L'infanzia di mia madre – Alcune parole...

“E solo quando m'avrà perdonato,
ti verrà desiderio di guardarmi.

Ricorderai d'avermi atteso tanto,
e avrai negli occhi un rapido sospiro.”
(Giuseppe Ungarettti – da “La madre”)

“Sardinia early 1900s”. Thomas Ashby
“Sardegna inizi del 1900”Thomas Ashby


 

Certo è curioso come per anni io abbia ascoltato le storie personali di sconosciuti o amici ma non mi sia mai fermato ad ascoltare la storia dell'infanzia di mia madre. Forse esiste anche un esotismo dei sentimenti. Sembra sempre più interessante ciò che è lontano da noi, che non è sotto i nostri occhi dal primo giorno in cui siamo nati.

 

Più che altro è iniziato tutto questo spinto dalle continue domande dei miei amici che vivono dall'altra parte del mondo, sugli usi e le tradizioni del mio paese – per questo motivo ho chiesto a mia madre di raccontarmi come fosse stata la sua infanzia in Sardegna.

Sia perché onestamente non ne sapevo pressoché nulla, sia perché era un modo come un altro per parlare di un paese dell'Italia nei primi del Novecento. Del resto ho sempre creduto che, anche se con differenze di temporalità, certe usanze, pratiche di vita o semplici giochi, fossero gli stessi anche in paesi totalmente distanti per miglia e cultura.

Può avere stupito sapere che anche in Italia, nella metà del Novecento i bambini di 10 anni già lavoravano nei campi, mentre non sorprende vederlo nei bambini che lavorano nelle fabbriche di mattoni in Bangladesh  o nelle aziende tessili dove ci lavorano bambine di 10 o 12 anni.

Così come non mi sorprende sapere che il gioco preferito di mio padre, quando era un bambino in una città del sud della Puglia, ovvero di colpire con un bastoncino un altro bastoncino di legno per terra per poi colpirlo in volo, è lo stesso che fanno i bambini nei villaggi a Sumatra in Indonesia, chiamato “Patok Lele”, così come in Malesia lo chiamano “Konda Kondi”, e in Italia è "Lippa".

 

“Sardinia early 1900s”. Thomas Ashby
“Sardegna inizi del 1900”Thomas Ashby

 

Inoltre, recentemente mi è capitato di vedere le splendide fotografie di Thomas Ashby sulla Sardegna tra il 1906 e il 1912. La Sardegna ha un'antichissima tradizione culturale, molto particolare, come tutte le isole, che sono parte e nello stesso tempo a-parte di una nazione.

A Sini io ci sono stato due volte solamente, molto piccolo. Ne conservo pochissimi ricordi, più che altro ricordo il cortile con le gabbie degli animali, mia madre mi racconta che io stavo molte ore là a parlare con i conigli.

Ricordo i cavalli selvaggi che correvano nelle vallate di rocce aspre e verde,

E queste stradine che salivano e scendevano per il paesino.

Per molti anni non era neanche segnato sulle mappe geografiche.

Mia madre mi ha detto che faceva mille abitanti, ma sono andato a cercare il censimento del paese anno per anno e a mille persone non ci è mai arrivato: quando mia madre era bambina Sini ha raggiunto il suo apice di 900 abitanti, poi è andato decrescendo, fino ai quasi 500 di adesso.

Le famiglie, di questi tempi, non fanno più tanti figli come all'epoca, e i giovani scappano velocemente a lavorare o studiare a Cagliari o in altre città dell'Italia, come fece mia madre.

 

Sini – Panorama. Postcard from 1969
Sini – PanoramaCartolina del 1969


Sini non è certo un paese conosciuto, mentre la sua area è tra le più antiche della Sardegna, e non solo: l'antica regione della Marmilla.

Dal 1400 fino al 1839 in mano agli aragonesi, ma la sua storia inizia molto tempo prima, nella famosa era nuragica, come è scritto:

“La civiltà nuragica, nata e sviluppatasi in Sardegna, abbracciò un periodo di tempo che va dalla piena età del bronzo (1800 a.C.) al II secolo d.C. per buona parte dell'isola, ormai in epoca romana ma, per la parte centro-orientale, in seguito conosciuta come Barbagia, fino al VI secolo d.C. in epoca altomedioevale, in cui ancora esistevano comunità di cultura nuragica indipendenti e dove il cristianesimo si sarebbe imposto solo successivamente.

Fu il frutto della graduale evoluzione di preesistenti culture già diffuse sull'Isola sin dal neolitico, le cui tracce più evidenti giunte sino a noi sono costituite da dolmen, menhir e domus de janas, a cui si aggiunsero i nuovi stimoli e apporti culturali dell'età dei metalli. Deve il suo nome ai nuraghi, imponenti costruzioni megalitiche considerate le sue vestigia più eloquenti e sulla cui effettiva funzione si discute da almeno cinque secoli.”

 

Costumi sardi:


Nuoro \ Pula (Cagliari)

Ossi (Sassari) \ Muravera (Cagliari)
Ossi (Sassari) \ Muravera (Cagliari)


Oliena (Nuoro)
Oliena (Nuoro)

Lotzorai (Nuoro)
Lotzorai (Nuoro)

  

Mi ricordo quando con la famiglia di mia madre andavamo a vedere i famosi nuraghi, costruzioni in pietra che sembravano giungere veramente dall'epoca preistorica.

Non molto altro ricordo. Dialetto incomprensibile, nonnine vestite tutte di nero, asini, e una calma tipica di molti piccoli paesi dell'Italia, che può diventare incubo soffocante o riposo dell'anima.

 

Del resto, sia mia nonna che tutte le sorelle e fratelli di mia madre li ho conosciuti qui a Roma. Di mio nonno ho solo visto la sua fotografia nella stanza dove dormiva mia nonna, prima che morisse.

Però mai avrei immaginato che quella tenera chiacchierata tra madre e figlio, seduti sul divano, guardando le vecchie fotografie tornate a galla, si sarebbe rivolta come una pugnalata profonda nella mia carne.

E già, dice la cultura popolare, finché non smuovi le pietre la serpe non ti morde.

Non capivo perché mia madre volesse raccontarmi l'ultimo episodio, quello della morte del padre, quando fossimo stati da soli, e nello stato d'animo predisposto. Io avevo già scritto quasi tutta la parte principale pensando, appunto, come fosse veramente assurdo avere impiegato 50 anni per chiedere e sapere della sua infanzia.

Ascoltare quel racconto è stato per me traumatico, perché ho saputo per la prima volta come morì mio nonno.

Non una morte qualsiasi. Ma un tumore.

Non un tumore qualsiasi. Ma al colon.

Esattamente come me.

 

Ascoltare la sua voce farsi più profonda e il volto rosso mentre mi dice che è stato il dolore più grande, quello della perdita e del non poterlo salutare per l'ultima volta mi ha scaraventato indietro nel tempo.

A quel 2004 in cui io mi ammalai di tumore.

 

Quanto dolore, povera madre mia.

Tutti i capelli bianchi come argento.

Io ero infilzato nella mia angoscia, trafitto dalle paure.

Con mio zio che mi operò che mi diceva come con questo tipo di tumori non si sa mai bene come andrà, se non si apre la pancia prima.

E credo che lo stesso abbia detto ai miei genitori.

 

Come un cerchio, la vita ripropone lo stesso annichilimento.

Solo adesso posso capire nel modo più profondo quanto dolore ti ho dato.

Sei stanca che ti rinfaccio ogni volta quella frase che mi dicesti più volte:

“Tornando indietro non ti concepirei un'altra volta.”

Così, dopo averti confessato la ferita che si è aperta in me e sanguina dal momento del tuo racconto, tu hai corretto il tiro:

“Sono io che non vorrei essere mai nata.”

Come se questo potesse consolarmi.

 

Non so quanto tempo ci vorrà affinché questa ferita si chiuda.

Non è più la tua croce, hai solamente raccontato ciò che ti avevo chiesto.

Per condividere una storia di vita e anche un pizzico di storia socio-antropologica italiana.

Ora quella croce che pesa sulla schiena è la mia.

Perché se mi volto indietro vedo una scia di lacrime e dolore.

 

Spero che in qualche modo ti ho reso felice madre.

Non sono stato il migliore dei figli possibili, lo so.

 

Alla fine mi hai detto, “il dolore per la morte di un padre è terribile ma quella di un figlio non ha eguali.”

Io sono ancora qua.

Tagliato, ricucito, iniettato di veleni e radiazioni.

Ma ci sono, e ci sarò per sempre

...per te.

 


Me and my mother


 


 


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