“La Poesia cura le ferite inferte dalla ragione” scriveva Novalis, e io credo questa frase sia perfetta per descrivere il potere della poesia, che come un farmaco dolce si sparge sulle nostre ferite e lenisce il dolore, anche se per il tempo della sua lettura.
Io ho sempre preferito scrivere poesie
piuttosto che romanzi o racconti. Sono profondamente affascinato dalle parole,
dal loro suono, la loro origine, la loro assonanza; il regalo più bello che mi
fece mio padre da bambino furono i diciotto volumi dell'Enciclopedia
Universale: ogni giorno aprivo un volume a caso e leggevo le origini delle
parole che trovavo, e mi annotavo quelle più particolari.
Gli sciamani indiani, cosi come i guaritori
filippini, i Babaylan, hanno sempre creduto nel potere guaritore delle
parole, più che nei farmaci. La parola può curare.
Perciò io ho comprato, nella mia adolescenza,
molti libri di poesia. C'è stato un tempo remoto in cui, ogni sabato sera, mi
ritrovavo in una casa splendida nel centro di Roma, in un circolo poetico, a
leggere le nostre poesie, ma ormai io lo ricordo come se fosse un'epoca parallela, che non è mai esistita.
Il problema della Poesia è lo stesso di
Icaro. Le parole magnifiche fanno volare troppo in alto, ubriacano, ci fanno
credere di essere migliori di quello che siamo, ci fanno perdere il contatto
con il suolo e volare troppo vicino al sole che, sciogliendo le nostre ali, ci
fa cadere a terra. Come si dice qui, il Poeta vive nella sua Torre d'Avorio e
osserva tutta l'umanità dall'alto della sua preziosa solitudine.
Che grave errore.
Bisogna essere cauti con le parole,
guariscono e rendono ubriachi.
Tuttavia, per me, la poesia rimane uno dei
vascelli più belli per attraversare l'oceano. Questi sono i miei cinque poeti
preferiti.
1 – Il primo è senza dubbio l'enfant
maudit della Poesia, Arthur Rimbaud, il giovane ragazzo francese che, con
Baudelaire e Verlaine, formò la triade del Decadentismo in Poesia.
Come lui non ce ne sono stati altri di
poeti, fu come Mozart per la musica, precoce e un fuoco di talento. Bellissimo
come un angelo e maledetto come un diavolo. Uno dei destini più misteriosi
della letteratura. Rimbaud scrisse solamente per tre anni, dai 16 ai 19 anni,
in cui proclamò il “deragliamento di tutti i sensi”, lo sfrenamento dei sensi,
per farsi poeta e veggente, grazie anche all'abuso di oppio e assenzio, e
l'amore tempestoso con l'amico poeta Paul Verlaine.
Un animo indomabile, incapace di trovare
pace, che percorse l'Europa a piedi. A 19 anni compose “Una Stagione
all'Inferno”, uno dei capolavori della Poesia di tutti i tempi, per poi
condannarsi al silenzio e iniziare a viaggiare, per diventare un mercante di
schiavi in Africa. Fu anche tra i primi a visitare Bali.
Rimbaud, il poeta dagli occhi azzurri, è
l'emblema del poeta maledetto, in cui vita e arte diventano una cosa sola, e
come una meteora raggiunge vette altissime di poesia per poi rinunciare a
tutto, per scegliere l'avventura.
Questo libro lo comprai nel 1991, a diciassette
anni, dopo che durante le lezioni di letteratura alle scuole superiori, mi
innamorai del Decadentismo: i “Paradisi artificiali” di Baudelaire, Verlaine, i
“Canti di Maldoror” di Lautréamont. Ma, per me, Rimbaud era veramente il genio
ribelle, il “veggente”, che ha dato i colori alle vocali, che sperimentava
nuovi linguaggi, il vagabondo nell'oscurità (in mille modi è stato descritto
dalla critica letteraria). Come scrisse in una lettera a Paul Demeny: “Il poeta
è veramente un ladro di fuoco”, e il suo incarico è quello di scoprire i
destini dell'umanità, coltivare le allucinazioni.
Io avevo la sua stessa età quando iniziai a
comporre poesie e, fino ad adesso, lo considero il Poeta per eccellenza. Anche
se scrisse per soli tre anni aveva veramente una visione, un fuoco che ardeva
ogni cosa.
Nel 1891 un tumore al ginocchio lo portò
all'amputazione della gamba, come predisse in una sua vecchia poesia, proprio
nelle gambe lui che fu uno dei più grandi camminatori della storia della
letteratura.
Morì nel novembre del 1891, a trentasette
anni.
“Je m'en allais, les poings dans mes poches
crevées;
Mon paletot aussi devenait idéal:
J'allais sous le ciel, Muse! et j'étais ton
féal;
Oh! là là! que d'amours splendides j'ai
rêvées!”
“Me ne andavo, i pugni nelle tasche
sfondate;
E anche il mio cappotto diventava ideale;
Andavo sotto il cielo, Musa! ed ero il tuo
fedele;
Oh! quanti amori splendidi ho sognato!”
(da “Ma Bohème”)
2 – Se Rimbaud è il simbolo della vita
avventurosa , ribelle e maledetta, Emily Dickinson è completamente il
contrario.
Conosciuta come la dama bianca della
Poesia, la poetessa americana, nata nel Massachusetts nel 1830, ha una vita tutt’altro
che movimentata. Anzi, la sua fama, oltre che per le splendide poesie, è legata
proprio alla sua scelta di vita, quella della totale reclusione e isolamento,
nella sua casa. Si dice per una delusione amorosa, non è stato mai capito con
certezza, ma a trentadue anni Emily scelse di vestirsi solo di bianco e di non
uscire dalla sua casa: i confini del mondo diventarono le mura domestiche e il
suo giardino. Qui scrisse per altri venti anni, morì a 56 anni, poesie tra le
più belle della letteratura americana e mondiale.
Io sono cresciuto con il mito
dell'immaginazione, da quando disegnavo e creavo sul foglio bianco, da bambino,
sino alle passioni legate alla scrittura prima e alla fotografia adesso.
L'immaginazione, la visione, è l'unica cosa
che ci rende veramente liberi, come riassunse in modo perfetto l'Amleto di
Shakespeare: “Potrei vivere nel guscio di una noce e considerarmi comunque re
di uno spazio infinito”.
Perciò, io cito spesso la Dickinson perché
lei fu questo: il potere dell'immaginazione.
Allen tate, nel suo saggio su Emily
Dickinson del 1932, scrive proprio questo:
“Ogni pietà per la “vita denutrita” di Miss
Dickinson è spesa male. La sua vita fu tra le più ricche e profonde che siano
state vissute su questo continente.
Quando salì in camera sua e chiuse la
porta, ella dominò la vita mediante la
rinunzia”.
Il suo linguaggio è ricchissimo, ha
inventato una nuova forma di punteggiatura, un uso di rime e assonanze
impressionante. Poesie spesso brevi ma altamente simboliche e visionarie.
Ovunque voi siate rinchiusi, in spazi
fisici o mentali, quando vi sembrerà di non poter respirare, per una
claustrofobia dell'anima, o perché costretti in luoghi che vi opprimono come
prigioni, ricordate questa dolce donna di fine ottocento, vestita di bianco,
intenta ad annaffiare i fiori nel suo giardino, per venti anni, ma la cui potenza
visionaria e immaginifica la portò in luoghi così remoti che una vita a noi non
basterebbe.
Nessuna catena può fermare la nostra
fantasia.
“Water, is taught by thirst.
Land – by the Oceans passed.
Transport – by throe –
Peace – by its battles told –
Love, by Memorial Mold –
Birds, by the Snow”
“L'acqua è insegnata dalla sete.
La terra, dagli oceani traversati.
La gioia, dal dolore.
La pace, dai racconti di battaglia.
L'amore, da un'impronta di memoria.
Gli uccelli, dalla neve”
(1859)
3 – Costantino Kavafis è considerato il più importante poeta greco moderno. Nato ad Alessandria d'Egitto da famiglia greca nel 1863, scrisse nella sua vita solamente 154 poesie, ispirate principalmente alla tradizione classica greca e alla sua mitologia.
Al contrario della Dickinson, lui visse una
reclusione forzata, nel chiuso della sua stanza, con le serrande abbassate al
lume di una sola lampada, perché emarginato ed evitato a causa della sua
omosessualità.
Fu ignorato per tutta la sua vita, morì a
70 anni, condannato a combattere da solo i suoi demoni interiori, e quel senso
di colpa per un erotismo considerato dalla società sbagliato, malvagio. La
poesia fu la sua unica forma di salvezza, di resistenza e di bellezza.
Io comprai il suo libro nel 1996, e – come
tutti coloro che hanno letto la sua opera – mi innamorai perdutamente di una
sua poesia, la più famosa: “Itaca”, scritta nel 1911.
Io considero questa poesia, nonostante i
precedenti lavori di Rimbaud e della Dickinson siano in cima alla mia lista, la
più bella poesia che sia stata mai scritta in epoca moderna, senza scomodare
quei classici a cui lo stesso Kavafis si ispirava.
Itaca è infatti il viaggio omerico di
Ulisse nell'Odissea. Ma è molto di più.
È il modo più meraviglioso di descrivere,
in poesia, il senso della nostra esistenza.
È la lezione più grande che ci è dato di
imparare in vita: ovvero, che non è la meta che è importante, non è Itaca il
significato del viaggio in mare, ma il viaggio stesso. Quantunque, approdati ad
Itaca, noi troveremo quel luogo deludente, non varrà la pena piangere di
tristezza perché il vero significato è non nella riva di approdo, ma in ogni
istante del nostro andare per mare.
Senza Itaca noi non avremmo mai intrapreso quel viaggio, chiamato esistenza.
“Sempre devi avere in mente Itaca -
raggiungerla sia il pensiero costante.
Soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo, per anni, e che da
vecchio
metta piede sull’isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.
Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
sulla strada: che cos’altro ti aspetti?
E se la trovi povera, non per questo Itaca
ti avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua
esperienza addosso
già tu avrai capito ciò che Itaca vuole
significare.”
(da “Itaca”, 1911)
4 – Alda Merini è un caso unico nella
letteratura italiana, e mondiale. Da poco scomparsa, nel 2009, su di lei si è
scritto molto, soprattutto per la sua vita piena di dolore. Poetessa già dall'età
di 15 anni, non trovò mai il sostegno del padre amato, che strappava le sue
poesie davanti a lei perché non le avrebbero mai “dato il pane”.
Iniziano i disturbi bipolari che la
costringono ad entrare ed uscire dai manicomi, in cui trascorre gran parte
della sua vita, continuando sempre a scrivere.
La Marini scriverà moltissimo, soprattutto
sul tema della pazzia, con un linguaggio lirico altissimo. Mente offuscata
dalla malattia eppure lucidissima.
Le sue sono considerate tra le poesie più
intense della letteratura contemporanea.
“Ho la sensazione di durare troppo, di non
riuscire a spegnermi: come tutti i vecchi le mie radici stentano a mollare la
terra. Ma del resto dico spesso a tutti che quella croce senza giustizia che è
stato il mio manicomio non ha fatto altro che rivelarmi la grande potenza della
vita”
(da “La pazza della porta accanto”,
1995)
5 – Per ultimo, Giuseppe Ungaretti, nato
come Kavafis ad Alessandria d'Egitto, l'unico del trio, con Eugenio Montale e
Salvatore Quasimodo, che ha rappresentato l'Ermetismo in Italia, a non aver
vinto il Premio Nobel per la Letteratura.
Ungaretti ha rivelato a tutti noi come
scrivere pensieri profondi e temi altissimi sull'esistenza anche solo con due,
tre versi.
La scelta accurata di poche parole non è da
meno ai lunghi poemi, anzi è più abbagliante e potente.
Leggere Ungaretti mi ha insegnato come
togliere, molte volte, sia meglio di aggiungere, nella scrittura.
Del resto lo scultore questo fa: per
rivelare la bellezza della statua deve togliere via tutto il marmo in eccesso.
Mattina
"M'illumino
d'immenso."
(1917)
Arthur Rimbaud: "Opere" (Einaudi, 1990)
Emily Dickinson: "Poesie" (Fabbri Editore, 1997)
Costantino Kavafis: "Poesie" (Mondadori, 1996)
Alda Merini: "Superba è la notte" (Einaudi, 2000)
Giuseppe Ungaretti: "Vita d'un uomo - 106 poesie 1914-1960" (Mondadori, 1992)
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