La Fabbrica Della Permanenza

"Non voglio ricordare né conoscermi. Siamo troppi se guardiamo chi siamo." (Fernando Pessoa)

 

 Chino Otsuka. “Imagine finding me”, 1997 e 2009. Jardin du Luxemburg, Paris 2009


C'è una giovane fotografa giapponese, Chino Otsuka, che ama interrogarsi sul suo passato, sull'infanzia, soprattutto nel lavoro “Imagine finding me” del 2005, in cui mescola in modo digitale immagini di lei al presente in vecchie foto dove lei appare bambina o ragazza.

Sono immagini stranianti, ma anche profondamente malinconiche, dolci e buffe come solamente i giapponesi sanno essere; in pose tenere ma con un retrogusto triste. “Le cose non sono del tutto passate o presenti, o da qualche parte nel mezzo... ciò si riflette nella mia educazione, dove non sono né qui né lì, e non sono davvero giapponese o inglese,” dice lei.

Chino Otsuka. “Imagine finding me”, 1980 e 2009. Nagayama, Japan 2009

In un altro suo lavoro, “Photo Album”, mostra una serie di scatti a vecchi album fotografici da cui lei ha rimosso le fotografie per lasciare solo gli spazi vuoti, o le didascalie e gli appunti, scritti a mano.

Nella prima serie ci sono due lei, in una dimensione zero del tempo, dove il presente collassa nel passato: “Man mano che il processo digitale diventa uno strumento, quasi come una macchina del tempo, intraprendo un viaggio nel tempo a cui appartenevo, diventando al contempo una turista della mia storia.”

Nel secondo lavoro lei ci chiede di immaginare le fotografie invisibili che hanno riempito gli spazi vuoti. Da una parte un eccesso di esistenza, nell'altro il suo vuoto.

Chino Otsuka. “Photo Album” No. 4, 2012
 


Io sono affascinato dal tema della memoria, dalle foto antiche, dal rapporto personale o famigliare con le immagini. Il padre del fotografo Ferdinando Scianna fotografava le persone per le immagini sulle lapidi, e tuttora nei suoi scritti si legge questo suo fascino per il mistero che c'è in questa relazione tra fotografia e memoria, come era anche nel titolo di un suo famoso libro.

Ho già parlato di un lavoro molto romantico che ho avuto la fortuna di acquistare tempo fa, che poi non è neanche un libro ma sembra un vecchio giornale, che è Father and Son di Richard e Pablo Bartholomew, stampato da Fishbar nel 2011 in mille copie, in cui Pablo, il figlio fotografo, recupera e stampa le fotografie scattate da suo padre Richard, fuggito dal Myanmar  durante l'attacco giapponese nella Seconda Guerra Mondiale. 

Arrivato in India, il padre si sposa con Rati, e crescono Pablo a cui trasmette l'amore per la fotografia, terminando là un'esistenza intrisa di arte e cultura. A distanza di molti anni dalla sua morte, Pablo, per amore verso il padre, porta avanti il suo lavoro e pubblica questo lavoro diviso in due parti speculari: la prima con le foto scattate dal padre, in cui c'è anche Pablo da bambino, e poi quella del figlio diventato adulto e fotografo di professione, tra cui anche i ritratti di suo padre.

Richard Bartholomew“Self-portrait”, Almara, c.1957

Pablo Bartholomew“My Parents Richard & Rati at Home”, New Delhi, 1975

In queste immagini in bianco e nero sembra veramente di leggere un dialogo d'amore tra padre e figlio, mentre nel lavoro della fotografa giapponese è sempre lei che compare nelle fotografie manipolate, esistendo due volte.

 

Io credo che questo mio amore morboso per le fotografie, soprattutto quelle antiche o che parlano del passato (ma quale fotografia non lo fa?) di sconosciuti o di noi stessi, sia innegabilmente legato alla paura della morte. Diego Mormorio lo scrive in modo impeccabile nel suo saggio “Meditazione e fotografia”:

“Normalmente, si compie il gesto del guardare pensando ad altro, sprofondati in una poltrona o gettando uno sguardo veloce ora a questa ora a quella cosa. Si guarda senza vedere, con la convinzione che non sia troppo importante quello che si sta guardando o che si potrà riguardare più attentamente in futuro. In questo modo, il presente è andato perduto e nessuno può assicurarci che ci sarà un futuro o che questo sarà diverso dal presente che stiamo superficialmente vivendo. Siamo così morti alla vita e in questa morte crediamo che ci siano cose che non meritano uno sguardo attento. In realtà, l'importanza delle cose è nel nostro sguardo, nella nostra capacità di riconoscere il mondo così com'è.”

Lo sguardo, le fotografie, diventano un modo per curare la ferita della scomparsa.

Non solo la fotografia, ma ogni forma di cultura. 

Il sociologo Bauman ha scritto un libro intero su questo tema, Il Teatro dell'Immortalità: “La cultura, un'altra qualità 'esclusivamente umana', è stata fin dall'inizio uno strumento per realizzare tale soppressione”, ovvero, la soppressione della morte che annienta i nostri cuori dal terrore. “La cultura rincorre quella permanenza e durevolezza che manca così atrocemente alla vita in quanto tale”. La cultura, così come la fotografia potremmo dire, sono la “fabbrica della permanenza”.

Io leggo nel lavoro di Otsuka, sì un modo di far dialogare se stessa di adesso e della sua infanzia, come se lo spazio e il tempo non esistessero, ma anche – proprio grazie a questo annullamento del tempo imploso nella coincidenza delle due Chino – un modo per congelare il futuro, l'unico elemento che manca in questa foto; come se collocare se stessa nel passato della sua infanzia le impedisse di andare avanti e sparire. Come sono sparite le fotografie dagli album di famiglia.

Quella stessa macchina della permanenza che spinge Pablo a stampare le foto scattate dal padre defunto per farle vivere per sempre con le sue.

Più ci penso e più mi rendo conto dell'anima profondamente malinconica della fotografia. Qualsiasi cosa noi fotografiamo, le persone a noi care, i luoghi che amiamo, i nostri cani o gatti, i fiori, sono il nostro modo inconscio di colmare il vuoto che è sempre sotto i nostri piedi, che la filosofia cercò di colmare con il pensiero e le religioni con Dio.


È buffo. Questa mia riflessione è nata, è vero guardando le fotografie di Otsuka qualche mese fa, ma soprattutto perché mia madre ha tirato fuori da un cassetto, recentemente, alcune letterine che i miei compagni di scuola elementare mi scrissero nel 1982, quando avevo 8 anni, e dovevo sottopormi ad una operazione al cuore.

Questi fogli con le righe dei quaderni delle elementari hanno il tono e la malinconia buffa delle foto di Otsuka. Parlano di un bambino che ricordo poco, ma quelle parole scritte in modo sghembo mi spingono con forza al me stesso di 8 anni, in quel banco vuoto in classe a cui i miei compagni guardano con affetto.

Io non ricordo niente, ma so che li facevo ridere, che scherzavo tanto, gli mancano le mie battute. È vero, io ridevo sempre, anche in ospedale, anche se tremavo di paura.

Io le leggo e le rileggo e si forma davanti ai miei occhi un mosaico di uno Stefano che non conosco, così come la foto a due esistenze della fotografa giapponese.

In una letterina ce una frase che mi colpisce fino alle lacrime, scritta da un'Alessandra di cui non ricordo assolutamente nulla: “A me dispiace perché sei là non so quello che fai e mi piace come disegni e come colori e non vai fuori e sei simpatico.”

Roma, 1982. 
“...mi piaci come disegni e come colori e non vai mai fuori e sei simpatico e ti auguro che esci dall'ospedale molto presto.”


Non vai fuori intendeva quando colori e non esci dai bordi della figura, un segno di precisione quando si fanno i disegni da bambino.

Grazie a queste poche parole di una bambina io riesco a vedere un me stesso che è andato perduto, ma che è ancora dentro di me, mutato, trasformato dalla vita e dal tempo.

 Roma, 1982. 
“Caro Stefano, spero che la tua operazione vada bene e che impari a colorare e ritorni da noi. 
La tua banda ti aspetta. con Mauro io sto bene ma anche con te stavo bene  giocare.”

Roma,1982.
Caro Stefano, 
come stai? 
Ti abbiamo scritto perché ci manchi molto, ritorna presto. ti teniamo tutte nel cuore. 
Guardiamo sempre il tuo posto perché lì, in quel posto manca l'allegria. 
Noi ti abbiamo scritto in quattro e i tuoi scherzi non ci sono più come prima.  
Speriamo che torni presto. Scusami di quel bacio provvisorio, ma ti volevo dare i miei auguri.”
      

Per questo sono ancora qui, a quasi cinquant'anni, a combattere la paura del vuoto come ognuno di noi, a illudermi che le mie fotografie mi salvino dall'abisso, portando con me in questa salvezza tutte le persone che ritraggo.

Con precisione, passione e follia.

Come se la passione con cui scatto le fotografie sia la mia macchina del tempo per tornare su quei banchi di scuola; spingendo con cura e amore tutto il mondo che è davanti ai miei occhi dentro le forme stabilite di una foto.

Senza andare mai fuori dai bordi.

“In realtà, l'importanza delle cose è nel nostro sguardo, nella nostra capacità di riconoscere il mondo così com'è.”

Roma, 2020
 

“New Trends in Japanese Photography” (SKIRA, 2016) 

Richard and Pablo Bartholomew: “Father and son” (Fishbar, 2011) 

Ferdinando Scianna: “Lo specchio vuoto. Fotografia, identità, memoria” (Editori Laterza, 2018) 

Diego Mormorio: “Meditazione e fotografia. Vedendo e ascoltando passare l'attimo” (Contrasto, 2010) 

Zygmut Bauman: “Il teatro dell'immortalità” (Il Mulino, 1995)

Per vedere il lavoro di Chino Otsuka: https://www.designboom.com/art/chino-otsuka-inserts-her-adult-self-into-photos-from-her-youth-01-13-2014/

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