“Le Fotografie Che Amo 7” – Salgado

“Oggi più che mai, sento che il genere umano è uno.
Vi sono differenze di colore, di lingua, di culture e di opportunità, ma i sentimenti e le reazioni di tutte le persone si somigliano.”

(Sebastião Salgado)


Sebastião Salgado“Serra Pelada”, Brazil, 1986

La prossima scelta, tra le foto che amo, è di Sebastião Salgado, il fotografo nato in Brasile, nello stato di Minas Gerais, nel 1944.

Da tempo vive a Parigi, ormai, ma di certo non si sbaglia se lo si chiama “cittadino del mondo” visto quanti chilometri ha percorso nella vita.

Pensare che i suoi studi e la professione iniziale fu di economista.


Sebastião and Léila Salgado

Il suo primo lavoro, che diede l'imprinting alla sua carriera, fu sulla siccità nel Sahel, in Africa, nel 1970.

Come spesso lui ripete, fu un luogo che non o abbondonerà mai:

“Il primo posto dove fotografare è ancora l'Africa, amo i suoi cieli, i deserti, le montagne, tutto è enorme e, ogni volta che arrivo, sento che sono a casa.”

È l'Africa che lo chiama, e lo convince a lasciare il suo lavoro di economista a Londra. L'Africa è da dove provengono molti brasiliani, e fu il continente primitivo milioni di anni fa, per ognuno di noi.

 

Dopo essere stato nell'agenzia Magnum dal 1979, ne è uscito nel 1994 per fondare una sua agenzia, con cui finanzia anche i suoi lunghi progetti: la Amazonas Images.

 

La parola “enorme” non è una casualità in Salgado.

Credo che ben si addica a lui.

I suoi libri fotografici sono tra i più mastodontici e pesanti nella mia libreria, veramente un fotografo pesato a chilo.

Del resto i suoi reportage durano per anni, raccogliendo migliaia di fotografie, sempre con un occhio – da ex economista – in 35mm sui cambiamenti ambientali, politici ed economici che condizionano la vita dell'essere umano, con un'attenzione particolare alle fasce più deboli.

Fin da uno dei suoi primi progetti: “Other Americas”, il risultato di 6 anni in America Latina a documentare la vita delle campagne.

 

Dopo di questo Salgado inizia a lavorare ad uno dei suoi capolavori monumentali: “La mano dell'uomo” (“Workers”) pubblicato nel 1993, 400 pagine di fotografie, 6 anni di lavoro in giro per 16 paesi per raccontare la relazione tra uomo e lavoro.

Oppure “Exodus”, altro progetto enorme, 6 anni di nuovo con i migranti, visitando oltre 35 paesi per documentare i loro spostamenti.


“La Churchgate Railways Station”Bombay, India, 1995

Fino ad arrivare al suo ultimo lavoro, quel “Genesi”, uscito nel 2013, che vuole essere una cura al troppo dolore visto nella sua vita, un riappacificarsi con la Madre Terra. In viaggio per 8 anni, dal 2004 al 2011, 30 spedizioni in ogni angolo della terra, alla ricerca della natura incontaminata, precedente al “dolore” che la società infligge all'uomo.

Come spiega nella sua intervista a Mario Calabresi:

“Sotto i miei occhi la gente moriva di colera, di diarrea, di ogni tipo di malattia, della violenza dei campi profughi. Alla fine di questo percorso stavo male, la mia salute era a pezzi. Ho girato molti medici, finché uno mi ha detto: 'Il problema è che tu hai troppa morte dentro'.”

 

Sarà la natura incontaminata e i popoli che la abitano ancora a stretto legame con la terra che lo fa respirare:

“Non ho perso la speranza perché la cosa che ci ha reso superiori fino ad ora non è la tecnologia ma l'istinto, non la burocrazia ma la spiritualità, c'è qualcosa di più grande dentro di noi.”

 

Ma la fotografia che ho scelto è ben lontana da ogni tipo di speranza e spiritualità.

È bensì una finestra aperta sull'inferno, come se Dürer avesse potuto fotografare, invece di incidere a stampa, i gironi infernali di Dante Alighieri.

La celebre, purtroppo, miniera d'oro di Serra Pelada, un villaggio brasiliano nel sudest di Parà, a 400 chilometri più a sud della foce del Rio delle Amazzoni, fotografata nel 1986, proprio per il progetto “la mano dell'uomo”.


“Serra Pelada”, Brazil, 1986

Nel 17° e 18° secolo fu trovata in Brasile una grande quantità d'oro. Nel 1979 iniziarono a venire alla luce pepite d'oro dalla terra e dai fiumi, scatenando una corsa all'oro, con migliaia di persone, tra poveri contadini e avventurieri, armati di piccone, che iniziarono a scavare una miniera a cielo aperto: un baratro di 120 metri di profondità e largo 300.

Nel periodo di maggiore sfruttamento nella miniera lavoravano circa 100.000 scavatori, chiamati “garimpeiros” (gli arrampicatori).

 

La fotografia di Salgado è terribile e sublime, come certi quadri del Romanticismo gotico. Non più  esseri umani ma migliaia di corpi in movimento regolare: ogni minatore con la sua “fossa” personale di due metri per 3, e poi i disperati chiamati “formigas” (formiche), schiavi il cui compito era di arrampicarsi su corde alte 400 metri per portare in superficie sacchi dal peso di 30 \ 50 chili.

Salgado così scrive quando vide la miniera per la prima volta:

“Tutti i peli del mio corpo erano dritti. Le piramidi, la storia dell'umanità si è rivelata. Avevo viaggiato fino all'alba del tempo. […] 50.000 uomini scolpiti dal fango e dai sogni. Tutto ciò che si può udire sono mormorii e grida silenziose, il grattare di pale guidato da mani umane, non un accenno di macchinari. È il suono dell'oro che riecheggia nell'anima dei suoi inseguitori.”


“Serra Pelada”, Brazil, 1986

Se quasi tutte le fotografie che ho scelto precedentemente sono come microscopi puntati sull'animo umano e la sua narrazione, in questa fotografia si apre a noi la moltitudine, come se l'occhio facesse fatica a tenere tutto nei limiti, e fuoriuscisse umanità dai bordi della foto.

È solo grazie alla maestria di Salgado nel comporre l'inferno nella forma e nelle tinte, con i suoi superbi bianchi e neri, che noi siamo in grado di concepire l'inconcepibile.

Si comprende perciò, come dopo questo tipo di immagini, Salgado fotograferà lo stesso tipo di moltitudine, ma non più uomini, bensì pinguini. Non sofferenza ma la bellezza della natura.

 

Per provare a curare tutta quella “morte dentro”.


Macaroni Penguins on Zavadovski IslandThe Sandwich Islands, 2009

Sul suo ultimo progetto, e in genarale sulla sua visione, è stato realizzato da Wim Wenders un bellissimo film-documentario, nel 2014: “Il Sale della Terra”. Non perdetelo.

 



Salgado: “Other Americas” (Contrasto, 2016)
Salgado: “Criancas – Ninos – Bambini” (Taschen, 2016)
Salgado: “Workers” (Contrasto, 2001)
Salgado: “Exodus” (Taschen, 2016)
Salgado: “Genesi” (Taschen, 2013)
Salgado: “Profumo di sogno” (Contrasto, 2015)
Mario Calabresi: “Ad occhi aperti” (Contrasto, 2013)
Il sale della terra - Trailer


Salt of the Earth full documentary movie


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