“Autoritratto o uomo disperato” (circa 1843). Olio su tela, collezione privata. Gustave Courbet |
Recentemente ho ascoltato una breve lezione di un critico d'arte sulla
bellezza in pittura.
Ha parlato dell'autoritratto e di come, con Dürer, l'artista ha
iniziato a dipingere sé stesso, come un essere sublime degno di più di ogni
altro soggetto di essere rappresentato.
Mi ha ricordato gli studi di psicologia cognitiva, quando il bambino
piccolo scopre sé stesso per la prima volta riflesso nello specchio.
Da quel momento tutto cambia. Così come fu in pittura.
Un nuovo soggetto apparve – quel che prima era dietro la tela divenne
rappresentante e rappresentato.
Sull'autoritratto ho già scritto in un precedente articolo, relativo al
libro del fotografo Lee Friedlander.
Della linea ondulata che da Narciso attraversa secoli di pittura fino
ad arrivare alla fotografia: dai celebri auto-ritratti di Vivian Maier a quelli
disturbanti e profondi come l'oscurità di D'Agata.
Allora perché tornare a parlarne?
Perché in questa breve lezione è stato mostrato un famoso autoritratto
di Gustave Courbet.
Il dipinto è del 1843. Nel 1861, Courbet verrà fotografato da Nadar.
In questi venti anni la differenza è molto forte, a parte della lezione
era rivolta a sottolineare come tra l'auto-rappresentazione e l'essere
rappresentati spesso ci sia una voragine.
“Gustave Courbet”(1861). Nadar. |
Suona ironico il fatto che Courbet sia considerato l'inventore del Realismo in pittura. Non a caso la sua arte fu causa di scandalo e censura; il che lo condurrà all'alcolismo e ad una morte solitaria, dopo i successi delle sue prime esibizioni.
“La pittura è un'arte essenzialmente concreta e
può consistere solo nella rappresentazione delle cose reali ed esistenti. Un
oggetto astratto, non visibile, non rientra nel dominio della pittura.
L'immaginazione nell'arte consiste nel saper trovare l'espressione più completa
di una cosa esistente, ma mai nel supporre o creare questa stessa cosa. Il
bello è nella natura, e si incontra nella realtà sotto le forme più diverse.
Non appena lo si trova, esso appartiene all'arte o piuttosto all'artista che sa
vedervelo. Il bello, come la verità è una cosa relativa al tempo in cui si vive
ed all'individuo atto a concepirlo. L'espressione del bello è in proporzione
diretta alla potenza di percezione acquisita dall'artista. Non possono esserci
scuole, ci sono solo pittori.”
Così scriveva Courbet.
“La pittura è un'arte essenzialmente concreta e può consistere solo
nella rappresentazione delle cose reali ed esistenti.”
In questo modo si ritrasse, come uomo disperato, ma bellissimo.
Durante la lezione è stato, giocosamente, affiancato nella somiglianza a Johnny Deep: ribelle, scapigliato, piratesco. Affascinante, per certo.
Fa poi uno strano effetto vederlo nell'immagine del grande fotografo
Nadar, colui che Roland Barthes considerava “il più grande fotografo al mondo”.
In realtà, negli anni sessanta in cui fu ritratto, Courbet non aveva
ancora conosciuto la prigionia, il declino, la solitudine e l'alcolismo che lo
fece morire di cirrosi epatica nel 1877.
Quindi si presume che la vera immagine fosse inevitabilmente quella
della fotografia più di quella nella tela.
Non è l'unico autoritratto in quello stile, altri ce ne sono degli
stessi anni che lo vedono in pose altezzose, dai capelli fluenti e dal viso
sottile e bello.
E, comunque, ancora fino agli anni Cinquanta e a ridosso della fotografia di Nadar continua a ritrarsi, con una pipa o ferito ai piedi di un albero, sempre magro, bello e dal viso affusolato.
“Autoritratto con un cane” (1842). Petit-Palais Museum, París. Gustave Courbet |
Vai a sapere di diventare un giorno modello di colui che consegnò alla
storia le fattezze di Charles Baudelaire, Gioachino Rossini, Edouard Manet e
Sarah Bernhardt.
Questa è la differenza importante. Dei ritratti dipinti ci si può
fidare, ma degli autoritratti? Quanto sono attendibili?
La dinamica psicologica di allora non è così distante da quella dei nostri
giorni quando con le applicazioni nei telefoni o con i programmi di editing,
modifichiamo le nostre fotografie, i nostri selfie.
L'intenzione è sempre quella di dare un'immagine migliore di ciò che
siamo.
Courbet deve tollerare ogni giorno la sua figura obesa, appesantita, il
volto gonfio, come è impressa nella pellicola di Nadar. Allora chi se ne
importa del Realismo! Quello è per il mondo intero, per tutto ciò che è intorno
a me. Ma non per me stesso, altrimenti a che mi serve il talento di poter creare?
Il primo autoritratto mostrato durante la lezione fu quello di Dürer,
che si rappresentò quasi in posa divina, come a ribadire che se Dio è il
creatore nei cieli, noi artisti lo siamo qui in terra.
Quei ritratti dipinti erano da consegnare ai posteri, rendendo
immortali nelle loro bellezze idealizzate gli artisti più celebri.
Ma se questo trucco poteva avere un senso a quei tempi, prima ancora
che la fotografia arrivò a rovinare i piani, come per il povero e sbeffeggiato
Courbet, che senso ha ai giorni nostri?
Io me lo domando ogni volta che vedo i selfie degli amici modificati in
modo da essere irriconoscibili.
Se è vero che da una parte è solamente un gioco innocente che solletica
la vanità in ognuno di noi, è però anche un triste segno della nostra debolezza
e incapacità di accetterei ciò che siamo.
Perché i nostri veri volti e corpi sono sotto gli occhi di tutti, sono
“presenti”, visibili. Affiancare ai nostri visi le immagini che noi
manipoliamo, proprio perché così perfette, non fanno che affossare ancora di
più ciò che realmente siamo.
Siamo noi stessi, senza saperlo, gli artefici delle nostre insicurezze
e disagi, perché ci illudiamo che chi è davanti a noi guardi solamente i
simulacri della nostra felicità, volgendo via lo sguardo da chi siamo e come
siamo.
Le donne e gli uomini nobili in passato, si racconta, amavano
passeggiare con le scimmiette al guinzaglio, affinché risaltasse la loro
bellezza.
Noi abbiamo intrapreso il percorso opposto: abbiamo affidato ad immagini false e migliori la sicurezza delle nostre esistenze, per rimanerne così schiacciati, in modo irreparabile.
Caro Courbet, caro Nadar, questo è il Realismo dei nostri giorni.
A volte avere gli strumenti migliori non fa che peggiorare le cose.
Si impara ad andare a fondo con più stile e velocemente.
Come un clic.
P. S. La lezione a cui faccio riferimento è stata tenuta da Jacopo Veneziani in un programma televisivo.
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