Francesco Zizola. Chiang Mai, Tailandia, 1996 |
“Ogni racconto richiede uno svolgimento grammaticale ma anche uno svolgimento emozionale, per evitare che diventi sterile: questo vale anche in fotografia.”
(Francesco Zizola)
Torniamo in Italia, precisamente a Roma, la mia città, dove è nato il
prossimo fotografo di cui voglio parlarvi: Francesco Zizola, classe 1962.
Studente di antropologia, ha
ricevuto ben dieci riconoscimenti World Press Photo, più un World Press Photo of
the Year nel 1997, grazie al suo reportage nell'Angola martoriata dalle mine.
Io sono particolarmente affezionato ad un suo libro, quel “Born
Somewhere” pubblicato nel 2004, perché è stato uno dei primissimi libri
fotografici che comprai quando ho iniziato ad appassionarmi di fotografia.
Dopo i colori sgargianti e i paesi esotici di McCurry, mi imbattei in
questo libro di profondo bianco e nero, con foto crude e violente emotivamente.
Lo comprai e guardai decine e decine di volte, leggendo tutte le storie
dietro ogni singola fotografia.
Francesco Zizola |
È un libro che parla di infanzia, ma non quella solita, bensì di
infanzia violata, in ogni modo che possa venire in mente.
Zizola ha speso oltre dieci anni – dal 1991 al 2004, più precisamente –
viaggiando per quasi venti paesi per documentare la difficile vita dei bambini:
Cina, Somalia, Bangladesh. Iraq, Tailandia, Indonesia, Libia, Kosovo,
Brasile...
Bambini imprigionati, abbandonati in strada, usati come merce di
scambio, abusati o usati come puro motivo di orgoglio dai genitori.
Come scrive Caroline Milic nell'introduzione al libro:
“Lo scopo di questa indagine sulla
desolazione e le miserie dell'infanzia non è quello di brandire la nozione
ormai svanita dei diritti umani, avanzata il più delle volte nel vano tentativo
di sostenere tutto e niente. Ci mette principalmente di fronte alle nostre
contraddizioni, le contraddizioni degli occidentali che tendono a vedere
l'infanzia come uno stato di grazia e purezza e chiudono semplicemente gli
occhi. Soprattutto rappresenta la nostra coscienza sporca, colpevole di aver
ignorato sia l'abbandono che la violenza subita da questi bambini.”
Francesco Zizola. Kuito, Angola, 1996 |
Insomma, non un libro facile. Ma, per me che ho sempre amato fotografare i bambini, fu un acquisto obbligato.
Non solo, ma questo libro si è intrecciato alla mia vita personale degli ultimi anni; gli devo molto. Perché la foto che mi colpì di più l'ho mostrata e raccontata molte volte, durante i miei corsi, dall'Italia all'Indonesia.
Poi, nel 2017, durante un tour di un mese con i miei workshop di
fotografia in diverse regioni della Malesia, fui invitato a tenere un breve
discorso sul potere della fotografia come comunicazione non verbale presso
l'Università USM a Penang, davanti al Rettore e a tutto il Senato universitario
e alla casa editrice Penerbit USM.
Mostrai una decina di immagini, raccontando la storia dietro ognuna di esse: l'unica fotografia non mia fu questa di Zizola. La presentazione fu così potente che, durante il pranzo fui fatto sedere al tavolo del Rettore e gli editori, e mi fu proposto di lavorare per una anno alla realizzazione del libro fotografico per il Cinquantenario dell'Università.
Io accettai immediatamente, e l'anno successivo la mia vita cambiò. Come ho scritto in altro luogo, ho vissuto in Malesia per quasi due anni e mi manca ogni giorno.
Francesco Zizola. Tokyo, Giappone, 1999 |
Anche durante quel lungo periodo non ho smesso di raccontare questa storia. Penso che ci saranno molti di voi che la conoscono ormai a memoria.
È una fotografia che nella mia classe sui Maestri della Fotografia,
divisa per categorie, ha rappresentato lo Storytelling, e di solito seguiva
anche un breve accenno ad alcune regole basilari sulla fotografia.
Quella ad essa legata era la precauzione di non tagliare mai mani o
piedi quando si fotografano le persone.
Tante volte mi sono arrabbiato nel
vedere fotografie con persone dalle dita delle mani o i piedi amputati
da scatti frettolosi, quando molte volte si tratta solo di fare un passo
indietro.
Perciò, quando poi mostravo questa fotografia tutti mi guardavano con
occhi interrogativi, se non imbronciati.
“Ma come? Per un dito mozzo ci bacchetti le mani, e questo taglia teste
a metà e vince anche premi?”
La voce della verità degli studenti.
Bene, qui inizia la storia.
La prima cosa più importante da dire è che nel libro ci sono 172
fotografie, e in ognuna di esse è ritratto un bambino.
Questa è l'unica fotografia in cui non ci sono bambini.
Allora leggiamo la fotografia, prima di sapere la storia che Zizola ci
racconta nella didascalia.
Ci sono due figure di anziani, nell'oscurità più totale, con un nero
che sembra macchiare le dita, un quadro appeso in mezzo.
“Poi? Cosa altro c'è?”
“Una porta...”
“Guardate la foto! Che altro c'è?”
“Un televisore”
Bene...
La signora anziana ha un volto rugoso, appesantita.
I corpi sono entrambi rigidi, di certo non a loro agio nell'essere
fotografati.
Ma perché non c'è nessun bambino?
Dove siamo?
Chiang Mai, Tailandia.
Non occorre aprire qui una discussione sui pregiudizi e i luoghi
comuni.
La Tailandia è una delle mete del turismo sessuale rinomata in tutto il
mondo. Nessuno lo può negare, nonostante io ami profondamente la storia
culturale e artistica di questo paese.
Allora che c'entra leggere la fotografia, l'assenza di bambini nella
foto e l'errore tecnico di tagliare la testa dell'uomo?
Che un fotografo pluripremiato e nel fotogiornalismo da decenni non sa
scattare una fotografia?
Leggiamo la didascalia di Zizola:
“Questa coppia ha venduto la nipotina e ha
acquistato un televisore con i soldi ricevuti. La parte povera del nord del
paese cede i suoi figli alla fiorente industria del sesso del paese, dove intermediari
senza scrupoli rapiscono o inducono le famiglie a vendere i propri figli al
commercio del sesso.”
E qui cade il gelo.
Tutti muti rimangono ad osservare la fotografia come si osserva
un'aurora boreale del male.
Ecco perché non c'è nessuna presenza d'infanzia, perché è stata
barattata per un televisore nuovo.
Immaginiamo il reporter ascoltare questa storia dai due anziani, con il
sangue che brucia nelle vene, le tempie che pulsano, verrebbe da alzarsi e
prendere a calci quel maledetto televisore, spaccarlo in mille pezzi.
Ma un fotografo rappresenta la realtà, la ascolta e la racconta, non
può intervenire se non con i suoi occhi. Affinché tutto il mondo sappia.
Ma un fotografo ha un'arma potente, non è detta l'ultima parola.
Ha la sua macchina fotografica.
Che è essa stessa anche parola, giudizio, pugno e lama.
Allora che razza di uomo sei che vendi tua nipote per comprare una
televisione? Stiamo ancora parlando di esseri umani?
Bene, che ci sia allora nella mia immagine la televisione nuova, ma non
il tuo volto. Io te lo taglio...
Ti deprivo della tua identità perché tu stesso hai venduto la tua
dignità.
Non stiamo parlando più di regole della composizione, ma di giudizio
morale.
Nessuno saprà mai il tuo volto, non per pudore e tutela della privacy,
ma perché non si è degni di essere visti, di essere nel “frame” del mio
racconto. Della mia porzione di mondo.
Questo non fermerà il traffico sessuale né tantomeno libererà quella
povera piccola bambina da chissà quale bordello, ma almeno avrà compensato
almeno l'impossibilità di spaccare quel televisore.
Non esiste una fotografia neutrale.
Noi siamo sempre nelle nostre fotografie, con il nostro pensiero e la
nostra scala di valori.
Non sempre è facile renderlo leggibile.
Solo i grandi fotografi riescono in questo.
Ecco perché questa è una delle fotografie che più amo.
Francesco Zizola. Salvador de Bahia, Brasile, 1993 |
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Stef, da qualche giorno sto pensando ai figli delle madri sole, ai loro traumi e ai loro sogni. Vedendo le foto riportate nell'articolo ho pensato che ci sono ragazzi o donne con arti amputati anche se gli arti sono al loro posto. Ho pensato che ci sono alcuni padri non degni di uno scatto completo.
ReplyDeleteGrazie anche per avermi fatto scoprire Zizola!
Grazie mille 🙏
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