Una Vecchia Lettera Verde

“Tutti scoprono il loro angelo avendo una relazione con il diavolo”
(Mia Couto)

 

ROME – 28, 29, 30 Settembre 1993

 

Non si dovrebbero mai aprire i cassetti.

Mia madre mi ripete da sempre di buttare tutte le vecchie carte e i disegni conservati negli anni.

Ma io sono un compulsivo; devo conservare ogni cosa, anche la più insignificante. Accumulare.

Come se questi cumuli di carte, album, buste di plastiche e scontrini potessero colmare dei vuoti.

Buttare tutto significa vivere nel vuoto, per me, non essere più distratti da ciò che è fuori di me ed essere costretto ad osservare quello che è dentro.

 

Ieri sera, nella solitudine e nel silenzio, ho deciso di cercare alcuni vecchi disegni, perché sono molti gli amici che vogliono vedere come disegnavo da ragazzo.

Di disegni non ne sono rimasti molti, sono tutti in un cassetto stracolmo di carte, lettere e quaderni di poesie.

Ho trovato questo disegno datato 28\29\30 settembre 1993: tre giorni per completarlo, a 19 anni, nel pieno del mio furore poetico e di lettore accanito. Di certo uno dei periodi più complicati della prima parte della mia vita, dal punto di vista emotivo, appena entrato all'Università e con in testa migliaia di pagine lette di libri e poesie.

Uno dei rari disegni fatti a matita; io ho sempre preferito la penna (nera) perché non puoi sbagliare, non puoi cancellare, tutto è più istintivo e primitivo.

Se dovessi riassumere in un dualismo la mia esistenza – altamente bipolare – primitivo e intellettuale sarebbero le due polarità perfette.

È sempre stato uno strattonarsi tra queste due tendenze, anche in modo violento: quando la mente tendeva ad innalzarsi troppo veniva trascinata giù al suolo, in modo aggressivo, dalla parte più selvaggia e primitiva di me. Questo, penso, sia il motivo per cui io posso essere a mio agio, allo stesso modo, nelle classi universitarie ad insegnare come nei meandri di slum tra oscurità e degrado. Non sono luoghi in cui potrei trascorrere la mia vita ma sono luoghi presenti dentro di me.

È complicato da spiegare.

 

Comunque, disegnare con la penna, come lo scrivere su quaderni questi pensieri invece che al computer, rispondono a quel lato primitivo di me, dove apri un rubinetto al massimo e lasci che tutto il liquido fuoriesca con un getto incessante e travolgente.

Come ogni cosa che appartiene al nostro passato, e alla nostra adolescenza, provo malinconia e tenerezza nel guardare questo disegno.

Penso volessi provare a rappresentare la mia anima, quello che ero, minuziosamente. Ecco perché ci impiegai tre giorni, quando di solito ero molto veloce a disegnare.

Sembra una seduta dallo psicologo riversata su un foglio.

Mi riesce bene ad interpretare i pensieri e leggere nei sentimenti delle persone perché fin da bambino l'ho fatto su me stesso, senza pietà. Perciò sto seduto al tavolo e mi osservo, nella mia stanza dove ogni piccolo elemento ha un significato.

 

Certo che leggere sé stessi dopo oltre venti anni non ha molto senso, noi cambiamo ogni istante della nostra vita, e alcuni simboli non riesco neanche più a comprenderli.

Mi piace molto l'occhio sulla mano che impugna una penna con un buco della serratura in cima. Per me scrivere è sempre stato un modo per “vedere meglio”, per spiare ciò che accade al di là di una porta chiusa. Per scavare nella psiche, mia e di chi mi è davanti, cosa che adesso mi riesce meglio con la fotografia e i ritratti.

Gli scrittori che ho amato di più sono sempre stati quelli che più che intrattenere o far rilassare il lettore, affondavano invece la penna fin nei pertugi più oscuri dell'animo umano: Dostoevskij, Kafka, Thomas Bernhard, McEwan, Ciroan...

Una lista che potrebbe riempire molte pagine; diciamo tutti coloro che hanno sempre scritto con un occhio sulla propria mano.

Samuel Beckett poi l'ho proprio messo nella cornice fotografica sul tavolo a sinistra, senza sapere all'epoca che sarebbe stato poi parte della mia tesi di laurea all'Università.

Poi tanta musica incompiuta, tra un violino bucato appeso al soffitto e il pianoforte che diventa un libro.

In casa abbiamo avuto un pianoforte a muro elettrico (ancora c'è in camera dei miei genitori), e da bambino lo suonavo continuamente; mia madre mi volle iscrivere ad una scuola di musica ma ero troppo piccolo, dovevo aspettare di andare a scuola per imparare a leggere e a scrivere, e non se ne fece più nulla.

Una delle poche forme artistiche che non mi è mai appartenuta, ma sono un divoratore di musica quanto di libri, e intorni ai venti anni mi divertii come DJ di musica elettronica per un anno.

 

In realtà è un disegno pieno di disperazione, ma a cui io stesso ritratto guardo quasi con disincanto, imperturbabile, come se fosse un'abitudine.

Se è poi mai possibile abituarsi al proprio dolore e alla propria follia.

In fin dei conti è solamente un disegno, a 19 anni, fin troppo cerebrale per i miei gusti; questo per accontentare chi me lo aveva chiesto, e far vedere una parte della mia infanzia.

Ciò che ora scrivo e come fotografo sono anche il risultato del contenuto di questo disegno.

Però è innocuo, ripeto, non mi colpisce più di tanto.

 

Il problema non è il disegno.

Ma una lettera che è caduta da un quaderno di poesie, pieno di altre lettere e foglietti, che era sopra l'album di disegni.

Una lettera scritta non da me, firmata solo dall'iniziale di un nome, datata 24 ottobre 1996, su carta verde.

Una lettera di cui avevo completamente dimenticato l'esistenza e che mi è costata molta fatica per ricordare di chi fosse il nome.

In tutta la mia vita non sono state poche le persone che mi hanno voluto fortissimamente bene ed amato e che hanno tentato di districarsi nel labirinto che è nel mezzo del mio petto, come nel disegno.

C'è anche chi si è ferita nel farlo, chi se ne è andata, chi ho dimenticato.

Alcuni sono andati così vicino al nucleo oscuro dentro di me che mi fa ancora male nel ricordarlo.

 

Questa lettera è una tremenda pugnalata, che mi ha lasciato stordito sul tappeto, seduto per lunghi minuti, con gli occhi umidi.

Centomila volte più del disegno.

E quello era stato fatto da me, doveva essere lo specchio fedele del mio mondo interiore. Ma non va così pericolosamente a fondo come queste parole.

 

Che senso ha farvele leggere?

Sembra quasi una forma di pornografia del privato.  Una forma di pruriginoso narcisismo.

Assolutamente no. Io conosco bene il destino di Narciso, che a forza di osservare il suo volto riflesso sull'acqua ci cade dentro e muore.

Non è questo.

Lo faccio per me stesso. Per chi mi vuole bene, per chi mi chiede continuamente chi sono.

Lo faccio per esorcizzare i miei demoni interiori.

Come gli sciamani, che per curare le menti malate cantano formule antiche, perché la parola è una cura, se esce fuori da noi stessi.

Io leggo queste parole, le scrivo e piango:

 

“Quale colpa tremenda
dirige il tuo agire?
Quale tormento
guida i tuoi pensieri?
C'è carne e lussuria,
c'è un angelo senza occhi per piangere
che non può e non vuole vedere la Bestia.
C'è amore distrutto da follia o morte.
C'è disperazione e perdizione
quasi un'oscura conseguenza,
come per voler saziare quell'enorme voragine.
Ma poi ti rendi conto
e cerchi di espiarla
col tormento di amori maledetti,
non vissuti o tragicamente finiti.

Ho letto grida di dolore
rifiuti ed ossessioni
verso quella Bestia
che cerchi di domare
e di cui sei periodicamente schiavo.
Ma perché non la perdoni?
Perché non la riscaldi con amore puro?

Non puoi né stordirla
né distrarla con orge di sensi."


24 X '96

 

Io ho amato molto questa ragazza all'epoca. Lei lesse tutte le mie poesie e parlammo per ore e ore, le notti, chiusi in macchina. Ma rimase tutto imploso.

Lei andò via una sera consegnandomi questa lettera.

Non l'ho mai più rivista.

Ma le sue parole mi fanno ancora tremare.

Questo ero io in quel periodo, e forse ancora adesso...

Ora capite il motivo per cui mi piace ridere molto.

 

Per non piangere.

 

Recommended books:
Fyodor Dostoevsky: “Demons”
Franz Kafka: “The tales”
Thomas Bernhard: “Gargoyles”
Ian McEwan: “Atonement”
Emil Cioran: “The fall in time”
Samuel Beckett: “Happy Days”

Suggested song: Andera Parker — Clutching At Straws






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