Fabio Moscatelli |
La prima volta che sono andato con Fabio Moscatelli a fotografare insieme era il 2012; andammo al Metropoliz, un vecchio edificio abbandonato nell'estrema periferia est di Roma, dove vivevano famiglie rom e sudamericane, senza elettricità e acqua corrente. Là conoscemmo Maryam e la sua famiglia, di cui ho già parlato con dolore in un precedente articolo.
Già da tempo entrambi fotografavamo, ma ci piace ricordare quell'anno
come i nostri inizi.
Per andare in quei luoghi bisogna non solo avere lo stesso amore per la
fotografia, ma anche una forte sintonia e una comune sensibilità.
Con gli anni la nostra amicizia è cresciuta e non è solo un semplice
appellativo quello di “fratelli”; anzi, come ci piace scherzare “fratelli morti
di fame”, perché entrambi sappiamo quanto sia dura sopravvivere con questo
lavoro.
Se Stefano Mirabella, terzo elemento del nostro trio, è il Re della
Street, Fabio è un Maestro nello Storytelling. È un mio onore avere tutti i
suoi libri fotografici con dedica, e aver seguito negli anni i suoi progetti.
Come mi ripete spesso, è stanco di vedere le mie foto belle,
vuole vedere foto buone.
E lui di foto buone ne ha scattate parecchie.
Conosciamolo.
Da “BlinDream”, 2020 |
Caro Fabio, presentati in breve a chi non ti conosce.
Sono un fotografo freelance, mi occupo principalmente di reportage
sociale andando a scovare quelle storie spesso ai margini della nostra società.
Qualche anno fa durante una presentazione qualcuno mi definì ‘il fotografo
degli ultimi’, è una definizione che probabilmente mi calza a pennello e che mi
porto dietro con onore ed un pizzico di orgoglio.
Puoi raccontarci come hai iniziato a fotografare, come è nata questa
passione e con che cosa scatti?
È nata molto casualmente, probabilmente come per la maggior parte di
noi; la foto in vacanza, la foto ricordo e di viaggio. Senza nulla togliere
all’immenso valore di queste, ad un certo momento ho capito che potevo
utilizzare la fotografia per raccontare tutto ciò che vedevo in maniera
approfondita e così ho iniziato un percorso didattico che mi ha portato anche a
diplomarmi presso la Scuola Romana di Fotografia.
Scatto con quello che ho in mano nel momento del bisogno, quindi anche
lo smartphone. Non ho mai dato particolare importanza al mezzo, sono anni che
scatto unicamente con un’ottica fissa e non mi ritengo un ‘meccanico’ della
fotografia. Prediligo la mirrorless solo per una questione di comodità, negli
ultimi anni hanno raggiunto livelli qualitativi equiparabili alle reflex, ma
non farmi parlare di marchi.
I tuoi progetti sono molti, ed è forse impossibile sceglierne uno, ma
se dovessi, quale è quello a cui sei più legato?
Difficilissimo rispondere, ogni progetto è un figlio quindi non si può
avere una predilezione. Posso dire che probabilmente “The Last Exit”, il lavoro
sulla memoria di mio padre, ha segnato una maturazione importante del mio
percorso e forse tracciato una nuova strada, ma anche quelli precedenti
rimangono fondamentali nella mia crescita ed evoluzione.
Da “The Last Exit”, 2013 |
Di sicuro uno dei tuoi temi preferiti, quello che ti tocca più nel profondo, è la memoria. Racconta...
La fotografia mi aiuta moltissimo ad affrontare i miei demoni e
soprattutto a rivivere un passato fatto di tragedie e gioie. La memoria è
necessaria per non dimenticare chi sono, da dove vengo e soprattutto cosa ho
vissuto. Molti dei miei progetti sono omaggi alla memoria, da “The Last Exit”
già menzionato, all’ultimo “Nostos” rappresentazione di un viaggio, di tanti
viaggi in realtà, in cui è fondamentale guardarsi indietro per affrontare il
domani.
Il Reportage è un genero complicato, è composto non solo da immagini ma
anche dal testo. Può durare una settimana come anni: mi vengono in mente “Tiny”
di Mary Ellen Mark o “Uncle Charlie” di Marc Asnin. Tu come decidi la durata di
un tuo lavoro? Come scegli le tue storie?
In questo senso
sono cambiato moltissimo!
All’inizio del mio percorso volevo tutto e subito, la
storia doveva emergere da subito; oggi
ho bisogno di tempo, tanto tempo, perché ogni argomento matura
attraverso un approfondimento che spesso è proporzionale alla durata. “Gioele”
è un work in progress che dura da 6 anni, ma tutti i miei progetti necessitano
del lungo periodo per giungere a conclusione. Sto lavorando ad un progetto
sulla cecità, iniziato da poco, ed ho il sentore che mi terrà occupato per
qualche anno.
Da “Gioele”, 2014 \ 2020 |
So che sei un avido lettore e ascolti molta musica. Quali sono stati i romanzi e i dischi che ti hanno influenzato di più nel tuo percorso di fotografo?
Vizi comuni amico mio! La musica e la letteratura sono ispirazione
continua. Tra le letture che ricordo avermi segnato profondamente a livello
fotografico c'è “La Strada” di McCarthy ; una frase tratta dal libro è anche la
presentazione di “The Last Exit”. Ma la lista sarebbe infinita, così come
quella musicale; per rimanere all’attualità la colonna sonora di “Nostos” è
sicuramente “Ghosteen” di Nick Cave che,
con le sue linee melodiche così malinconiche e nostalgiche, si adatta perfettamente
alla narrazione fotografica del mio libro. Sono nato con l'Heavy Metal, che
adoro tutt’ora, ma mi sembra un genere poco‘fotografico’, a differenza del Dark
che rispecchia moltissimo la mia fotografia.
Adesso è d'obbligo qualche nome dei tuoi fotografi preferiti e dei loro
lavori. Secondo te, per chi ama la fotografia e lo Storytelling, quali sono gli
“imperdibili”?
Io ho una predilezione per la
fotografia femminile, ho l’impressione che le donne abbiano una marcia
in più. Adoro la scuola russa, ci sono lavori straordinari, e non solo per una
questione esotica, io nelle foto cerco il contenuto prima di tutto. Se proprio
dovessi fare dei nomi tra questi citerei senza dubbio Alisa Resnik, grande
fonte di ispirazione per me, e il mio docente e fotografo Massimo Mastrorillo
che mi ha permesso di maturare una visione fotografica molto personale. Gli
imperdibili sono tutti quei progetti che
non conosciamo, che magari non hanno la ribalta dei grandi
palcoscenici fotografici, ma hanno tanto da dire. C’è un immenso sottobosco fotografico da scoprire ed in
questo la rete gioca un ruolo davvero importante per consentire un’esplorazione
che rivelerà tanta meraviglia.
Da “Qui Vive Jeeg”, 2017\2020 |
Quali sono i nuovi progetti a cui stai lavorando e se hai mostre fotografiche in arrivo?
Attualmente sto lavorando ad un progetto sulla cecità, che non è una
scelta casuale. Sono stato cresciuto da un nonno non vedente, e qui torna
il discorso legato
alla memoria e
all’omaggio di questa.
Contestualmente porto avanti il progetto su Gioele e quello forse più prezioso
per il futuro, quello su mia figlia Syria. Di mostre in mente ne avrei tante ,
dal già citato “Nostos” a “Qui Vive Jeeg” un lavoro ambizioso per ribaltare gli
stereotipi legati ad un quartiere complicato e complesso come Torbellamonaca.
Vedremo cosa ci riserverà l’autunno, ma io sono positivo e fiducioso.
Per concludere, chiedo anche a te, quale è il consiglio che dai a chi
inizia: perché qualcuno dovrebbe impugnare la macchina fotografica e uscire a
fotografare?
La fotografia è un mezzo potentissimo, uno strumento utile a scoprire,
riscoprire ed approfondire. Divertitevi sempre, non pensate di considerarlo solo un lavoro, ma soprattutto
cercate di emozionarvi ed emozionare, sempre!
Dove è possibile vedere le tue fotografie?
Questo l'indirizzo del mio sito: Fabio Moscatelli
Instagram: fabio74.moscatelli
Crescere con l'autismo, il foto-progetto di Fabio Moscatelli
Da “Nostos”, 2018 |
Seguo Fabio Moscatelli come autore da diversi anni, la sua produzione (e lo dico con piacere) è particolare e fuori dagli schemi. Sono contento che tu abbia realizzato questa intervista lui. Del resto il tuo blog è sempre pieno di articoli e riflessioni interessanti. Davvero complimenti Stefano.
ReplyDeleteSergio Casella
Grazie di cuore 🙏
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