“Le Fotografie Che Amo” 10 – Henri Cartier-Bresson

 

Henri Cartier-Bresson. Hong Kong, late September 1949
Henri Cartier-Bresson. Hong Kong, fine Settembre 1949

Siamo arrivati all'ultima scelta per la prima serie di dieci fotografie che amo.

Lo so che guardando il riquadro vuoto starete pensando ad uno scherzo.

Ma non è uno scherzo, né vuole essere una mera provocazione.

Comunque ho dimenticato di dirvi di chi stiamo parlando: ovviamente mi sono lasciato per ultimo Henri Cartier-Bresson, il fotografo francese nato nel 1908 e morto nel 2004.

Solo lui dopo Koudelka, o meglio, tutti gli altri dopo di lui.

 

Henri Cartier-Bresson
Henri Cartier-Bresson

A lungo ho provato ad iniziare a scrivere sul maestro, ma mi sono sempre bloccato. Del resto tutto è stato già detto e scritto sulla sua perfezione, ed io provo inoltre grande imbarazzo a scrivere su di lui: mi sento come un suonatore di piffero che vuole commentare la Nona Sinfonia di Beethoven.

Cosa altro si può aggiungere su colui che è stato chiamato “l'occhio del secolo”?

Ma soprattutto, come si fa a scegliere una singola fotografia? Già è difficile per molti altri fotografi, ma con lui è una tragedia.

O si scelgono quelle tre, quattro immagini iconiche, che tutti bene o male hanno visto una volta nella loro vita, tra salti sulla pozzanghera, biciclette in corsa o omini alla Magritte con bombette e baffi. Oppure si opta per immagini meno note, tanto la sua produzione è talmente ricca e varia che si potrebbe scegliere una fotografia al mese per anni...

 

Brussels, 1932
Bruxelles, 1932

Né tantomeno voglio analizzare le sue fotografie; l'ho già fatto per un suo famoso scatto in un precedente articolo, e credo che ci siano molti libri su di lui, più interessanti delle mie parole.

Molto bello il libro, a proposito, “Immagini e parole”, in cui diversi artisti, fotografi, registi, scrittori, hanno scelto una foto di Cartier-Bresson spiegando il motivo del loro amore per quell'immagine.

Più o meno quello che ho provato a fare anche io in questa serie di dieci foto.

Allora perché c'è un rettangolo vuoto, con la didascalia Hong Kong, fine settembre 1949?

 

Ammetto che questa è una storia che non conoscevo, e l'ho letta sull'ultimo monumentale libro “In Cina” recentemente pubblicato.

Libro meraviglioso, con immagini che lasciano a bocca aperta, come sempre.

Fu tra i suoi primi incarichi, 18 mesi dopo aver fondato l'Agenzia Magnum; partì nel 1948 per Pechino per realizzare un reportage commissionato dalla rivista LIFE sulla caduta del Governo del Kuomintang e la fondazione della Repubblica Popolare Cinese. Da pechino si muove a Shangai dove realizza la famosa foto-copertina “Gold Rush”.

Alla fine ci resterà per dieci mesi, così affascinato dalla cultura e della tradizione cinese al punto da convertirsi al buddhismo e tornarci dieci anni dopo, per concludere il suo lavoro.

Il libro usci nel 1958.

 

“Gold Rush”. Shanghai, China, 1948
“Gold Rush”. Shanghai, China, 1948

Henri Cartier-Bresson è da tutti considerato l'apice della fotografia. È lunga assai la lista di fotografi, da ogni angolo del globo, che lo citano come ispirazione e come vetta inarrivabile di perfezione, estetica ed emotiva.

Il famoso asse testa-occhio-cuore che è una delle sue citazione più usate.

Del resto la sua maniacale perfezione e pulizia formale e compositiva era dovuta anche al suo occhio abituato al disegno.

In un'intervista del 1969, rispose a chi gli chiedeva perché la fotografia e perché avesse scelto l'obiettivo come mezzo di espressione:

        “Disegnare corpo a corpo con la vita”.

 

La vita era in fondo la sua ossessione, essere “nella vita” – si direbbe in senso fenomenologico – e poterla catturare nel suo svolgersi, nell'attimo perfetto (l'attimo decisivo), prima che ogni cosa torni al suo caotico vortice.

In questo è stato l'assoluto Maestro.

“Personalmente non penso alla fotografia, mi preoccupo della vita”.

 

E allora che senso ha quel rettangolo vuoto, chiamato la “foto mancata”?

Mi viene da pensare alla filosofia Zen: se non puoi raggiungere il pieno, allora inizia dal vuoto.

È vero, se è impossibile scegliere una sua singola fotografia perché parte di un tutto magnifico e insuperabile, allora forse ha più senso avvicinarsi alla negazione di quel pieno, anche se – proprio la filosofia Zen insegna – i due piani si negano e si completano vicendevolmente.

Henri Cartier-Bresson era sul ferry a Hong Kong, vede una ragazza cinese molto bella con dei soldati che la guardano, vorrebbe scattare quella foto ma è troppo a ridosso, su di loro.

E la fotografia è come la scherma, scriverà, non puoi affrontarla corpo a corpo.

Ironico per chi ha affermato che la fotografia è “disegnare corpo a corpo con la vita”.

Questa foto non è mai esistita perché lui non ha avuto – questa volta! – il giusto tempo di inquadrare e scattare: l'ha persa.

È appena arrivato a Hong Kong e già si rammarica per un fallimento. Ma non si dà per vinto, annota sul rullino 426, destinato ai colleghi della Magnum, tutti i dettagli di quella fotografia, proprio per non perderla.

“La memoria è molto importante, memoria di ogni foto scattata, galoppando all'andatura dell'avvenimento,” scrive in “Images à la Sauvette” nel 1952.

E qui scrive e pensa da disegnatore, da colui che riproduce sul foglio bianco ciò che non può vedere ma ricorda, ripetendo in linee ciò che è davanti ai suoi occhi interni.

Solo chi conosce i segreti del disegno sa bene quella magia di aprire gli archivi della memoria per “copiare” a mente, sul foglio, una realtà che non è davanti a noi nel presente. Per farlo occorre uno sguardo acuminato e una memoria solida come una roccia.

Così lui scrive alla moglie Eli, a proposito di quel momento:

“Foto di una ragazza sul traghetto tra HK e Kowloon. Qualche minuto prima mi sono perso un'eccellente foto di quella ragazza. Eli (la moglie di HBC) ha richiamato la mia attenzione ma per me era troppo tardi: sulla banchina alcuni soldati britannici con il loro equipaggiamento appoggiato a una ringhiera guardavano con aria dispiaciuta al di sopra delle loro spalle quella dama che passava vicino a loro, aveva una vita piccola e una lunga vestaglia nera aderente fino alle caviglie e spaccata molto in alto sul lato che rivela agli occhi dei soldati la gamba formosa, ma troppo tardi  per quelli del fotografo, e un po' del pizzo ricamato, che sguardo distante sul suo volto che arrogantemente si ergeva fuori dal suo collo alto e rigido.

Peccato, ero troppo vicino per scattare, come la scherma nella fotografia non puoi essere corpo a corpo.

Ogni giorno torno nello stesso posto sperando di riprendere quella foto, ho ancora altri 4 giorni a Hong Kong...” (HK001, rullino 426)

 

Nel rullino 429 ancora annota, scrive di come sia tornato nello stesso luogo nei giorni seguenti, fotografando altre persone sul ferry, ma sempre aspettando che quella ragazza e i soldati tornassero per ricreare davanti a lui la foto mancata.

 

Beijing, 1948
Pechino, 1948


Fa quasi tenerezza leggere questi appunti, perché nonostante la sua enorme maestria e grandezza, insegue un pensiero che è ingenuo ed illusorio, perché la realtà non ripete mai sé stessa due volte.

Ciò che è passato lo è per sempre.

L'uomo che salta sulla pozzanghera dietro la stazione di Saint-Lazare nel 1932 non tornerà più a saltare sulla stessa pozzanghera, e se anche accadesse per assurdo, non lo farà mai allo stesso modo.

È per questo che è una delle sue foto più famose, perché è l'attimo decisivo come nessun altro saprebbe fare.

Sì, fa tenerezza leggere quelle note sul rullino e immaginare il suo volto deluso ad aspettare sul ferry, giorno dopo giorno, il riproporsi di un attimo di bellezza perduto.

Però, non è andata affatto persa, perché Cartier-Bresson ha annotato tutto, ne descrive ogni piccolo dettaglio, degli abiti e le pose, anche se compresso tra la folla, immaginiamo anche spintonato, senza neanche la possibilità di mettere la Leica sugli occhi.

Perché il maestro che fa:

        “Osservo, osservo, osservo.
        Sono uno che comprende
        attraverso gli occhi.”

Perciò concediamogli pure di avere mancato una foto. Lasciamo quel rettangolo vuoto e bianco. Però ben definito e dettagliato nelle sue parole, che diventano artigli arpionati con tutte le forze alla carne della realtà che fugge via.

Lasciamo che quel vuoto sia lo specchio che riflette, completa e spiega quell’incommensurabile patrimonio visivo, sociologico, emotivo che ci ha lasciato in eredità.

Poiché anche nel fallimento il fotografo francese ci ha insegnato cosa dovrebbe fare un fotografo: osservare, ricordare, disegnare.

Riempire i vuoti (di senso) che sono tutte le nostre ipotetiche fotografie un attimo prima di essere scattate.

 

Ma non certo quello di sperare che un attimo torni uguale a sé stesso, come a teatro, dove ogni scena si ripete uguale – apparentemente – ogni sera, per la delizia dei nostri occhi.

Quello è impossibile.

Anche per Cartier-Bresson.

        “Appena una fotografia è scattata,
        entra nel passato ed è vita...”
        (Henri Cartier-Bresson)

Saint Lazare, 1932
Saint Lazare, 1932

 


Henri Cartier-Bresson: “In China” (Contrasto, 2019) 
Henri Cartier-Bresson: “The Exhibition” (Contrasto \ Center Pompidou, 2015) 
“Cartier-Bresson – Immagini e parole” (Contrasto, 2015) 
Clément Chéroux: “Henri Cartier-Bresson. Lo sguardo del secolo” (Contrasto, 2017) 

English version

 

Comments

  1. Molto bello e interessante! Grazie

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  2. “Personalmente non penso alla fotografia, mi preoccupo della vita”. Grazie per questa meravigliosa incursione!

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