ang T'ai, il primo ambasciatore giunto dalla Cina a visitare
Angkor a chiedere al Re di Fuan, il nostro primo impero, di far coprire gli
uomini che giravano ancora completamente nudi.” Disse il vecchio con un
sorriso, ma tornò subito serio, sempre fissando i due occhi neri e grandi della
nipote, incorniciati dai capelli.
“Non sorridere quando si nominano gli spiriti. La mia musica è un
omaggio alla profonda fede spirituale che ognuno di noi ha per i nostri
antenati. E non credere che gli spiriti siano solamente i khmoc*”, e
aggiunse contando come le dita della mano alzate ad ogni nome che pronunciava,
“...ci sono i pret e i besach, i demoni cattivi di chi è morto in
modo violento, prematuro o in modo innaturale, gli arak, gli spiriti
maligni femminili, i neak ta, gli spiriti tutelari degli oggetti
inanimati, i mneang phteah, i guardiani delle case, i meba, gli spiriti
ancestrali, i mrenh kongveal, gli elfi guardiani degli animali...”
“Basta! Basta così, tha!” Esclamò Bopha abbracciandosi da sola
con un brivido che le corse dietro la spina dorsale.
Ly Mut sorrise con tenerezza vedendo la bambina guardarsi intorno con
occhi preoccupati.
“Non temere, gli spiriti raramente vengono per farci del male. Per
questo noi offriamo loro continuamente cibo e preghiere, oppure le nostre
canzoni.”
Bopha sembrò calmarsi. Con la punta del dito raccolse un po' di riso e
una foglia di verdura dal bordo del piatto e lo succhiò quasi a scacciare i
brutti pensieri.
Allora l'anziano impugnò di nuovo il tro, mise la cassa rotonda
tra le gambe e iniziò a pizzicare le corde con lo sguardo che attraversava
tutto il villaggio fino a perdersi nella vegetazione avanti a lui.
“Però ci sono anche storie che sono come ombre che si allungano al
suolo fino a lambire i nostri piedi...”
Bopha tornò con il mento tra i palmi delle mani e fissò il nonno:
“Veramente? Che storia, tha?”
“Oh... È una storia che si perde indietro nel tempo, prima che la
Cambogia conoscesse l'incubo di Pol Pot e del suo delirio criminale. Arriva
addirittura agli inizi del secolo e ha come protagoniste due donne, una ragazza
e una bambina quasi della tua età.”
Bopha sgranò gli occhi. Questa era una delle ragioni per cui ogni
settimana aspettava che giungesse il sabato, non tanto per non andare a scuola
ma per poter trascorrere queste ore con il nonno e le sue incredibili storie.
Intanto intorno a loro si stava animando il villaggio, tra i bambini
che correvano e giocavano e le donne che si trovavano a parlare tra galline,
cani e qualche scimmia. Ma a Bopha non importava, era come avvolta in una bolla
di sapone in cui vi erano solamente lei e il nonno.
Vita di villaggio vicino Angkor Wat, 1919-1926 circa. Fotografo sconosciuto. |
Ly Mut si rollò una sigaretta, aspirò con gli occhi chiusi e rilasciò
il fumo che salì in cielo disgregandosi in batuffoli bianchi.
“Questa storia accadde agli inizi del secolo scorso, in un piccolo
villaggio nella foresta a fianco di Angkor Wat, quando la Cambogia era un paese
pacifico immerso nel verde e abbeverato dai suoi grandi fiumi. Nel distretto di
Kouk Chak vi era un piccolo villaggio non distante dalle acque del Siem Reap.
Immagino conosci la meravigliosa storia di Angkor Wat, chao?”
Domandò il nonno alla bambina, la quale dondolò la testa come a confermare ma
con esitazione.
“Quello che vedi ora, e che da ogni parte del mondo vengono a visitare,
è solo una crisalide abbandonata dell'imponente e maestoso capolavoro che fu.
La nostra è una lunga epopea nata sulle fondamenta del regno di Funan, il primo
grande stato indo-cinese, la cui capitale era Vyadhapura, “la Città dei
Cacciatori”, sorta sulle rive del Mekong. Lo sai da dove deriva il nome del
nostro paese?”
Bopha, incantata dalle parole del nonno come un cobra dal flauto, scosse
la testa.
“Ma che vi insegnano a scuola?!” Sbottò il nonno in una nube di fumo
denso.
“Cambogia era l'antico stato khmer del Chenla, dell'antica dinastia dei
Mon-Khmer, chiamata la “dinastia solare”, fondata dall'unione del mitico asceta
Kambu e l'apsaras*, o ninfa celeste, Mera, per cui il suo popolo venne
chiamato Kambuja, “i figli di Kambu”.
“Lasciamo stare”, disse il nonno scacciando
una mosca davanti il viso.
“Comunque, secondo il mito cosmologico induista, la dimora degli dèi si
trovava sulla cima del Monte Meru, all'epicentro dell'universo, perciò tutti i
luoghi di culto vennero edificati sulle alture. Ogni re voleva il suo
tempio-montagna a sancirne il potere e la tomba quando moriva, perciò i re
successivi non potevano godere dello stesso tempio ma ne dovevano innalzare un
altro, ecco perché la nostra terra ha più templi che alberi.”
Bopha sorrise e si tolse i capelli davanti gli occhi, asciugando il
sudore con il bordo della maglietta.
Angkor Wat fu il tempio-montagna dedicato a Visnu del devaraja
Suryavarman, unico rivolto verso l'ovest dove tramonta il sole, dedicato alla
morte e al buio, ecco perché fu edificato nella periferia della città, nella
foresta, perché i morti non dovevano dimorare dove vi erano i vivi.”
Bopha fu attraversata da un altro brivido e, con piccoli movimenti, si
avvicinò di più ai piedi del nonno.
“Per costruirlo vi lavorarono migliaia di tagliatori che sgrossarono le
pietre prima, poi capimastri, architetti, disegnatori e studiosi indù. Era
imponente e meraviglioso. Va da sé che dopo i fasti dell'impero del primo re,
il tempio più grande del mondo sopravvisse fino al re Suryavarman II nel 1150,
poi fu saccheggiato dai nostri storici nemici Chams nel 1177 e dall'esercito
thai nel 1431, per essere abbandonato e inghiottito dalla foresta.”
Bayon Temple. Angkor, 1998. © Steve McCurry |
Ly Mut si fermò un attimo e chiese a Bopha di prendergli un altro
bicchiere di vino di riso; la bambina saltò in piedi come un grillo e scomparve
nella casa per tornare in meno di un minuto con il bicchiere tra le mani. Il
vecchio prese il bicchiere sorridendo: “Sei più veloce di un battito di ali di
un mohary*!”
“Torniamo alla nostra storia”, disse Ly Mut ingollando un sorso della
bevanda.
“In questo piccolo villaggio viveva una giovane donna di nome Mony.
Aveva appena qualche anno più di te ed era incinta del primo figlio.”
Bopha lo interruppe: “Ma come, così piccola già era incinta?”
Il nonno sorrise della domanda ingenua della nipotina.
“Sai cosa scriveva l'inviato cinese Chou Ta-kuan a proposito delle
donne khmer mentre soggiornava ad Angkor alla fine del 1200?”
Bopha scosse di nuovo la testa.
“Che a venti o a trent'anni sembravano donne cinesi di quaranta o
cinquant'anni. Perché alla tua età erano già sposate e con figli. Certo, era
mezzo secolo prima ma, fidati, non era poi così troppo diverso all'epoca di
Mony.
La vita al villaggio era simile a quella di quando ero io bambino.
Tutto ciò che ci occorreva era nella foresta e nel fiume. Così ogni mattina
Mony si recava al vicino fiume di Siem Reap a lavare gli abiti e a prendere
l'acqua.
Fino al giorno dell'eclisse.”
Ly Mut si interruppe e guardò con sguardo severo Bopha: “Immagino a
scuola non vi hanno nemmeno detto dell'eclisse? La sua origine...”
Bopha allargò le mani davanti al viso come per dire che non era colpa
sua se non lo sapeva.
“Poveri noi....”, sospirò il vecchio scuotendo la testa con la mano
intenta ad accarezzare la pelle di serpente che rivestiva la cassa del tro.
“Narra l'antica leggenda khmer che l'eclisse solare iniziò quando tre
fratelli fecero un'offerta di riso ai monaci. Il primo fratello che lo offrì in
una ciotola di bronzo fu tramutato in un mostro nero chiamato Reahou. Il
secondo fece la sua offerta in una ciotola d'argento e fu trasformato nella
luna. Il terzo offrì il riso in una ciotola d'oro e fu trasformato in sole. Da
allora l'eclissi lunare avviene quando Rehaou ingoia la luna e quella solare
quando ingoia il sole. Da qui il nostro modo di dire kreas konlong, di
qualcuno che è pazzo, che significa “Rehaou ti salta addosso.”
Bene, si credeva all'epoca, e tutti quelli della mia generazione ancora
ci credono, che una donna non doveva mai essere colta fuori di casa
dall'eclissi solare se era incinta, altrimenti la sventura l'avrebbe segnata. E
così fu...”
Bopha deglutì un grumo di saliva e si preparò al peggio...
CONTINUA...
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