Racconto Notturno

  

Da ascoltare durante la lettura 


“Così come siete qui e ora, voi siete unici.
Non siete mai gli stessi. Non sarete mai gli stessi.
Quello che siete ora, non o siete mai stati prima.
Non lo sarete mai più in seguito.”
(Svami Prajnanapada)


Tornai la notte quando ormai ogni suono era lontano.
Una campana suonava dal tempio.
L'odore dell'incenso era così intenso da farmi dimenticare l'odore della mia stessa pelle. Non sapevo come avevo fatto ad arrivare là, era come se avessi sempre vissuto tra queste alte mura.
La voce dei monaci non cessava un attimo.
Non era fuori dalla mia stanza ma dentro le mie vene, le ossa, il sangue.
Percuotendo il mio corpo da dentro come il battente della campana.
Non comprendevo una singola parola, ma credo che non fosse quello l'importante, bensì quel suono, quel tono dominante basso, vibrante, che faceva tremare il suolo sotto i miei piedi.


Perché ero in quella stanza del tempio, e che paese era?
Camminavo verso la mia casa e mi sono trovato in questa stanza buia, illuminata solo da una candela, nel cui alone danza il fumo di cinque incensi.
Fredda ma nello stesso tempo calda di arancione, come se la tonalità della luce potesse in parte scaldare.
Nessun letto, solo una pedana quadrata in legno con un cuscino sottile arancione. Quattro piccole corde grezze e corte ai lati del cuscino.
Una finestra in alto da cui è impossibile vedere nulla, troppo vicino al soffitto, e troppo oscura la notte fuori.


Karpura-gauram Karunna-Avataaram...


L'ultima cosa che ricordo è che non stavo bene fisicamente, mi sentivo debole e con dolori allo stomaco.
Ultimamente penso, sempre più intensamente, che dentro di me stia crescendo un'ombra con forme che premono sui miei organi interni.
Anche la sua voce, prima solo flebile, adesso si avvicina alla mia bocca, e parla in una lingua che non capisco, ma so che dice cose volgari, aggressive.
Sempre più spesso mi sorprendo ad essere un involucro per la sua rozzezza e arroganza.
È tornato dal passato più remoto, il mio. Quello che ormai pensavo avessi dimenticato.
È beffardo come le situazioni di crisi esterne a noi possano diventare motore di trasformazioni interne, dell'anima, che non hanno niente a che vedere con quello che accade all'esterno.
È come quando smuovi la sabbia con il piede, nel mare, senza vedere ciò che succede, con un pizzico di timore che un pesce velenoso, un scheggia di vetro o una conchiglia possono ferirti il palmo del piede.


Adesso sono seduto sul cuscino arancione, il volto davanti alla parete scrostata. Con le ombre lunghe degli incensi che danzano davanti a me.
Le gambe incrociate. Il respiro pesante.
Le voci da fuori, all'unisono, lentissime, scandiscono sempre le stessa parole, al suono della campana.
Io le seguo e scrivo, scrivo me stesso che seduto chiude gli occhi e ispira l'incenso.
Tutto questo non ha alcun senso.
Io che scrivo chi sono?
Quello tornato a casa dalla passeggiata del pomeriggio o quello seduto nel tempio, in una notte di una paese sconosciuto?
O quel biascicare sgraziato che vomita disamore dentro di me?


Samsaara-Saaram...


Sento le palpebre farsi pesanti, chiudersi piano.
Il mio fiato riscalda il mio viso come se battesse sul muro sempre più vicino.
Anche i passi per la via verso casa si fanno pesanti, come se le ginocchia fossero di vetro, con l'intestino che si contorce dentro e intorno non c'è nessuno.
Ormai siamo tutti nelle nostre case, impauriti, diffidenti, a guardare dalle finestre sperando che la prossima vittima sia chi è fuori dalle nostre mura e non dentro.
Anche un sorriso spruzza veleno.


Torno nella mia stanza, forse.
Mi sdraio sul letto, stanco di mille anni.
L'epidemia è tutta intorno a noi, la malattia e la morte.
Ho speso tutta la mia esistenza a lottare per tenerla lontana e adesso impregna ogni fibra, è negli alberi, nelle nuvole, nell'asfalto.


È come un'ombra nera che si agita dentro di noi, vomita veleno, gode della nostra paura, lecca le nostre lacrime.


Allora chiudo gli occhi, ascolto parole che non capisco ma che hanno senso.
Perché il senso è ben diverso dal significato.
Il significato è intellettuale, il senso è carnale.


La campana suona già dentro di me. Mentre gli incensi sono ormai cenere grigia ai piedi della candela.
La malattia è dentro di me prima che essa sia ancora penetrata.
Per questo posso cantarla fuori... Alla parete.
Adesso il mio corpo è in piedi alle spalle del me stesso seduto sulla pedana. Accarezzo la mia stessa testa con la mano destra.
Mentre le voci di fuori sono ormai parte dei mattoni, della luce della candela, delle quattro corde del cuscino.
Non è mai stata colpa nostra delle violenze, delle cicatrici, delle ore distesi sui letti dei medici, con la maglietta bianca alzata al collo, guardando i soliti soffitti bianchi a duadrati grandi, mentre lo stetoscopio freddo saltava sul petto.
Non è così che moriremo.
Neanche la spunterà il demone che gorgoglia parole ignote nelle nostre viscere.


Nessuno può capire.
Neanche noi.
Mi abbraccio da dietro, inginocchiato alle mie spalle.
La luce della candela sta per spengersi.


Sahitam Namaami...


Mi sussurro all'orecchio: è ora di tornare a casa.
Quando tutto questo finirà noi torneremo in questo tempio dalle alte mura arancioni.
Non è ancora arrivata la nostra ora.
Soffiamo sulla fiamma, chiudiamo la porta.
Ecco le foglie gialle sulla strada vicino la porta di casa.
Sono quasi le quattro di pomeriggio.
Ho camminato appena trenta minuti ma sembra trascorso un mese.


Non riesco a dimenticare quel mantra.
La cenere grigia degli incensi è vicina al mio letto, sul tappeto rosso.
Mia madre mi chiama per il the.


Nessuno può capire.
Io so solo che non voglio soffrire più.
Sono stanco di spingere in basso chi vuole uscire e distruggere tutto.


Molto presto cercherò quel tempio.








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