Gianni Berengo Gardin. Scanno. 1987 |
cresce solo nella stagione avanzata.”
(Proverbio africano)
Ultimamente è un tema ricorrente quello della condizione sociale degli anziani. Questa pandemia ha colpito loro, in primo luogo, perché più deboli e già malati.
Essere anziani è diventata una debolezza ancora più dolorosa, perché è
diventata l'emblema della caducità umana, adesso molto più del solito.
Non solo, ma con immensa amarezza si è sentito spesso parlare di una
scelta da fare, da parte dei medici o dei governatori di regione, nel curare in
precedenza i giovani malati, perché il tempo è tiranno e i posti letto negli
ospedali scarseggiano, perciò...
È meglio che...
Con il pudore di non dire, ma lasciando intendere.
In questi mesi si sono ascoltate storie umane terribili e di profonda
tristezza: anziani lasciati a sé stessi, malati e senza possibilità di essere
accuditi dai propri figli, o dar loro l'ultimo saluto prima di morire, perché
questo male non solo mina il fisico ma anche l'aspetto sociale, isolandoci e
recludendoci nelle nostre solitudini.
Fino alla morte.
Io ho già scritto sul tema della vecchiaia, e a proposito dei miei
nonni sulla foto di Ferdinando Scianna.
I miei genitori si stanno avviando verso l'ultima fase della loro vita,
e non smetto mai – ogni giorno – di buttare un occhio alla loro pelle, alle
loro rughe, quasi a contarle.
Un grande pensatore diceva che il segreto di una vita intensamente
vissuta è la consapevolezza a sé stessi. Io provo a ricordarmelo ogni giorno,
cercando di imprimere a mente ogni piccola variazione dentro e fuori di me, e
sulle persone che amo – i miei genitori sopra a tutto.
Mentre mangiamo e parliamo del più e del meno, parte dei miei occhi
contano le rughe del viso di mia madre, e quanto il corpo di mio padre tende a
piegarsi, il respiro affannoso.
E provo pena, perché la vecchiaia è una delle poche cose che è
inarrestabile.
Come una foglia che procede spedita sulla corrente di un fiume, tra
rocce e vortici, fino a dove deve andare.
Allora torniamo alla mitologia, perché la sociologia mi rende triste,
troppo volte ho studiato sui saggi di Bauman e Galimberti, quando preparavo la
tesi di laurea.
E ho già scritto di come la vecchiaia, come la malattia e i morti, sia
la spazzatura che l'Occidente nasconde sotto il tappeto di mura chiuse per non
essere vista ogni giorno, perché ci ricorda quale è il nostro inesorabile
destino, che spaventava gli antichi allo stesso modo di oggi: il vuoto,
l'assenza, la scomparsa.
Ultimamente sono tornato alla mitologia, come alle divinità indiane,
perché quando senti avvinarsi la fine, è meglio provare a tornare agli inizi.
Nella mitologia greca, Geras (in greco antico: Γῆρας, Gễras) era il dio
della vecchiaia. L'anzianità era considerata una virtù poiché la gēras dotava
di maggior kleos (fama) e arete (eccellenza e coraggio) l'uomo.
Secondo Esiodo, Gēras era figlio di Nix, la Notte, insieme a Nemesi (la
Collera divina), Inganno, Tenerezza ed Eris (la Discordia).
Era raffigurato come un piccolo vecchietto raggrinzito. L'opposto di
Gēras era Ebe, la dea della giovinezza. Il suo equivalente romano era Senectus.
Queste due varianti della divinità hanno dato luogo alle due parole per
la vecchiaia.
Senectus ha figliato in latino sènex, senium, senìlem,
ovvero senile, ciò che invecchia, con la stessa radice sanscrita sànas, sanaka.
Mentre dal dio greco Geras deriva la gerontologia, la scienza che ha
per oggetto lo studio dei fenomeni biologici peculiari della senescenza e della
senilità, costituendo, quindi, la base dottrinale della geriatria, che
rivolge invece la sua attenzione essenzialmente alle patologie dell’età senile.
Eracle e Geras. Pelike attica a figure rosse, ca. 480-470 a. C. |
Che belle le etimologie; ma ancora di più i miti.
Il dio della vecchiaia è nato dalla Notte. Immagino perché, per gli antichi greci, era facile identificare la vecchiaia con l'ultima parte del giorno, quando il sole si nasconde e arriva l'oscurità, e non è possibile fare più nulla se non sdraiarsi e chiudere gli occhi.
“L’eterno riposo, dona loro, o Signore” recita l'inizio della preghiera
cristiana per i defunti, che in latino suonava: “Rèquiem aetèrnam”.
Ho già raccontato del mito di Eos, l'Aurora. Bene, ad essa è legata il
mito dell'eterna vecchiaia di Titone, amato alla follia della dea che implorò a
Zeus di donargli l'immortalità affinché potesse amarlo tutta la vita,
dimenticando però di chiedere anche l'eterna giovinezza, così che il povero
Titone fu condannato ad una vecchiaia senza fine.
Ridotto allo stremo e accudito da Eos dentro una cesta di vimini, fu
trasformato in cicala per volere divino.
Buffo, una cicala, che è colei che canta durante il giorno e nel caldo
torrido, ma se canta la notte è simbolo della fragilità umana.
Diventata la musa dei poeti, che canta la bellezza e la caducità, così
come Titone che non smetteva di cantare le lodi della vita, in un eterno
invecchiamento.
Non a caso gli antichi cinesi mettevano una cicala di giada nella bocca
dei defunti, come simbolo dell'immortalità umana.
Io mi perderei senza fine in questo labirinto di storie, miti, leggende
ed etimologie.
Ma, magari a voi che leggete non importa nulla.
Che ha a che fare la cicala di giada con mio padre o mia madre? Oppure
la povera Eos che, dimenticando di specificare i suoi desideri, ha condannato
l'amato ad una eterna vecchiaia senza morte?
È che la vecchiaia è tutto questo.
È parte del mito, è qualcosa che non può essere dimenticato nel chiuso
di una casa di cura, oppure sacrificato a vite più giovani, perché tanto ormai
hanno già compiuto il loro cammino, sono già alla fine, perciò tanto vale...
E si tace.
Invece, proprio per quel lungo cammino compiuto che gli anziani vanno
venerati, protetti, amati.
La cultura africana non è il mio forte, ma amo leggere i proverbi
africani raccolti dall'antropologo Marco Aime.
“Se un bambino sa qualcosa, l'ha imparato da un anziano.”
Recita uno di questi proverbi, ed è una grande verità.
Una delle leggende africane dice che la vera vita è quella in cui si
invecchia con il tempo e mai prima del tempo.
Una saggezza profonda quanto l'antica mitologia greca.
Quando saremo in grado di capire questa verità, nella sua essenza,
avremo capito quanto abbiamo perso, dimenticando i nostri anziani.
Pensando che essi sono sacrificabili, al mito dell'eterna giovinezza e
dell'immortalità.
Io, nel frattempo, continuo a contare le rughe del volto di mia madre,
a tavola.
E con le sue, inizio a contare anche le mie.
Rom. Roma – 28 Marzo 2017 |
Gianni Berengo Gardin: “Scanno – Un paese che non cambia mai” (Baldini, 1987)
Marco Aime: “Il soffio degli antenati – Immagini e proverbi africani” (Einaudi – I Maverik, 2017)
"(...)Invece, proprio per quel lungo cammino compiuto che gli anziani vanno venerati, protetti, amati."
ReplyDeleteAnch'io come te, conto le rughe di mia mamma e la tengo con me, a casa mia e la proteggo. Di mio papà conservo invece il ricordo di un viso bellissimo, giovane in quanto il mio eroe è morto a 48 anni, la mia stessa età di adesso.
E passando per i ricordi e le paure dovute alla crisi sanitaria, per la lettura piena di significati, prometto a me stessa di essere più paziente con la mia dolce mamma.
"Il dio della vecchiaia è nato dalla Notte. Immagino perché, per gli antichi greci, era facile identificare la vecchiaia con l'ultima parte del giorno, quando il sole si nasconde e arriva l'oscurità, e non è possibile fare più nulla se non sdraiarsi e chiudere gli occhi."
Grazie di cuore Adriana, dai un bacio alla mamma 😘
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