(Josef Koudelka)
Josef Koudelka. “Veglia funebre”, 1963 |
Inevitabile che debba parlare di Josef Koudelka, il fotografo ceco nato
nel 1938.
Perché è inevitabile? Perché il suo libro “Zingari” fu uno tra i primi
che comprai e rimane, per me, il libro di fotografia più bello, quello da avere
assolutamente.
Josef Koudelka |
È risaputa la sua storia, di come una telefonata gli stravolse la vita.
“Il telefono squilla alle 4 del mattino, un'amica grida: “Sono arrivati i russi.” […] Capisco che sta succedendo qualcosa. Mi vesto in fretta, prendo la macchina fotografica e tutte le pellicole che mi sono rimaste, ero tornato solo il giorno prima dalla Romania, dov'ero stato a fotografare gli zingari.”
Ha 30 anni, quel 21 agosto del 1968. Scatta la foto iconica sulla
spianata deserta di San Vanceslao deserta, il 22 agosto, con il suo orologio in
primo piano per far capire che ora era.
Scatterà 200 rullini che rappresenteranno uno dei più grandi reportage
della storia sulla repressione nel sangue della Primavera di Praga.
I rullini lasciarono Praga nascosti nella valigia di un medico che era
venuto in città per un congresso; raggiunsero l'agenzia Magnum e finirono
pubblicarti sul periodico “The Sunday Times” firmati solamente con le iniziali
P. P. (“Fotografo Praghese”) per evitare ritorsioni a lui e alla sua famiglia.
Fu grazie alla Magnum che poté abbandonare Praga e vivere in esilio per 20 anni, senza poter
dire ai suoi genitori che quelle fotografie che stavano facendo il giro del
mondo e vincevano premi su premi erano le sue.
Moriranno senza saperlo mai.
Piazza San Vanceslao, 1968 |
Fu allora che tornò al suo progetto sugli zingari del centro Europa, perché come si dice spesso Koudelka era nomade nel cuore.
Emblematico l'aneddoto che racconta Alex Webb:
“Qualche anno fa mi trovavo seduto sulla metropolitana con Josef Koudelka, che non vedevo da diversi anni. Improvvisamente Josef si è piegato in avanti a mi ha afferrato la scarpa, girandola per guardare la suola. Con il suo modo di fare diretto, tipico della cultura ceca, voleva accertarsi che avessi camminato abbastanza – e quindi fotografato abbastanza.”
La personalità di Koudelka è affascinante e complessa, misteriosa come
il Ponte San Carlo d'inverno, per chi ha visitato Praga e capisce bene cosa
intendo.
L'esilio lo segnò profondamente ma lo rese capace di un modo diverso di vedere.
“Quando vivi in luogo a lungo, diventi cieco perché non osservi più
nulla. Io viaggio per non diventare cieco.”
È durante l'esilio che torna a lavorare al reportage sugli zingari,
come ho detto.
La prima versione del 1908 non riuscì ad essere stampata nel 1970
perché fu costretto a lasciare Praga.
A Parigi torna su quelle fotografie: 60 immagini scattate nei campi rom
della Slovacchia tra il 1902 e il 1908, uscito nel 1975 con il titolo “Gitans”.
La versione attuale, che si trova in libreria, è quella ampliata a 109
fotografie scattate nell'ex-Cecoslovacchia, in Romania, Ungheria, Francia e
Spagna tra il 1962 e il 1971.
1969 |
È un libro struggente, con un inchiostro nero che sembra macchiare le
dita, granuloso e vivo.
Non gli interessa rappresentare in modo didascalico la vita degli zingari (prima che il termine rom entrasse nel vocabolario, più educato ma meno verace), o fare un reportage sociale.
“Volevo parlare della vita, cosa c'è di più universale? Non volevo fare
un documentario storico ma parlare dell'esistenza, dai bambini alla morte,
questo mi interessava.”
Questo lo rende un libro mitico, almeno ai miei occhi; come quando
leggi l'Odissea, i “Fratelli Karamazov”, il “Don Chisciotte”. Sai che hai tra
le mani qualcosa che è fuori dall'ordinario.
Ogni fotografia è pregna di vita, di emozioni, di totale assenza del
minimo pregiudizio.
Lui ci viveva con gli zingari, li segue nelle loro feste, nei carri
durante gli spostamenti, nella case povere e sporche, davanti corpi nudi,
selvaggi, allegri, di bambini splendidi e anziani dalla pelle rugosa come
fossili.
Fotografando sempre con un atipico grandangolo, che lo fece tremare
quando Cartier-Bresson gli chiese di mostrargli le sue foto, perché sapeva che
il maestro francese odiava il grandangolo.
Ma Koudelka non lo usava a distanza per racchiudere spazi ampi, bensì a
stretto contatto con le persone, per includere ogni emozione e odore possibile.
Non a caso Cartier-Bresson scelse per lui due foto, una dell'uomo in
manette e l'altra della veglia funebre del 1963.
Questa è la foto che Koudelka amava di più, ed io concordo totalmente e
l'ho mostrata in ogni workshop che ho tenuto sui Maestri della fotografia.
1963 |
Chiunque fotografa sa quanto sia difficile essere invisibile agli altri, essere ombre dei soggetti che si fotografano.
Noi ci siamo, con la nostra presenza, la macchina fotografica e i suoi
suoni, il nostro sguardo che pesa.
Questo accade in accordo con il livello di intimità che noi riusciamo a
stabilire con le persone davanti a noi. Più siamo distanti e “sconosciuti”, più
sarà impossibile agire in modo discreto, silenzioso.
Ma se noi riusciamo ad entrare nell'area privata che ogni corpo ha attorno a sé, se riusciamo a diventare parte della famiglia, cessiamo di essere i fotografi, e diventiamo carne della stessa carne che impugna una macchina fotografica come potrebbe essere una sigaretta o un frutto o uno stuzzicadenti.
Non ci si nota più.
1967 |
Solo in quel momento la foto diventa unica, meraviglioso simbolo di
questa condivisione di presenze comuni.
Va spiegato questo perché, a chi non fotografa, potrà sembrare una
semplice fotografia di una veglia funebre, niente di trascendentale.
Perciò bisogna dire e ripetere che questa è una fotografia di una
difficoltà incredibile, perché nonostante il momento sia così privato e carico
di dolore, affollato di sofferenza, non c'è una singola persona adulta che si
volti a guardare Koudelka che scatta la foto: come se il suono della sua
macchina fotografica e la sua presenza fossero come le lacrime e i sospiri
delle persone in quella stanza.
Solo i bambini lo guardano, ma si sa, i bambini non fanno parte del
nostro mondo, hanno una loro dimensione particolare con regole tutte loro che
solo Saint-Exupéry ha saputo descrivere in modo perfetto con “Il Piccolo
Principe”.
È una foto magica, insuperabile.
Che la osservi una, dieci, cento volte e sospiri di tanta bellezza.
E pensi che nessuno potrà mai più fotografare gli zingari meglio di
come ha fatto Koudelka.
Però questo non deve essere una falce che taglia le gamba delle nostre
ambizioni.
Bensì un invito ad aspirare a
poter scattare un giorno fotografie che si avvicinino a queste, a raggiungere quell’empatia
totale con chi è completamente lontano da noi.
Ad aprire gli occhi.
A non essere ciechi.
1967 |
Josef Koudelka: “Gypsies” (Contrasto, 2011)
Mario Calabresi: “Ad occhi aperti” (Contrasto, 2013)
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