Old Dhaka, Sutrapur, Dhaka, 12 February 2020 |
Allora sono entrato nel portico e ho iniziato a
fotografare di spalle il bambino che giocava, tra la spazzatura e i palazzi
fatiscenti: io amo questi contrasti. Certi momenti, a Dhaka, sono come il bakarkhani,
il tipico disco di pane al forno che si vende in questo quartiere, croccante e
ruvido in apparenza, ma poi dolce e morbido quando lo assaggi.
Ho poi scoperto che quel palazzo diroccato era
invece l'ostello dormitorio maschile degli studenti dell'università, Khalaghar
a Sutrapur.
Ma tutta l'area circostante è quella che a Giacarta
chiamo slum urbani, ovvero l'atmosfera e lo stile di vita dei villaggi
(kampung) trapiantato in modo violento e innaturale nel contesto urbano,
degradando quello che è tradizionale e famigliare nei villaggi di provenienza.
Con donne che cucinano fuori casa, con fuochi improvvisati sotto gli alberi o
tra le pietre.
Il mio amico Raju mi ha raccontato, un giorno,
sulla riva del Lago Guslhan2, di come fino a cinque anni fa sulla riva di quel
lago ci abitassero molte persone illegalmente, in slums, prima che il governo
la bonificasse.
Ma questo è un discorso che sento da dieci
anni.
Lo stesso succede di continuo a Giacarta, ma la
gente che costringi ad andare via da un luogo andrà a cercarne un altro simile
o lo creerà, come lungo le rotaie a Tajgaon o in questo polveroso quartiere a
Sutrapur.
È là che ho camminato, seguendo i bambini come
faccio di solito, lasciandomi guidare da loro; a loro piace ed anche a me. Tra
questi budelli di polvere e terra che ho incontrato questo uomo anziano
bizzarro, che mi sorrideva continuamente e ripeteva quello che poi ho capito
era il suo nome: “Ali Bandary!”, e mi tirava per la mano, obbligandomi a
seguirlo. Meno male che c'era un ragazzo che mi accompagnava, non che sembrasse pericoloso ma sicuramente era deciso nel farsi seguire. Con i bambini che
urlavano ridendo “Ali Bandary!” noi siamo entrati in quello che sembrava un
vecchio campo di calcio: un largo rettangolo cintato di terra che mi ha almeno
consentitio di respirare dopi i cunicoli claustrofobici.
L'uomo mi guardava sorridendo, indicando una
donna anziana davanti l'entrata di una casa.
Il ragazzo che era con me mi ha sussurrato
all'orecchio “Vuole che fotografi sua moglie ed entri dentro casa sua.” Oh, non
capita spesso di avere la richiesta di fotografare la moglie o entrare in casa.
Chissà che frullava nella mente di questo bizzarro e sorridente anziano, però
era molto simpatico anche se non capivo una parola. Allora mi sono avvicinato
alla moglie che mi ha sorriso e l'ho fotografata, con l'uomo che mi spingeva da
dietro per entrare in casa, ovvero una singola stanza buia. Mi sono tolto le
scarpe, anche se l'uomo e la moglie hanno protestato, volevano che le tenessi
perché era molto sporco, ma questa è una delle cose che ho imparato in
Indonesia, e che porto sempre con me: non importa dove sei, quanto sia povera e
sporca la casa, ma in certi paesi togliere le scarpe è un segno di rispetto, e
vanno rispettati i re come i reietti della terra.
Scalzi noi siamo tutti uguali.
Appena entrato ho visto questo uomo sul letto
che dormiva, proprio sotto la finestra; nel frattempo che la donna sistemava
velocemente un poco la casa, ho scattato una foto a quell'uomo che non so chi
sia, poiché né l'ho chiesto e né lui si è svegliato per tutto il tempo che sono
stato là, poteva essere il figlio della coppia o il marito di una figlia. Non
so.
Comunque, dopo aver fotografato la coppia in
piedi nella loro casa, ho capito il motivo per cui l'anziano ci teneva che
andassi a casa sua, per farmi vedere ed essere fotografato davanti ad un mini
altare, molto kitsch, con la figura di un santone. Ancora non ho capito che
rappresentasse quell'altare, ma dopo la foto ci siamo salutati e sono andato
via, seguito dai bambini. Non prima di aver guardato un'ultima volta l'uomo che
dormiva tranquillamente.
È una fotografia che mi piace molto.
Esteticamente mi ricorda le foto classiche
d'interno di Salgado in Perù o in Brasile, dell'Italia del dopoguerra di Bruno
Barbey, la Parigi di Willy Ronis o, molto più vicine geograficamente, le
splendide e intime fotografie del progetto “Father and Son” di Richard e Pablo
Bartholomew scattate in India tra gli anni '60 e '80.
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Caravaggio: “Amorino dormiente”, 1608 – 1609 |
Dal punto di vista più profondo, invece, c'è da
fare una riflessione – ancora una volta – sulla luce, perché io credo che le
luci non siano tutte uguali; come era per la luce antica della fotografia nel
mercato, così è per ogni luce che ci colpisce in una fotografia. Ognuna ha la
sua identità e i suoi segreti.
Fotografare in una stanza simile, così buia,
significa – tecnicamente – sottoesporre molto, tenere la maggior parte della
scena nell'oscurità per non bruciare la luce e ciò che illumina, in questo caso
il corpo dell'uomo che dorme; come nei dipinti di Caravaggio.
Questa è dunque una luce che dialoga con
l'ombra, con l'oscurità.
Esiste tutta una lunga tradizione filosofica e
spirituale che dagli antichi testi vedici fino al Taoismo hanno insistito sul
tema di un'unica realtà ultima in cui non esistono dualità.
Nel suo famoso libro “Il Tao della fisica”
Fritjof Capra ha spiegato come la fisica moderna ha raggiunto, con la meccanica
quantistica e la teoria della relatività, le stesse conclusioni già scritte nel
Bhagavad-Gita o nel Tao buddhista.
“L'idea che tutti gli opposti sono polari – che
luce e buio, vincere o perdere, buono o cattivo sono soltanto differenti
aspetti dello stesso fenomeno – è uno dei principi fondamentali del modo di
vita orientale.”
Luce e ombra diventano una cosa sola, non sono
assolutamente in contrasto duale, perché nella realtà fisica, così come nel
regno dello spirito, non esiste nessuna dualità od opposizione.
Io ho bisogno di tutta l'ombra possibile in
quella stanza per far vivere la luce nella sua dolcezza, e solo allora essa può
dipingere il corpo dell'uomo che dorme.
Non è un'esagerazione poetica o un delirio il
mio, ma essere in quella stanza e fare quella foto, e poi vederla e vederla
decine di volte, mi ha fatto provare sulla ma mia pelle, nei miei occhi, questa
consapevolezza. Ancora.
Nel 1933 lo scrittore giapponese Junichiro
Tanizaki pubblicò un breve saggio intitolato “Libro d'ombra” in cui difende la
superiorità della sensibilità orientale – il “mondo d'ombre” - su quella occidentale
– il “mondo della luce”.
“Ma perché poi piace tanto, a noi Orientali,
la bellezza che nasce dall'ombra?”
scrive Tanizaki. “V'è, forse, in noi Orientali, un'inclinazione ad accettare i
limiti, e le circostanze della vita. Ci rassegniamo all'ombra, così com'è, e
senza repulsione. La luce è fievole? Lasciamo che le tenebre ci inghiottano, e
scopriamo loro una beltà. Al contrario, l'Occidentale crede nel progresso, e
vuole mutare di stato. È passato dalla candela al petrolio, dal petrolio al
gas, dal gas all'elettricità, inseguendo una chiarità che snidasse sin l'ultima
parcella d'ombra.”
È profondamente vero, come leggiamo tra queste
pagine, a noi occidentali piace tutto pulito, bianco, anche i metalli vengono
lucidati per togliere quella patina del tempo che per gli Orientali è segno di
bellezza e per noi di sporcizia.
Entrando in quella stanza sono stato
infastidito dalla mancanza di luce, come uno stupido ho chiesto se si potevano
accendere delle altre luci, ma la donna mi ha risposto che c'era solo quella
piccola lampadina; da bravo Occidentale, figlio dell'Illuminismo, ammiratore
accanito della luce che è parte integrante del mio lavoro e della mia passione
di fotografo. Noi veniamo per illuminare, lucidare, dare potenza a quella
piccola lampadina con l'aroganza dei nostri ISO, costringendo anche la donna a
sistemare la casa velocemente per non creare imbarazzo all'Occidentale amante
dell'ordine e della pulizia.
“La luce è fievole? Lasciamo che le tenebre ci
inghiottano, e scopriamo loro una beltà.”
Bisogna fare un passo indietro, intendo
relativo a tutte le nostre certezze, e provare a “vedere” nel senso più
profondo del termine – quello che nella Bhagavad-Gita è chiamato “vedere la
verità”, veedere la relazione intima che c'è tra la luce e l'ombra e di
come esse siano un'unica entità.
Che dobbiamo accettare l'ombra e anzi farne una
parte essenziale della luce. Fuori e dentro di noi.
Che la bellezza di quella stanza è proprio
nella sua ombra che nutre la poca luce, e che loro ci vivono bene là, è la loro
realtà.
Questo è, forse, io credo il significato più profondo del togliersi le proprie scarpe prima di entrare in casa altrui.
*This image is copyrighted © Willy Ronis or the assignee. Apart from fair dealing for the purpose of private study, research, criticism, or review as permitted under the Copyright Act, the use of any image from this site is prohibited unless prior written permission is obtained. All images used for illustrative purposes only.
** These images are copyrighted © Richard and Pablo Bartholomew or the assignee. Apart from fair dealing for the purpose of private study, research, criticism, or review as permitted under the Copyright Act, the use of any image from this site is prohibited unless prior written permission is obtained. All images used for illustrative purposes only.
Willy Ronis. (TASCHEN, 2005)
Pablo and Richard Bartholomew: “Father and Son”
(Fishbar, 2011)
Fritjof Capra: “Il Tao della fisica” (Adelphi,
1999)
“Bhagavad-Gita – Guida allo studio con
traduzione letterale”, a cura di Howard Resnick (Susil Edizioni, 2015)
Junichiro Tanizaki: “Libro d'ombra” (Bompiani, 2000)
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