"Le Fotografie che amo" 17—Raghu Rai

“Sono un pellegrino. Viaggio tutto il paese con una fede completa.
L'India, per me, è il mondo intero.
Avrei bisogno di dieci vite per completare qualcosa sul mio paese
ma purtroppo non ne ho che una.
Una cosa è certa, sto arrivando sempre più al cuore delle cose, adesso.”
(Raghu Rai)

Raghu Rai. Mumbai, 2004

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È giunto il momento di parlare di un fotografo indiano.

Siamo stati in Giappone, Cina, Bangladesh, adesso arriviamo nel villaggio di Jhang, Punjab, nell'India britannica (ora in Pakistan), dove nacque nel 1942 Raghunath Rai Chowdhry,  noto come Raghu Rai, ultimo di quattro figli.

Rai iniziò a fotografare nel 1965 e un anno dopo entrò a far parte dello staff di “The Statesman”, una pubblicazione di Nuova Delhi. Nel 1976 lasciò il giornale e divenne un fotografo freelance.

L'anno successivo, grazie a Henri Cartier-Bresson, che si era innamorato delle sue fotografie esposte a Parigi nel 1971, entrò nell'agenzia Magnum, di cui ancora ne fa parte.

Dal 1982 al 1992, Rai è stato il direttore della fotografia per “India Today” e ha fatto parte della giuria per il World Press Photo dal 1990 al 1997.

 


Raghu Rai

Di fotografia in India ho già scritto altre volte, e la lista di fotografi che l'hanno raccontata per immagini è lunga come il Gange.

Si potrebbe dire che ogni grande fotografo sia stato almeno una volta nella sua vita in india.

Memorabili sono gli scatti di McCurry, Abbas, Mary Ellen Mark, Marc Riboud o lo stesso Cartier-Bresson, per non parlare degli stessi fotografi indiani, primo fra tutti per fama, subito dopo Rai, Raghubir Singh.

Certo è che, per me, l'India in bianco e nero non può essere la stessa cosa del colore.

Questo è un tema che si ripete all'infinito e perde il suo senso, riducendosi a puro gusto personale. Anche se per me è una sofferenza vedere le splendide foto sull'induismo di Abbas in bianco e nero, non si può protestare davanti la scelta dei fotografi. Io la penso come Raghubir Singh, secondo il quale l'India non può che essere rappresentata se non a colori.

Esistono dei luoghi o degli eventi che non riesco a vedere diversamente dal colore che li esprime, e non parlo solamente della festa di Holi.

Il subcontinente indiano è la terra del colore.

Come scrive Rosa Carnevale nella bella introduzione “Al cuore dell'India”, a proposito di Rai:

“L'India è la terra dei colori. Non c'è nessun altro luogo al mondo dove basti voltare la testa e guardarsi intorno per scorgere un'infinità di tonalità cromatiche e sfumature differenti. Nessun altro paese in cui i colori siano diventati addirittura un linguaggio simbolico codificato e conosciuto da tutti. Decifrarlo a una prima occhiata fa parte di un bagaglio di competenze che ogni indiano acquisisce dalla nascita. I sari delle donne o i dhoti degli uomini riescono a raccontarci con le loro tinte moltissimo su chi li indossa: la casta d'appartenenza, lo stato civile, la religione. A ogni casta appartiene un varna (colore).”

 


Raghu Rai. “A Bazar Scene”. Old Delhi, 2006

Lo stesso Rai inizia a fotografare in bianco e nero. Come era prassi negli anni Settanta. Poi arriverà al colore, ma senza mai puntare su una singola decisione, come il suo connazionale Singh. Anzi, le sue idee sono chiare sull'argomento:

“Penso che si possa usare qualsiasi obiettivo, decidere tra il colore o il bianco e nero, ma ciò che viene catturato e condiviso, se ha onestà e una certa dose di magia, può essere ritenuto sufficientemente buono per quanto mi riguarda. E, sinceramente, la discussione tra la supremazia del colore rispetto al bianco e nero credo sia un dibattito inutile. Alcune situazioni si fondono molto bene in bianco e nero, altre possono invece usare un bell'aspetto cromatico. Da un lato il colore ha la sua forza e la sua energia. Ma, d'altro canto, nel momento in cui metti un filtro in bianco e nero su certe inquadrature silenzi il rumore dei colori. Possiamo parlarne all'infinito e con vari tipi di argomentazioni a favore dell'una o dell'altra soluzione.”

Non fa una piega. Poi ognuno di noi sceglie quale aspetto ci piace di più di un fotografo e quali i suoi scatti.

Io, ovviamente, amo le sue fotografie traboccanti di colore.

 

Raghu Rai ha una caratteristica particolare, oltretutto.

A differenza della stragrande maggioranza dei grandi maestri di Fotografia, non solo della Magnum, lui ha quasi sempre fotografato solo la sua terra.

I suoi principali libri sono tutti sull'India.

L'idea del fotografo che gira il mondo raccontandone ogni angolo sperduto, perde di significato con Rai.

Lui è il fotografo dell'India.

 

Ultimamente ho avuto la fortuna di venire in possesso di un suo libro molto raro intitolato “Bangladesh – The price of Freedom”, ristampato nel 2019 con l'archivio di fotografie ritrovate dopo 40 anni, sull'esodo del popolo bangladese durante la guerra di liberazione dall'esercito del Pakistan.

Lui fu uno dei pochi fotografi al confine, nel 1971, a documentare l'esodo verso l'India fino alla vittoria conclusiva. Un libro curato insieme all'amico Shahidul Alam.

Libro meraviglioso ma sempre al confine.

 


Raghu Rai. Bangladesh refugee camp, 1971


Ma questo suo aspetto di forte legame alla sua terra non toglie niente, per me, al suo valore di fotografo. Anzi.

Nessuno come lui è in grado di farci conoscere questo immenso paese.

 

Recentemente mi è capitato di parlare sia con un amico del Senegal e con altri amici del Kerala, ed entrambi mi hanno espresso il disappunto ed il fastidio per come l'Africa e l'India fossero molto spesso rappresentate in fotografia.

Slums, bambini sporchi con il moccolo al naso, mendicanti o corpi magri come scheletri.

Anche in televisione o nei film, l'orfano europeo è sì triste ma sempre ben vestito, quello africano o indiano è con gli abiti laceri e i capelli sporchi.

Posso immaginare il loro livello di insofferenza e rabbia nei confronti di questa visione monotona di nazioni veramente immense e dagli innumerevoli aspetti.

Del resto, quando si viaggia per brevi periodi, gli occhi si affidano spesso a ciò che appare più in superficie, con la pigrizia di cercare altro da quello che già sappiamo perché lo abbiamo visto migliaia di volte.

Lo stereotipo del dominatore bianco sul nero povero e sporco ce lo portiamo dietro dal colonialismo, e non è così archiviato – visivamente – come ci illudiamo di credere.

La povertà e la miseria delle strade delle megalopoli indiane, come mi hanno raccontato o letto dagli europei che ci sono stati, ti viene sbattuta in faccia, fino a farti piangere.

Sì, potrebbe anche essere vero, ma è anche quella che ci limitiamo a vedere, perché provare quei sentimenti di compassione ci fa sentire migliori, buoni, e dannatamente “diversi e superiori”.

Ci conferma la nostra distanza più che realmente farci con-patire, e quindi diventare carne della stessa carne, pena della stessa pena.

 

Si potrebbe chiamare l'esotismo dell'anima, che si traduce in fotografia stereotipata quando arriva agli occhi.

Raghu Rai è, invece, a casa sua.

Non esiste “esotismo” o “Oriente”, con cui l'Occidente ha costruito la sua identità per contrasto, come scrisse Edward Said nel 1978.

Per lui significa attraversare le strade dell'India e narrarne le molte identità.

Lo scopo della fotografia, per Rai, è quello di “costruire una storia fotografica del nostro tempo”. La qualità fondamentale è vivere nel momento presente. Essere tra la gente.

Raccontare i grandi avvenimenti, come il disastro ambientale di Bophal nel 1984 che lo rese famoso, o i grandi personaggi, da Madre Teresa di Calcutta fino al Dalai Lama, fino alla variegata umanità che vive e sopravvive nelle città e nei villaggi,

Lo spiega lui stesso, a proposito di Salgado:

“Io non potrei fotografare fuori dall'India, fuori da un mondo che conosco. A differenza di Salgado, per esempio. Una volta gli ho chiesto “ma come fai a viaggiare tanto?”; e lui mi ha risposto: “Dovunque vada, porto la mia casa dentro di me”. Io non posso; devo sentirmi dentro un luogo, appartenere a quel mondo, per provare a catturarne qualche verità, qualche emozione umana, e questo mondo è l'India”.

 


Raghu Rai. “Dusk Time at Mahabalipuram”. India, 1996
 

Per tutto questo, la scelta della mia fotografa preferita cade su questa scattata a Mumbai nel 2004.

Sì, è in una baraccopoli. L'ennesima foto di baraccopoli a Mumbai.

Ma cosa ha di differente? Ci sono ben 14 persone in questa foto brulicante di vita e, a parte tre di loro con il volto che non si vede, tutte le altre sorridono, se non ridono del tutto a bocca aperta, come la signora seduta al centro che sembra essere il fulcro di tutta l'immagine.

Il resto sono sguardi ammiccanti tra le bambine, linee di sguardi e sorrisi tra le giovani donne, il sorriso amichevole dell'unico uomo sulla sinistra, che forse sa della presenza del fotografo e sorride per timidezza.

Questa fotografia è un micro-mondo, come sono spesso le foto negli slum.

Ma quello che traspare, con le sue molteplici sfumature di colore, è un senso di gioia, divertimento – come a dire che non perché le persone vivono in una baraccopoli devono per forza piangere, essere affrante o disperate. Questo è di solito che noi cerchiamo come conferma quando vediamo questo tipo di fotografie.

Eppure, è sufficiente spenderci più tempo in quei luoghi; non è facile come per chi ci vive come Rai (che ne diventa appunto un fondamentale testimone fedele), ma l'unico modo è provare a vedere le cose per come sono, senza aggiungervi a forza quello che “deve esserci secondo il nostro punto di vista”.

Raghu Rai, in questa foto, lo mostra in modo chiaro e chiassoso: ci sono famiglie normali, allegre, che vivono la loro vita nel modo più naturale possibile.

Idea che, nel mio piccolo, ho provato a portare avanti con le mie fotografie negli slum di Giacarta, dove ho trascorso diverso tempo, cercando sempre di evitare – pur non tacendo delle difficoltà – un certo tipo di narrazione che fa più male alla gente stessa che ci vive che non a chi guarda quelle foto; anche se il danno che si reca a chi guarda senza esserci mai stato è notevole perché non fa che confermare quegli stereotipi odiati da chi proviene da quelle terre.

 


Stefano Romano. Plumpang. Jakarta – November 2017


Stefano Romano. Luar Batang. Jakarta – Luglio 2016

Ecco perché ho scelto questa fotografia di Raghu Rai, per la sua allegra vitalità, per la sua prepotenza di colore. E perché è assolutamente vera, scattata da chi condivide cuore, lacrime e sorrisi con questa gente.

Che valga da lezione per tutti gli amanti dell'esotico.

Soprattutto quando la ricerca dell'esotico avviene nei luoghi in cui le persone faticano a sopravvivere, giorno dopo giorno.


“Per me la macchina fotografica è uno strumento per imparare. 
Basta guardarci attraverso per raggiungere una sorta di raccoglimento; 
è questo il momento in cui puoi penetrare e scoprire l'invisibile – l'ignoto. Puoi comprendere sia te stesso sia il mondo.” 
(Raghu Rai)

 

Raghu Rai. “Churchgate Railway Station”. Mumbai, 1995




Per vedere le sue fotografie: Raghu Rai Foundation 
Raghu Rai: “Bangladesh - The price of Freedom” (Niyogi Books, 2019) 
Raghu Rai: “My India” (Contrasto – Corriere della Sera, 2019) 


 

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