Sull'Autoritratto

Lee Friedlander. “New York City”, 1966


“L’autoritratto è il sublime ricordo dell’antico mito di Narciso, è la proiezione del passato nella storia. È allegoria ed emblema, racconto e menzogna. Può essere finzione assoluta o verità inconscia” dice Maurizio Fagiolo dell’Arco presentando la mostra Il Pittore allo specchio (Palazzo dei Diamanti, Ferrara, 1995).

 

Questa mi sembra una definizione molto appropriata per l'autoritratto.

In Fotografia, fin dai suoi inizi, sono stati moltissimi i fotografi che si sono cimentati in questo stile particolare, ma non è mia intenzione compilare qui una serie di nomi e di immagini, perché non se ne verrebbe a capo.

 

In un documentario che ho visto qualche settimana fa, proprio qualche giorno dopo essere andato alla sua mostra fotografica qui a Roma, sulla carriera del grande fotografo Elliott Erwitt, gli fu domandato perché i suoi autoritratti fossero sempre molto ironici, lui rispose che era annoiato dal vedere sempre volti di fotografi seriosi e in posa, e che se doveva autoritrarsi era meglio fossero immagini buffe. Una bella risposta da chi ha impresso per sempre nella storia il dramma della segregazione razziale in America. In fin dei conti, nell'autoritratto aveva trovato il suo modo di far sorridere e tirare un sospiro di leggerezza, segno di una profonda ironia che è una dote che solamente i grandi maestri hanno.



Elliott Erwitt. “Autoritratti”


Celebri sono anche gli autoritratti di Vivian Maier che, tra una foto e l'altra per le strade di New York, non perdeva occasione per ritrarre sé stessa in ogni vetrina di negozio che incontrava. Street e
proto-selfie.

E già, selfie, questa parola che fa rizzare i capelli ad ogni fotografo, e che è diventata oramai parola d'ordinario uso e follia, fin dal 2013, quando l'Oxford Dictionary la proclamò parola dell'anno, come scrive Ferdinando Scianna nello splendido libro “Lo specchio vuoto”:

“Tutti hanno diritto al loro quarto d'ora di celebrità, profetizzò Andy Warhol. Il guaio è che non ci sono abbastanza quarti d'ora per tutti.”

Il selfie diventa allora quel moltiplicatore di vuoto con cui noi piccoli esseri umani ci illudiamo di sopravvivere all'oblio che porta con sé la morte.

Vivian Maier. “Self Portrait”, New York, 1954

 

Ma terminare in questo modo così superficiale un processo esistenziale e di pensiero iniziato con i grandi dilemmi dell'antica filosofia greca è troppo imbarazzante. Perciò vorrei, per ora, non nominare questa pratica compulsiva della modernità per tornare alla nostra cara macchina fotografica.

Mi ci ha fatto pensare un libro inconsueto che ho avuto la fortuna di acquistare recentemente: “Self Portrait” di Lee Friedlander. Un'unica edizione del 2005 che raccoglie gli autoritratti del fotografo americano in un periodo di sei anni. 

Lee Friedlander: “Self Portrait” (The Museum of Modern Art, 2005)

Uscito la prima volta nel 1970, questo libro è nato quasi come un gioco, quando il fotografo trovava la sua ombra incautamente nella scena che stava ritraendo, racconta nell'introduzione. Lui stesso si definisce un “intruso”. Ma quello che all'inizio lo irritava diventerà poi come un “dono” e quell'intrusione diventerà pensata, voluta, e dunque uno dei suoi libri più celebri.

Lee Friedlander. “Provincetown, Cape Cod, Massachusetts”, 1968

Lee Friedlander. “Canyon de Chelly”, 1983

La capacità di trasformare un errore in un'opera d'arte non è da tutti, e fa riflettere.

 

Ci sono tornato con il pensiero quando, qualche giorno fa, mentre stavo fotografando una modella per uno shooting di moda, in una magnifica luce al tramonto per le vie del Colosseo, non riuscivo ad evitare che la mia ombra entrasse costantemente nell'inquadratura, avendo il sole basso alle spalle. Un'ombra lunga e ben definita che mi faceva borbottare   cercando di ricordare quale fosse il romanzo in cui qualcuno vendeva la propria ombra al diavolo. Per dovere di informazione poi mi sono ricordato era nel classico di Adelbert Von Chamisso, quel Peter Schlemiel che vendette la propria ombra al diavolo per una borsa di oro ma che si rifiutò di vendere la sua anima per avere indietro l'ombra dal diavolo – da qui il detto “vendere la propria ombra al diavolo”.

Alla fine anche fotografare la propria ombra è un autoritratto, come in celebre scatto di Erwitt e come dello stesso Friedlander.

 

È fuor di dubbio che con esso ci si può fare dell'ironia o meno, ma l'autoritratto ha sempre un risvolto psicologico. Non stiamo parlando di altri, di volti più o meno conosciuti davanti alla nostra lente, ma di noi stessi; e di come vogliamo essere visti. A proposito andatevi a cercare il diagramma “Johari's Window” sull'autoritratto, a proposito di Psicologia della Fotografia, o i testi di Fototerapia di Judy Weiser.

Non sono pochi gli studi di psicologi su questo tema, e il punto centrale è che mostrare o meno parti del nostro volto e del corpo è una forma di comunicazione interiore con chi ci osserva.

A diversi livelli.

Fotografare i propri occhi è ben diverso dal mostrare solo la propria ombra o la metà inferiore del volto: con gli occhi si offre la possibilità di entrare nel profondo della nostra anima, con la bocca si declina la sensualità e con l'ombra si nega ogni possibilità di sapere qualcosa di noi – forse.

Capire chi siamo da una nostra fotografia di un tramonto sul mare non è la stessa cosa dal ritrarre il proprio volto.

Si può dissimulare o meno, si può rendere il nostro viso una maschera impenetrabile, si può fare l'ennesimo riferimento a Narciso e tutto quello che gli sta dietro, e guardando molti autoritratti sul web sembra più un discorso artistico e di vanità fino a sé stesso piuttosto che un sincero atto comunicativo. Può essere anche usato in modo ironico, come abbiamo visto con Erwitt e Friedlander, e nello stesso tempo avere anche un ruolo nel raccontare alcuni stereotipi di una società, come per esempio nel lavoro della fotografa giapponese Tomoko Sawada (1977) i cui autoritratti si prendono gioco in modo sarcastico e critico degli stereotipi della società giapponese.

Tomoko Sawada. “School Days”, 2004

Tomoko Sawada. “Decoration \ Face”, 2007


Può anche essere un atto drammatico.

Chi tra di noi non ha provato un brivido fissando gli occhi inquieti degli autoritratti di Van Gogh del 1988, proprio quando entravano in voga i ritratti fotografici.

“I ritratti dipinti hanno una vita propria che si origina dall'anima del pittore e che nessuna macchina può catturare,” così scriveva Van Gogh.

Vincent Van Gogh. “Autoritratto”, 1887-88

Pace all'anima sua, aveva torto.

 

E non è neanche necessario essere in posa davanti alla propria macchina fotografica per smentire le sue parole, è sufficiente guardare gli autoritratti inquietanti quanto devastanti di D'Agata, mentre si inietta l'eroina in vena o si contorce per gli spasmi di dolore.

Certo, qui siamo ben lontani dall’ombra di Erwitt sul prato con le margherite al posto degli occhi.

Quello di D'Agata è un mettersi completamente a nudo, fin negli strati più miseri della propria anima, in modo commovente nella sua sincerità, come nessun altro ha mai saputo fare.

Così come, per altro verso, gli autoscatti di Araki in intimità con la moglie Yoko.

 

Antoine D'Agata. Phnom Penh, 2007

Per moltissime persone questo discorso è incomprensibile.

Non sono state poche, negli anni durante corsi o lezioni, mostrando certo tipo di fotografie, le volte che mi veniva chiesto che razza di fotografia è questa... quasi con disprezzo.

Perché arrivare fino a questo punto?

 

Tanto vale allora galleggiare in modo innocuo sulla superficie delle nostre vite con tonnellate di selfie.

Un autoscatto tra amici, in allegria, non fa male a nessuno. È come un velo di acquarello che colora le nostre giornate, senza necessità di “mostrare così tanto.”

Ma è proprio questa quantità di coraggio che, forse, aiuta a capire.

Il metterci la propria faccia non è sempre interpretabile in un'unica dimensione.

Proprio nella superficialità emotiva dei nostri sorrisi quotidiani, io penso, si sente più il terrore del vuoto di cui parlava Scianna, che non negli autoritratti estremi di D'Agata o Araki.

Mettersi completamente a nudo – in senso letterale – davanti agli occhi di sconosciuti, mostrare le proprie ferite, ossessioni, debolezze e solitudini è l'unico modo per affondare la propria carne nel vuoto che è sotto i nostri piedi. È una forma di perversione, forse, ma è anche un affermare con forza che “Io ci sono”, io esisto, con tutte le mie imperfezioni di essere umano: non lo stesso “io ancora ci sono” vacuo dei selfie, ma è un imporre la propria esistenza attraverso la macchina fotografica al vuoto e all'assenza. Non un accarezzare l'abisso ma schiaffeggiarlo.

Le migliaia di immagini che, invece, vediamo e scattiamo ogni giorno senza pensare, i nostri selfie, fanno molto più paura, perché non scalfiscono assolutamente quell' horror vacui (terrore del vuoto) che parte da Aristotele e arriva ad Heidegger fino ai nostri smartphone, anzi, non lo vogliono proprio vedere, sono una distrazione.

Un'illusione.

Perché nella loro moltitudine e moltiplicazione continua non dicono mai niente di vero su chi siamo veramente.

 

Siamo costantemente esposti, ma nessuno sa chi siamo nel profondo.

Stefano Romano. "Autoritratto durante il Covid-19", 2020



Elliott Erwitt: “Home Around the World” (Aperture, 2016)
Vivian Maier. “Una fotografa ritrovata” (Contrasto, 2015)
Ferdinando Scianna: “Lo specchio vuoto. Fotografia, Identità e Memoria” (Editori Laterza, 2014)
Lee Friedlander: “Self Portrait” (The Museum of Modern Art, 2005)
Adelbert von Chamisso: “Peter Schlemihl, The Shadowless Man”
“New Trends in Japanese Photography” (SKIRA Photography, 2016)
Antoine D'Agata: “Anticorps” (Editions Xavier Barral, 2013)

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