Mi è stato chiesto quali sono stati i libri che hanno cambiato la mia vita. Una parola impegnativa.
Io leggo da quando ero bambino, e il mio primo racconto, come mi disse mia madre, era “Il Libro della Jungla”. Mi è sempre piaciuto e i libri sono stati i miei migliori amici.
Non credo che ci siano stati libri che hanno cambiato la mia vita, se non uno, ma è un'opera filosofica e non un romanzo. Di certo ci sono libri che ho amato moltissimo, ed è quasi impossibile stilare una classifica, perché ciò che ci piace ad un'età non è detto che ci piaccia allo stesso modo in futuro.
Ci sono poi libri che sono dei classici, che tutti dovrebbero avere o leggere una volta nella vita; soprattutto se poi si ama scrivere, perché come non si può fotografare bene se non si guardano le fotografie dei Maestri, così non si può scrivere se non si è letto almeno una volta Dostoevskij, Joyce, Hesse, Kundera, Hemingway, Kafka, e in Italia Calvino, Pirandello, Buzzati, e via dicendo.
Perciò ho deciso di dirvi quali sono i libri che amo di più, per quanto riguarda i romanzi, le poesie e i saggi.
All'inizio pensavo cinque, ma poi ho creduto sia meglio focalizzarsi sui primi tre, più altri due brevemente accennati. Queste classifiche potrebbero essere i migliori dieci, o venti, o cinquanta, e non finire mai. Quindi è meglio darci un taglio e sceglierne tre (più due).
Inoltre non vorrei neanche dilungarmi sulle trame, perché credo che raccontare i libri è come per i film, si rovina qualcosa.
1) Il primo libro in cima alla mia classifica personale, quello che porterei con me nella famosa isola deserta, è “Cecità” dello scrittore portoghese, Premio Nobel alla Letteratura nel 1998, Josè Saramago.
All'inizio non sapevo chi fosse, come sempre in libreria si sfogliano i libri a caso grazie ai titoli, alle note di copertina, e questo titolo era invitante per un fotografo: “Cecità”. Lo lessi tutto d'un fiato. Uno, due, tre volte. Tremendo.
E come capita quando si amano certi libri inizi a regalarli alle persone a cui vioi bene, e questo libro io l'ho regalato molte volte. Adesso è uno dei libri più venduti, insieme a “La Peste” di Camus, perché affronta un tema che ci vede tutti coinvolti. Un contagio improvviso, in una città imprecisata.
Una caratteristica che mi fa amare i libri
sono i loro incipit, come iniziano: devono catturare dalla prima parola. Ci sono romanzi
famosi proprio per i loro incipit, che poi sono tra le cose più difficili
quando si scrive un racconto. Saramago non usa virgolettati nei discorsi, non usa i
nomi delle persone, tutto scorre come un magma incandescente.
Ad un semaforo tutte le automobili partono
al verde, tranne una, perché il conducente è diventato improvvisamente cieco,
vede tutto bianco: è l'inizio di un contagio che renderà cieca tutta la
popolazione della città, tranne una donna – la moglie di un medico – che sarà
costretta a vedere a che livelli infimi e amorali gli uomini si riducono in
condizioni estreme, peggiori delle bestie. La sua è una condanna più che un
privilegio.
Internati in un ex manicomio i ciechi
malvagi controllano e abusano in ogni modo dei ciechi più deboli, compresi
stupri descritti in un modo terribile che vi lasceranno incubi per notti e
notti.
Saranno proprio le donne a guidare la
ribellione e provare a capovolgere la legge del più forte ina una lotta alla
sopravvivenza.
Saramago, durante il discorso all'assegnazione del Premio Nobel, disse che la società contemporanea è cieca perché ha perso il senso della solidarietà tra le persone. Della compassione.
Fortunatamente, i recenti eventi legati al
Covid ci hanno permesso di vedere un'altra umanità, con centinaia di dottori,
medici e infermieri che hanno sacrificato la loro vita per salvare quella di
sconosciuti. Uno dei rari casi in cui la realtà è migliore dell'immaginazione.
Ma questo libro rimane un capolavoro e un monito terrificante. A non perdere mai quella solidarietà e compassione che ci consente di “vedere” l'altro. La cecità peggiore è quella del cuore.
2) “Norwegian Wood”, “Tokyo Blues” nella
versione italiana, è – credo – il libro che ho regalato di più, insieme a
“Siddharta” di Herman Hesse.
Scritto da Haruki Murakami nel 1987, tra la
Grecia e Roma, è tratto dal racconto “La lucciola” (Hotaru), ed è il primo
romanzo che si distanzia dai romanzi e racconti precedenti, dal contenuto
surreale e fantastico.
“Norwegian Wood” è un lungo flash-back del
protagonista Toru, che ricorda i suoi anni dell'università, durante le
contestazioni studentesche degli anni '60, diviso tra l'amore per due ragazze:
la fragile Naoko e la spigliata Midori. È un lungo resoconto sull'adolescenza,
sulla solitudine, sula lotta interiore tra essere che la società vuole ed
essere sé stessi. Toru, come un giovane Holden giapponese (e Salinger è uno
degli autori preferiti e tradotti da Murakami, insieme a Carver) è in cerca
della strada più congeniale alla propria vita.
Con una scrittura scorrevole e dolce, ricca
di dettagli, affonda le unghie nel cuore e nei tormenti affettivi e sessuali di
un adolescente, in cui ognuno di noi può riconoscersi.
Crescere significa rinunciare ai nostri
sogni, agli ideali. Ogni protagonista è avvolto da una spirale di morte e
sofferenza; lo stesso Murakami, nella postfazione, dedica il romanzo ai suoi
amici defunti.
È un libro che ci racconta come anche chi
sembra forte nasconde le sue insicurezze e di come, a volte, è difficile uscire
dalle sabbie mobili che ci trascinano in basso. È un libro che parla sì di
amore, ma senza la sua capacità salvifica.
Murakami è molto bravo a descrivere gli
stati d'animo, i dettagli interiori, e ha un gran senso del ritmo che gli
deriva dalla sua passione per la musica, che è presente in ogni suo romanzo, e
in questo la colonna sonora è onnipresente; lo stesso titolo è una canzone dei
Beatles.
“Norwegian Wood” è un romanzo da leggere
molte volte. A distanza di anni. E, come “Cecità”, è un monito a non arrendersi
come fa Toru, incapace, in fondo, di prendere la decisione più importante nella
sua vita.
Il prezzo è la solitudine.
3) “Uno, nessuno e centomila”. Questo libro
l'ho comprato nel 1991, quando ancora scrivevo le date degli acquisti in
libreria sulla prima pagina, nell'ultimo anno delle scuole superiori, quando
esplose in me l'amore per la letteratura e l'arte: scrivevo moltissimo e
divoravo romanzi e poesie. Infatti, l'anno successivo mi iscrissi alla facoltà
di Letteratura e Filosofia.
Luigi Pirandello è uno dei nostri sei Premi
Nobel per la Letteratura, nel 1934, “per il suo coraggio e l'ingegnosa
ripresentazione dell'arte drammatica e teatrale”, come si legge nella
motivazione.
Lui è stato un grande drammaturgo, celebri
sono i suoi “Sei personaggi in cerca d'autore”, e il suo romanzo più famoso
rimane “Il fu Mattia Pascal” del 1904.
Ma io ho amato molto questo libro, con il
suo stile inconfondibile che unisce umorismo a tematiche kafkiane, Pirandello è
capace di indagare a fondo l'animo umano, con un interesse in particolare per
la psicoanalisi (che deve molto a questo autore).
Questo romanzo ha un incipit grandioso: un
uomo è allo specchio, Vitangelo Moscarda, quando la moglie gli fa notare che il
suo naso gli pende da una parte. Cosa che lui non aveva mai notato, e questo
gli fa crollare tutta la concezione di sé stesso che aveva avuto fino ad
allora. Inizia un lungo racconto in cui si ride per non piangere, in cui
assistiamo ad un
tema che diventerà un classico di molta letteratura in avanti: la crisi
dell'individuo, il “tema della maschera”, di cui Pirandello può
considerarsi
il capostipite. Chi siamo noi? Quale è la
nostra vera identità? Quella che è costruita da noi stessi o quella che gli
altri costruiscono per noi? Sono Io per me stesso, oppure nessuno perché in
realtà sono centomila per ogni persona che mi vede e mi pensa dà fuori?
Il tutto dal primo momento che prende
coscienza di sé stesso davanti allo specchio, anticipando di ben dieci anni la
“fase dello specchio”, teorizzata dallo psicoanalista Lacan nel 1936,
ovvero lo stadio in cui il bambino, tra i 6 e i 18 mesi di età, riconosce sé
stesso per la prima volta allo specchio.
Io ho sempre amato questo tema, e l'ho poi
approfondito con gli studi di Psicologia e Letteratura all'Università.
L'animo umano è un abisso in cui non si
riesce a toccare il fondo. Noi possiamo solamente calarci dentro con una
piccola lanterna in mano.
Pirandello lo ha fatto in modo superbo, e
con molta ironia.
Gli ultimi due:
4) “Il deserto dei Tartari”, scritto da
Dino Buzzati nel 1940, è il libro che ha lottato duramente con Pirandello per
il terzo posto, e nel mio cuore sono a pari merito. La Fortezza Bastiani,
Giovanni Drogo, il deserto dei Tartari, sono entrati nel modo di dire di molti
di noi. Come “Aspettando Godot” di Samuel Beckett (autore su cui ho fatto la
tesi di laurea), i Tartari sono il simbolo dell'attesa, di qualcosa che arrivi
a dare un senso alle nostre esistenze, ma che non arriva mai.
Quando finalmente arriva noi non siamo più
pronti ma abbiamo imparato a convivere con la morte, e a non averne paura.
Un romanzo che non ti abbandona più, per
sempre, perché in ognuno di noi c'è una Fortezza Bastiani.
5) “Il Processo” di Franz Kafka, uscito
postumo nel 1925, potrebbe tranquillamente essere il primo romanzo della lista,
perché ognuno dei libri citati, e chissà quanti altri, sono tutti figli di
questo capolavoro del Novecento. Joseph K. è il simbolo dell'uomo moderno
stritolato dall'incomprensibile, dall'autorità che ci annienta senza una
spiegazione. Se ancora oggi noi usiamo dire per qualcosa che non capiamo e ci
sembra assurda che è una “situazione kafkiana” vorrà significare qualcosa.
Assolutamente da leggere.
Josè
Saramago: “Cecità” (Einaudi, 1998)
Haruki
Murakami: “Tokyo Blues” (Feltrinelli, 1998)
Luigi Pirandello: “Uno, nessuno e
centomila” (Mondadori, 1991)
Dino Buzzati: “Il deserto dei Tartari”
(Mondadori, 1989)
Franz Kafka: “Il processo” (Mondadori,
1989)
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