(Henri Michaux)
Gianni Berengo Gardin. Ospedale psichiatrico provinciale. Firenze, 1968 |
La follia è un tema che mi è sempre stato a cuore, fin dai tempi della
scuola.
Molte volte ne ho scritto, con poesie e racconti.
Forse perché sono affascinato dalla psicologia e dai labirinti della
mente umana, e quando quei sentieri di labirinto sono più oscuri e angusti, il
mio interesse va intensificandosi.
Amando poi l'arte, una ragione in più poiché non raramente follia e
creatività si sono corteggiate ed hanno attinto una all'altra.
Ancora ricordo quanto fui emozionato ed euforico quando, fresco
studente universitario del primo anno (avevo ancora l'intelligente abitudine di
annotare la data in cui compravo i libri: 14\9\1993), trovai in libreria il
volume dello psichiatra Edward Podvoll, “La Seduzione della Pazzia”,
nascondendolo come se avessi rubato la mela proibita nel giardino dell'Eden.
“Lo splendore e il caos della mente psicotica in quattro straordinari
profili di persone che hanno percorso interamente la spirale della follia
lasciandone un resoconto autobiografico avvincente e tremendo”, riportava il
sottotitolo.
Il suo punto di vista era incredibilmente umano, sottolineando come la
visione “medica” della follia, come semplice evento raro, un guasto del
cervello che si teme e si tende ad isolare, sia una falsa visione del problema
mentre in realtà ognuno di noi, in ogni momento e fase della nostra esistenza,
può cadere nella follia – è una tragedia umana che riguarda anche l'aspetto
affettivo e non solo quello fisiologico, cerebrale.
Ma – cosa più importante – che dalla follia si può guarire. È un
percorso esistenziale, che è in grado d'illuminare le nostre esistenze, dar
loro un senso diverso. Anche artistico.
“La psicosi è uno sconfinato angolo buio della mente che, una volta
illuminato, potrebbe cambiare la visione che si ha dell'intera stanza”.
Parole che mi colpirono profondamente.
Giunto a quel libro dalla visione classica greca della follia che
Platone descriveva così:
“Il pazzo è come un uccello che svolazza e guarda all'insù, incurante
del mondo che gli sta sotto.”
Quel libro fu la porta che si apriva invece su quel mondo del “sottosuolo”,
come lo chiamava Dostoevskij, per niente leggero e svolazzante.
Poi vennero gli studi di psicologia e la laurea, ma fino ad adesso,
l'interesse per quel sottosuolo mentale non mi ha mai abbandonato.
Anzi, questi duri mesi di reclusione forzata, incertezza per il futuro,
ansia e depressione, mi hanno spinto di nuovo in basso. Nel mio sottosuolo di
“pensieri incontrollati e sensazioni alterate”, sebbene ancora non dialogante
con esse, che è il marchio vero della pazzia, come scrive Podvoll.
Luciano D'Alessandro. Manicomio Materdomini . Nocera Superiore (Salerno), 1965-68 |
Sono tornato su questo tema perché pochi giorni fa ho comprato un
bellissimo libro fotografico, che corteggiavo da tempo ma troppo caro, per poi
trovarlo finalmente scontato a metà prezzo, “Il volto della follia – Cent'anni
di immagini del dolore.”
Il libro, è il catalogo di 430 pagine di una mostra fatta a Reggio
Emilia nel 2006, e raccoglie centinaia di immagini di fotografi storici e
famosi, da Scianna a Berengo Gardin, Alex Majoli, Anders Petersen.
Nei manicomi in Italia, Brasile, Francia, Taiwan, Cuba...
Nel libro è presenta anche una preziosa introduzione storica di Sandro
Parmiggiani.
Tutto ha inizio con la famigerata “Stultifera Navis”, La nave dei folli, l'opera satirica in tedesco alsaziano di Sebastian Brant, pubblicata nel 1494, in cui narrava di questa sorta di Arca dei pazzi messa in mare per allontanare la follia dalla virtù del popolo, anche se poi era una critica ai vizi della società dell'epoca. Ma, cinquecento anni dopo, Micheal Foucault, intitolando proprio “Stultifera Navis” il primo capitolo del suo celebre saggio “Storia della follia nell'età classica”, scriverà come fosse una pratica comune quella di allontanare i “folli” dalla comunità dei “normali”, affidandoli a gente di mare:
“Accadeva spesso che venissero affidati a battellieri: a Francoforte, nel 1399, alcuni marinai vengono incaricati di sbarazzare la città di un folle che passeggiava nudo; nei primi anni del XV secolo un pazzo criminale è spedito nello stesso modo a Magonza. Talvolta i marinai gettano a terra questi passeggeri scomodi ancor prima di quanto avevano promesso; ne è testimone quel fabbro di Francoforte, due volte partito e due volte ritornato, prima di essere ricondotto definitivamente a Kreuznach. Le città europee hanno spesso dovuto veder approdare queste navi di folli.” (Michel Foucault)
Quella nave, ipotetica o reale che fosse, sbarcò a Reggio Emilia, dove
nel 1536 l'Istituto San lazzaro, nato come lebbrosario nel 1217, divenne a
tutti gli effetti il primo manicomio.
L'isola Narragonia, inventata dallo scrittore Brant, dove avrebbero
dovuto vivere i folli della nave, diventava un luogo reale, in cui rinchiudere
gli “invalidi, decrepiti, storpi, epilettici, sordomuti, ciechi, paralitici”, ovvero
coloro che disturbavano il decoro della società civile.
Il critico d'arte e curatore della mostra Parmiggiani, nato in quello
stesso luogo, ancora ricorda la collocazione non casuale del San Lazzaro,
lontano dalla città e in una sorta di terra di nessuno, che gli ricordava i
ghetti dei neri nel Sud degli Stati Uniti. Luoghi permeati di razzismo lontani
dalla vista della gente per bene.
Nel 1821 venne ufficialmente denominato “Stabilimento Generale delle
Case de ‘Pazzi degli Stati Estensi”.
Carla Cerati. Ospedale psichiatrico provinciale. Gorizia, 1968 |
Ognuno può avere la sua opinione sui manicomi e la loro utilità.
Io considero Mario Tobino uno dei miei scrittori italiani preferiti, e
consiglio a chi non lo conosce di leggere la serie dei suoi romanzi su
Magliano, il manicomio da lui diretto a Lucca, fino alla chiusura forzata per
la famosa Legge Basaglia n. 180 del maggio del 1978.
Nei suoi romanzi e racconti c'è tutto l'amore e l'empatia per quei
“diversi” che non smise mai di considerare come esseri umani. Soprattutto nel
romanzo “Gli ultimi giorni di Magliano”, del 1982, in cui descrive con amarezza
la fine di quel viaggio durato oltre quarant'anni, ricordando come quella legge
causò, solo a Lucca, oltre cento morti tra omicidi e suicidi, appena le porte
del manicomio furono chiuse per sempre, liberando i “matti” in una società che
mai li accettò né tantomeno voleva.
È innegabile che l'idea di segregazione e occultamento del “diverso” e
del disturbante sia un topos che attraversa trasversalmente vari ambiti
della società occidentale, e non sarebbe facile arginare il profluvio di
tematiche che ne verrebbero fuori. Ma anche il punto di vista di chi ha curato
e amato i pazienti non è irrilevante. Laddove i bambini necessitano di camminare
accompagnati, una mano amorevole che li sorregge è mille volte meglio del vuoto
e del badare a sé stessi.
Certo, molte delle fotografie nel libro sono un pugno in faccia, e
alcune sono veramente terribili. Ma ce ne sono anche di tenere, in cui si legge
amore e tenerezza.
Ferdinando Scianna. “Il ballo di Carnevale”. Ospedale psichiatrico di Udine. 1968 |
Quello che mi interessa qui, però, è proprio l'aspetto visivo, da
fotografo.
Perché se è vero che ogni volto è un punto di domanda per chi lo guarda,
che relazione si crea tra i nostri occhi e questi volti di folli?
A questa prima domanda prova a rispondere la scrittrice e pittrice
egiziana Carole Naggar nel suo scritto introduttivo “Attraverso un obiettivo,
oscuramente”.
La Naggar sottolinea come, fin dai suoi inizi, la fotografia dei folli
di San Lazzaro fossero una presa di distanza gelida e pregiudiziale dei poveri
malati. Era chiamata “fotografia degli alienati”, in cui ogni persona che
mostrasse segni fisici o mentali diversi dalla norma veniva ritratta con la
stessa intenzione dei “tipi esotici delle cartoline postali coloniali”.
I fotografi ritraevano i pazzi con lo stesso orrore con cui i contadini
guardavano alle streghe nel Medioevo.
Fotografie in cui non c'era nessuna intenzione di provare a penetrare
quelle maschere di dolore, ma che anzi rafforzavano quella tipizzazione, la
esaltavano, come a porre tra i fotografi, medici, e i malati una distanza
siderale.
“La foto è lo scudo che protegge medico e pubblico, come se la follia
fosse una malattia contagiosa che colui che guarda potrebbe buscarsi
inavvertitamente se queste rappresentazioni non fossero contenute, riquadrate
dalla cornice dei pregiudizi e dalla distanza di una pseudoscienza.” Scriva la
Naggar.
Non dimentichiamo che i primi esperimenti fotografici coincidono anche
con queste fotografie applicate alla psichiatria.
Le prime rappresentazioni dei folli si trovano nelle incisioni di
Alexander Morison (1826) e poi nelle fotografie raccolte nei tre volumi de La
Salpetrière (1877-80) e di Augusto Tebaldi (1884), quarant'anni dopo
l'invenzione del dagherrotipo.
Proprio l'ospedale parigino di La Salpetrière sarà il luogo principale
delle prime fotografie legate alla malattie mentali, dove si sperimentava la
raffigurazione dei malati con l'utilizzo di elettrodi applicati ai muscoli
facciali per poi fotografare quelle espressioni, costituendo un “catalogo dei
vari tipi di disturbo mentale”.
È proprio questo che rimprovera la scrittrice egiziana a queste prime
immagini, di essere un campionario di “freak”, senza nessuna empatia emotiva o
intenzione di conoscenza del loro intimo dolore, accumunandole in modo forte
alle foto dei corpi nudi e scheletrici degli ebrei nei campi di concentramento
nazisti.
Qui entra in gioco il controverso Lombroso, detto Cesare (Verona, 6
novembre 1835 – Torino, 19 ottobre 1909), famoso medico, antropologo,
accademico filosofo e giurista italiano, da taluni studiosi definito come padre
della moderna criminologia, esponente del positivismo e fondatore dell'antropologia
criminale.
“Le sue teorie si basavano sul concetto del criminale per nascita,
secondo cui l'origine del comportamento criminale era insita nelle
caratteristiche anatomiche del criminale, persona fisicamente differente
dall'uomo normale in quanto dotata di anomalie e atavismi, che ne determinavano
il comportamento socialmente deviante. Di conseguenza, secondo lui
l'inclinazione al crimine era una patologia ereditaria e l'unico approccio
utile nei confronti del criminale era quello clinico-terapeutico. Solo
nell'ultima parte della sua vita Lombroso prese in considerazione anche i
fattori ambientali, educativi e sociali come concorrenti a quelli fisici nella
determinazione del comportamento criminale.” Così è scritto su di lui.
Nel 1898 inaugurò a Torino un museo di psichiatria e criminologia (più
tardi chiamato “di Antropologia criminale”).
“Il criminale è un essere atavistico che
riproduce sulla propria persona i feroci istinti dell'umanità primitiva e degli
animali inferiori.”
Lombroso è passato alla storia, in modo fortemente criticato, proprio
per questa sua associazione tra peculiarità fisiche e stati mentali, non
dimenticando anche l'associazione tra genio e follia. E crimine.
Leggiamo ancora:
“Dal 1876 divulgò la propria teoria
antropologica della delinquenza nelle cinque successive edizioni de “L'uomo
delinquente”, che successivamente espanse in un'opera in più volumi. Tra i
massimi studiosi di fisiognomica, Lombroso misurò la forma e la dimensione dei
crani di molti briganti uccisi e portati dal Meridione d'Italia in Piemonte,
concludendone che i tratti atavici presenti riportavano indietro all'uomo
primitivo. In effetti, quella che sviluppò fu una nuova pseudoscienza che si
occupava di frenologia forense. Egli dedusse che i criminali portavano tratti
anti-sociali dalla nascita, per via ereditaria, cosa che oggi si considera del
tutto infondata. Da notare che Lombroso aveva sviluppato la teoria
dell'atavismo un anno prima della pubblicazione de L'origine
delle specie di Darwin.
I caratteri che manifestano l'atavismo e la
degenerazione sarebbero esplicitati fisicamente dalla presenza di
caratteristiche quali le grandi mandibole, i canini forti, gli incisivi mediani
molto sviluppati a discapito dei laterali, i denti soprannumerari o in doppia fila
(come nei serpenti), gli zigomi sporgenti, le prominenti arcate sopraccigliari,
l'apertura degli arti superiori di lunghezza superiore alla statura
dell'individuo, i piedi prensili, la borsa guanciale, il naso schiacciato, il
prognatismo, le ossa del cranio in soprannumero (come negli Incas, nei
Peruviani e nei Papua) ed altre anomalie fisiche e scheletriche nonché
caratteri funzionali diversi da quelli dell'uomo evoluto; ad esempio una minore
sensibilità al dolore, una più rapida guaribilità, maggiore accuratezza visiva
e dicromatopsia ed anche tatuaggi ed accentuata pigrizia.”
Tavole da A. Tebaldi. Fisionomie ed espressioni studiate nelle loro deviazioni, 1884 |
Lombroso è stato forse tra i più famosi e criticati in questo ambito, tacciato di positivismo ingenuo, in grado di fare più danni che miglioramenti in quell'ambito scientifico.
Ma non è stato certo il solo, anzi.
La “fotografia psichiatrica” è stata da sempre, fin dall'invenzione
stessa della fotografia, un mezzo potente per avallare le teorie degli
psichiatri, in profonda connessione con la fisiognomica.
Proprio sull'onda del positivismo e dell'esattezza inoppugnabile della
scienza, gli psichiatri utilizzarono la nuova invenzione per portare alla
superficie dei volti i disturbi dell'anima, che altrimenti sarebbero rimasti
sconosciuti e invisibili: il volto ritratto di un malato diventava “esempio”
della sua categoria diagnostica.
Il “dominio dello sguardo” sancito dal potere scientifico.
Diamond fu tra i primi a istallare, nel suo manicomio di Springfield,
un laboratorio fotografico, nel 1851, migliorando il callotipo inventato da
Talbot nel 1839. Fu il primo a teorizzare l'utilità dell'introduzione della
“diagnosi fotografica”. Così affermava:
“Il fotografo cattura con irrefutabile
precisione le manifestazioni esteriori di ogni passione, quale autentica
indicazione della ben nota corrispondenza che lega la mente malata agli organi
e alle fattezze del corpo.”
Perché il problema della psichiatrica era che, a differenza delle altre
scienze, non era in grado di “mostrare” ciò di cui parlava, non aveva le prove
materiali che la confermassero come scienza vera e propria.
Aveva bisogno di un organo che “parlasse”, dato che la mente rimaneva
“muta” nel suo abisso interiore: il volto diventò quell'organo.
Prima, e con molto più vigore di Lombroso, Johann Kaspar Lavater nel
Settecento portava avanti queste teorie riprese in futuro anche dal nostro Lombroso.
“Il viso è il riassunto e il risultato della
forma umana in generale; e in esso la carne non è altro che il colorito che
mette in rilievo il disegno”.
Queste furono le basi su cui si fondò la fotografia dei folli, con
tutte le sue anomalie pregiudiziali, poiché come ben scriveva Susan Sontag:
“Vale per ogni fotografia ciò che Wittgenstein diceva delle parole, che il
significato è l'uso”, ovvero le fotografie hanno un loro peso a secondo del
discorso in cui vengono inserite.
Detto ciò, sfido ognuno di voi, con onestà, a negare di avere almeno
una volta nella vita giudicato qualcuno dal suo viso o dalle fattezze del
corpo. Non fosse solamente che cambiare marciapiede nel vedere venire incontro
qualcuno dalla fronte bassa, dai denti in fuori, scapigliato. O pregare
l'ascensore di aprirsi velocemente perché l'uomo o la donna con noi ha gli
occhi spiritati, eccessivamente intensi.
I volti che noi vediamo nelle fotografie, di bambini e persone
sorridenti, docili, dagli occhi luccicanti ci inteneriscono, ci fanno stare
bene. Ci rassicurano. Mai dubitiamo della loro anima o sanità mentale.
I volti “brutti”, diversi, lasciano presagire invece cattiverie
dell'anima.
Guardando in televisione i volti di molti serial killer, stupratori,
pedofili, quanti di noi abbiamo esclamato: “Ci credo, con quella faccia!”
Ma come viene riportato in queste splendide introduzioni al libro, i volti dei primi internati nei manicomi erano spesso dei rozzi contadini, donne e uomini, il più delle volte analfabeti, ignoranti, duri lavoratori della terra, che avevano solamente la sfortuna di non essere belli come la società borghese e gli scienziati.
Potevano tranquillamente essere i nostri bisnonni e bisnonne di paese.
L'atavismo alla base delle teorie criminali di Lombroso ce lo portiamo
ancora dentro, negli strati primitivi e profondi delle nostre paure e
pregiudizi.
Ben altra cosa sono le fotografie più vicine a noi, quelle di Scianna
Berengo Gardin, Petersen...
In chi usa la fotografia per comunicare e conoscere, in senso diverso
degli scienziati del secolo scorso, si avverte quella voglia di provare a
comprendere e mai giudicare.
Si cercano anche momenti di tenerezza, gioco, arte, rispetto.
La macchina fotografica non è più un microscopio che divide e allontana
il “sano” dal “folle”, ma anzi ci avvicina a loro, lasciando intendere che la
follia è veramente una tragedia dell'esistenza che può capitare a ognuno di
noi, anche a chi ha volti normali.
“La carne del viso non è altro che il colorito che mette in rilievo il
disegno”, scriveva Lavater.
Spogliata delle sue intenzioni dominatrici e scientifiche, oltre che
razziste, questa frase potrebbe essere letta anche come un modo poetico di
raccontare il ritratto fotografico.
Perché il significato delle parole è nel loro uso.
I volti sfocati di Petersen diventano veramente il colore dei disegni
della mente. I contrasti dei bianchi e neri la narrazione del buio interiore.
Enzo Cei. Mostra d'arte nell'ex manicomio dei lavori dei degenti. Manicomio di Maggiano (Lucca). 1999 |
Vedere queste fotografie, una dietro l'altra, dal secolo scorso ai giorni nostri, diventa un cammino dentro le nostre anime, chi siamo come esseri umani, come ci “guardiamo”, e troppo spesso “giudichiamo”.
Perciò mi piace concludere questa lunga riflessione con le magnifiche parole di Vittorino Andreoli, docente, dottore e famoso psicologo e psichiatra, sui suoi oltre quarantacinque anni di osservazione della follia, soprattutto dei volti dei folli, perché come scrive Andreoli:
“Una luce abbagliante e talora nebbia fitta
avvolge quel volto, il volto della follia.
Il resto non ha senso, come se il matto non
avesse corpo o si facesse sottile come le antenne di un ragno, sottile come un
filo di ragno. […]
Perdersi nella profondità delle pupille che
precipitano nell'infinità della follia, tra i segreti dell'uomo, giù, lontano
da quella superficie su cui scorre il tempo, mentre là in fondo tutto si fa
lento e forse eterno.
E si fatica a riemergere dal buio. Là in
fondo c'è buio, l'immensità del buio. C'è silenzio e il silenzio è buio, più
buio del buio. E uno psichiatra si fa anch'egli buio e cancella tutto quanto si
illumina sulla lavagna del sapere che là in fondo scompare.”
Come la Fotografia. Camera obscura, che sviluppa la sua luce
dall'ombra.
Abbaglia, stordisce con la bellezza. Porta in superficie l'intimo
disegno delle nostre emozioni, facendolo emergere dalla nostra immensità del
buio.
Anders Petersen. ESPS, sezione speciale dell'Ospedale per persone con disturbi psichici. Stoccolma, 1995 |
READ ALSO:
Edward M. Podvoll: “La Seduzione della Pazzia” (Astrolabio, 1992)
Michel Foucault: “Storia della Follia nell'età classica” (BUR, 1992)
Mario Tobino: “Per le antiche scale” (Mondadori, 1992)
Mario Tobino: “Gli ultimi giorni di Magliano” (Mondadori, 1983)
“Il volto della follia – Cent'anni di immagini del dolore” (SKIRA, 2006)
|
Ringrazio Stefano per questo importantissimo articolo. È importante per me in quanto rappresenta un quadro sul passato ma ma anche una finestra sul futuro rispetto a questo fenomeno. Leggendo l'articolo si sviluppa una sana consapevolezza che per chi non è del campo delle malattie mentali diventa preziosa. Si apprende sopratutto la necessità di guardare ogni fenomeno da varie angolature.
ReplyDeleteGrazie mille 🙏
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