Shimu, alla fine, era riuscita a trovare un lavoro come domestica
presso una famiglia che viveva a Nikunja2, vicino all'aeroporto internazionale.
Ogni mattina si svegliava prima dell'alba, pregava, mangiava
velocemente riso e dal* con le uova, salutava sua madre e prendeva un CNG che
la portava al lavoro. Suo padre usciva prima di tutti.
Le ci volevano circa due ore per arrivare al lavoro.
La famiglia presso cui prestava servizio abitava al quarto piano di una
palazzina di militari e funzionari pubblici in pensione. Era un luogo
tranquillo, molto più della zona caotica dove era cresciuta.
Shimu occupava il tempo più che altro con la signora; lavava i panni,
puliva il pavimento, stirava e sbrigava le faccende in cucina.
Non era faticoso, trascorreva almeno venti minuti accovacciata sul
boti* a tagliare le verdure e gli ortaggi che poi la signora cucinava.
Erano gentili e spesso la facevano andare via prima dell'orario
stabilito, sapendo che le occorrevano circa due ore per tornare a casa nel
traffico dell'ora di punta.
Il momento che preferiva era quello in cui doveva andare a stendere i
panni sul terrazzo, anche se doveva fare due rampe di scale con la tinozza
pesante di abiti bagnati. Ogni sera, al letto, le doleva il fianco destro su
cui poggiava la tinozza per fare leva, però poteva godersi per un attimo la
vista dall'alto senza che nessuno la notasse.
Tushar invece, come previsto, era entrato nella compagnia edile in cui
lavorava suo padre.
Dopo tre mesi in un'altra zona era riuscito a farsi assegnare al
cantiere di Kilkhet, non lontano da dove lavorava Shimu.
Quando poteva chiedeva in prestito a suo fratello maggiore la sua Honda
Hero Splendor dal serbatoio color rosso splendente e accompagnava Shimu al
lavoro.
Percorrevano la Shagufta New Road per poi immergersi nell'oceano
colorato di anime e smog delle strade di Dhaka.
Prima di portarla a Nikunja2, Tushar le mostrava con orgoglio gli
enormi piloni grigi che si ergevano come grosse T piantate al suolo, su cui un
giorno avrebbe sfrecciato il treno metropolitano.
“Lo sai, io lavoro là sopra. Non è altissimo ma penso ti piacerebbe
vedere le persone che vanno al mercato o camminano lungo l'autostrada.”
Le diceva con quasi lo stesso entusiasmo che sapeva avrebbe avuto lei
seduta sopra uno di quei piloni.
Shimu annuiva anche se il tempo iniziava a corrodere l'ingenuità e il
candore della sua infanzia. La routine e l'impossibilità di immaginare un futuro
diverso erano come petrolio nell'acqua che rendeva le piume delle sue ali
viscose e pesanti.
Tushar lo sentiva, perciò appena poteva provava a scuotere le sue ali, a
liberarle da quel petrolio.
Spesso lui rimaneva in zona, quando terminava prima il lavoro al
cantiere; si davano appuntamento vicino ad uno dei pontili in ferro che
conducevano dalla parte opposta della Dhaka-Mymensingh Highway, attraversavano
i cantieri aperti con il naso all'insù, osservando i piloni imponenti come
fossero dei misteriosi dolmen di era megalitica oppure piovuti da chissà quale
costellazione extraterrestre.
Raggiungevano il Lago Kilkhet e si sedevano sulla sponda ad osservare
gli aeroplani che decollavano o atterravano all'aeroporto.
“Magari un giorno anche tu salirai sopra uno di quegli uccelli di
lamiera, sei Pakhi anche tu, no?”
Le diceva il ragazzo sorridendo mentre lanciava piccoli ciottoli
sull'acqua per farli rimbalzare.
“Magari sì, se avessi studiato. Forse sarei andata a prendere un Master
a Londra, a o Parigi, chissà...”
Rispose Shimu guardando i sassolini correre a filo d'acqua lasciando
cerchi concentrici.
“La verità è che noi siamo più simili a uccelli chiusi nelle gabbie dei
CNG piuttosto che l'uccello di Monpura”, disse Shimu seguendo la linea
bianca di un altro aeroplano.
“Siamo costretti a divincolarci su questo asfalto, ci agitiamo, ci
urtiamo per camminare sui marciapiedi come sardine, litighiamo per chi deve
salire prima su un rickshaw. Guarda mio fratello, ormai ha preso una brutta
piega, fomenta gli scioperi, lotta per avere 10 dollari in più sul salario,
mentre mia madre si spacca la schiena da quando era una bambina. Per cosa? Per
me che lavo le mutande di una donna che neanche conosco, e lo farò finché
qualcuno mi sposerà e inizierò a lavare le sue mutande; e per mio fratello che
vuole farla chiudere quella fabbrica, mentre continua a cucire mutande per
qualche giovane studente a Parigi che non conosce né me né mia madre, o sa
tantomeno che esistiamo e dove è ficcata Mirpur sulla mappa del mondo.
Siamo come i cerchi sull'acqua o la scia di fumo bianco in cielo: la pietra e l'aeroplano esistono e vanno via, noi... puff!” Disse mentre chiuse ed aprì le dita della mano come qualcosa che esplode.
“Noi ci dissolviamo senza lasciare traccia...”
“Allah! Quanto sei pessimista! Non ti porto più a vedere gli
aeroplani!”
Sbottò Tushar stizzito, con il broncio.
Shimu si volse a guardarlo e fece un sorriso.
“Dai, scusa! Alla fine io ho il mio pakhi pagol*!”
A casa l'atmosfera era sempre più tesa. Suo fratello Shariful era
agitato anche quando mangiava, aveva gli occhi rossi e parlava continuamente al
telefono a voce bassa, oppure improvvisamente urlava ed inveiva.
Suo padre preferiva rimanere a lungo in moschea.
Il fratello più giovane era ormai plagiato da Shariful e questo
addolorava sua madre. Ishrat pregava ogni giorno per la sorte dei suoi figli,
ma in cuor suo sapeva che le cose non sarebbero andate a finire bene.
Una sera il fratello era in camera sua con tre amici
dell'organizzazione sindacale, stavano fumando e discutendo di uno sciopero
incombente.
Sua madre preparò il cha* e lo mise su un vassoio da portare
nella stanza. Shimu disse alla madre che era meglio lo portasse lei, ma a
Ishrat non piaceva che quei ragazzi vedessero sua figlia troppo da vicino.
Erano davanti la porta socchiusa e ascoltarono Shariful parlare in modo
concitato.
“Dobbiamo colpire la nostra fabbrica! Non se ne può più! Avete visto
come hanno risposto il governo e gli industriali alla richiesta della United
Garments Worker's Federation di aumentare il nostro salario da 38 dollari al mese a
100? Con 7 dollari e 60 centesimi di aumento! 7 dollari! Ci rendiamo conto
dell'elemosina? Mentre grazie al nostro sangue e sudore il tessile rappresenta
l'80% dell'export nazionale!
E se noi scioperiamo o andiamo in strada loro che fanno? Ci arrestano!
Ci sparano!”
Urlò Shariful battendo il pugno sul tavolo mentre i suoi amici lo
incoraggiavano.
Sua madre preso coraggio ed entrò, appoggiando il vassoio di cha
sul tavolino basso, mentre gli amici del fratello chinavano il capo per
rispetto.
“Grazie, ammu” Disse suo figlio con il tono della voce roca
mentre si allisciava i capelli scompigliati.
Poi sua madre si sistemò l'ulna a coprire i capelli, guardò quei
giovani ragazzi e con voce fioca disse.
“Ma se fate chiudere la fabbrica come potranno dare da mangiare ai loro
figli le madri e i padri che ci lavorano? Come io ho fatto con voi per oltre
venti anni...”
Shariful le puntò in viso i suoi occhi di fuoco.
Stava per sbraitare quando Shimu entrò di getto e portò via sua madre
come fosse una bambina in pericolo, mentre fissava in modo duro suo fratello:
“Non provare a rispondere male a nostra madre.”
Disse Shimu con voce ferma mentre chiudeva la porta alle loro spalle.
Condusse la madre in cucina e le diede un bicchiere d'acqua.
“Lascialo stare, ammu. Ti ammazzerà lui se non lo ha ancora
fatto la fabbrica in tutti questi anni.”
Poi sistemò la cucina e andò in cortile per lavare i suoi abiti, come al solito.
Quella mattina Tushar l'accompagnò in moto. Lei gli consegnò il casco e
andò al lavoro.
Ogni tanto faceva attenzione alle notizie in televisione sugli scioperi
in atto.
Tornò a casa chiusa nella gabbia del CNG perché Tushar avrebbe finito
tardi.
Era in cortile a lavare l'abito quando sentì un trambusto arrivare
dall'interno della casa. Voci alterate, pianti.
Mollò tutto e corse dentro con il presentimento che la sventura era
venuta a colpire la sua famiglia, pensando a suo fratello e in cuor suo
sperando che non ci fosse di mezzo il fratellino più piccolo.
Però rimase spiazzata quando vide la madre di Tushar che piangeva tra
le braccia di sua madre, mentre il fratello maggiore del suo amico rimaneva
impietrito affianco a loro, con ancora il casco in mano.
“Ammu...? Cosa...?”
Chiese Shimu con un filo di voce e il sangue gelido.
“Tushar... Sta in ospedale.”
Riuscì a malapena a dire sua madre mentre cercava di contenere a fatica
il pianto viscerale della sua amica.
Il cuore di Shimu fu come stritolato dalle radici delle mangrovie.
Il fratello andò verso di lei.
“Stava salendo su uno dei piloni quando è scivolato ed è caduto da
oltre quattro metri, battendo la testa. Per fortuna aveva il casco di
sicurezza, ma ha riportato fratture e adesso è....”
La voce si strozzò e provò a trattenere le lacrime.
“Dove? Che ospedale?” Chiese Shimu con gli occhi pieni di lacrime.
“Al Kurmitola General Hospital.”
La ragazza vide il casco e gli disse senza esitare.
“Portami da lui; ti prego.”
Corsero in moto sfrecciando tra le fila delle auto immobili come
pietre. I clacson, le voci, le marmitte arrivavano a Shimu come sussurri
ovattati dal casco e dalla preoccupazione.
Sentiva il suo cuore pulsare sulla schiena del fratello di Tushar.
Arrivati nella stanza della terapia intensiva l'infermiera li fermò
sulla porta, dicendo che non potevano entrare, era ancora in rianimazione.
Aprì un poco la tenda rosa da dentro e Shimu premette il viso e le mani
sul vetro, osservando il letto su cui giaceva il suo amico pieno di tubi e
circondato da macchinari.
Il vetro si appannò subito.
Il fratello era alla sua destra.
“È in coma...” Disse.
Ogni giorno andò in ospedale. Non riusciva neanche a lavorare bene; si
era confidata con la sua signora e lei le concedeva spesso di uscire un'ora
prima per andare a trovarlo.
L'infermiera l'aveva fatta entrare.
Shimu, all'inizio non aveva avuto la forza di vederlo con gli occhi
chiusi, il respiratore, i tubi nel naso, con tutte quelle macchine intorno. Era
quasi svenuta.
Il giorno dopo la stessa infermiera, Tahera, le aveva dato una sedia in
plastica bianca al lato del letto.
“A volte ascoltare la voce di chi si ama aiuta ad uscire dal coma.” Le
disse sorridendo.
Shimu non fece in tempo a obiettare, turbata da quel termine “ama”,
voleva dirle che era il suo migliore amico, ma Tahera era già uscita dalla stanza.
Rimaneva solo il BEEP... BEEP... della macchina a cui era attaccato
Tushar.
“Sono Pakhi...” Riuscì a dire solamente questo, mentre fissava i sui
occhi chiusi.
Quando tornava a casa era sempre più stanca.
La madre la costrinse a mangiare qualcosa. Anche suo fratello sembrava
essersi calmato e veniva a chiederle ogni sera come stava Tushar, se c'erano
miglioramenti. Lei scuoteva la testa.
Andò in cortile, rannicchiata sulla tinozza in ferro con il salwar
kamiz nell'acqua insaponata.
Mentre grattava con il sapone sentì un ticchettio.
Alzò lo sguardo verso il muro di mattoni rossi e vide un piccolo
uccellino dalla piume marroni e nere saltellare sul bordo del muro, vicino ai
rami dell'albero.
Shimu tornò a lavare l'abito, lo stese sul filo e crollò stanchissima
in un lungo sonno, dopo la preghiera della sera.
Il giorno dopo tornò in ospedale. Chiese a Tahera se si era svegliato,
ma l'infermiera scosse la testa.
Andò a sedersi sulla sedia bianca.
“Mi dicevi che mi sarebbe piaciuto sedere su quei piloni, ma ora non ho
più nessuna intenzione di avvicinarmi.”
Sedeva con il corpo di lato al letto, con gli occhi sulla mano di
Tushar fuori dal lenzuolo celeste, il saturimetro all'indice, mentre arrotolava
il bordo dell'ulna alle sue dita.
“Hanno iniziato lo sciopero in fabbrica, sai? Un giorno all'altro mio
fratello finirà in prigione...”
Shimu prendeva coraggio ad ogni visita. Erano trascorsi già alcuni
mesi.
Stava seduta per ore a raccontare tutto quello che accadeva.
“Ma non a me, io continuo a lavare mutande.”
Diceva sorridendo mentre con la mano destra accarezzava quella di
Tushar sul lenzuolo.
La sera appena usciva in cortile con il vestito arrotolato in mano,
guardava l'uccellino che non andava via dai rami dell'albero. Lei gli
fischiettava; il volatile muoveva il capo a scatti, zampettava dal ramo al
bordo del muro.
Il giorno dopo, seduta sulla solita sedia, tirò fuori un cartoccio
color paglia.
“Ho comprato jelapi*, ti piacciono tanto.” Esclamò, tirando
fuori dalla carta i dolci color arancio di forma rotonda.
Tahera entrò nella stanza per il controllo.
Le loro voci erano intercalate dal BEEP della macchina.
Shimu offrì i jelapi all'infermiera.
“Come sta?” Le chiese.
Tahera osservò il liquido nella flebo e sorrise: “Secondo me sta
meglio. Solo a sentire questo profumino, mmmm... aprirei gli occhi in un
baleno!”
Shimu annuì con vigore, sorridendo, masticando la pasta croccante.
Quando l'infermiera uscì e chiuse la porta, avvicinò il volto a quello
di Tushar. Bisbigliò.
“Mi manca tanto il mio pakhi pagol.”
Iniziò a canticchiare piano piano al suo orecchio.
La sera, mentre era in cortile, vide l'uccellino volare sul suolo e
zampettare come una molla ad un metro da lei.
Shimu sorrise e andò in casa; tornò un attimo dopo con un pezzo di
roti.
Lo sbriciolò e lo gettò ai suoi piedi.
L'uccellinò zampettò beccando le briciole fino alla punta del suo piede
sinistro.
La ragazza asciugò la mano bagnata e insaponata sul suo salwar e la
poggiò con il palmo all'insù a terra, vicino al piede.
L'uccellino con un salto salì sul palmo.
A malapena vedeva l'occhio minuscolo e le piume sembravano vellutate.
“Ciao, piccolino.” Disse Shimu portando la mano vicino al mento.
L'uccellino aprì le ali e spiccò il volo, oltre la chioma dell'albero.
La sera mangiò con sua madre, pregò e andò a dormire.
Il giorno successivo lavorò tutte le ore che doveva.
La signora le diede una busta con dei mango profumatissimi.
In ospedale c'era la famiglia di Tushar. Lei rimase ad osservarli
dall'angolo del corridoio, dietro una parete, attese che andarono via ed entrò
nella stanza.
Regalò a Tahera uno dei manghi più polposi; ormai la considerava
un'amica: erano mesi che parlavano ogni giorno.
Appena Shimu arrivava, l'infermiera l'aggiornava su tutto ciò che i
dottori avevano detto durante la giornata. Poi chiudeva la tenda rigida rosa e
la lasciava sola con lui.
Shimu era sempre più stanca. A volte le capitava di chiudere gli occhi
senza accorgersene.
Parlava, parlava, raccontava tante cose.
Poi appoggiava la guancia sulla mano di Tushar, ancora raccontando, e
chiudeva gli occhi. Ipnotizzata dal BEEP della macchina.
Era capitato che Tahera la svegliasse per tornare a casa che era tardi,
oppure quando i dottori stavano per arrivare.
Chiudeva gli occhi.
Iniziava a sentire il suono melodioso dell'harmonium*.
Il tuffo del remo nel fiume.
Il cielo azzurro come l'acqua punteggiata dal verde del loto.
Vedeva la scia bianca degli aeroplani in cielo e le formiche in fila
sulla terra rossa.
Il ticchettio incessante delle macchine da cucire e i clacson delle
automobili nel traffico.
Dal fondo celeste sfocato emerse una figura con le braccia allargate
dondolare come in volo.
E una voce, giunta a lei da chissà quale angolo di cielo e fiume.
Una voce dolcissima e flebile.
Shonaro palonker ghor-e......likhe rekhechilem daar-e*”
Shimu aprì gli occhi a fatica. Avvertì un movimento sotto la sua
guancia.
Si rese conto che la voce non era nella sua testa.
Vide il dito di Tushar muoversi a scatti, lentamente.
"Jao pakhi bolo taar-e...she jeno bhole na mor-e...*”
Cantava Tushar con voce impercettibile.
Shimu balzò in piedi. Vide gli occhi del ragazzo aperti, anche se non
del tutto.
Le labbra secche sorrisero a malapena.
“Ciao... Pakhi...”
Shimu non riuscì a trattenere le lacrime.
Si piegò su di lui.
“Bentornato, pagol”
Poi corse fuori a cercare Tahera.
Tornarono nella stanza accompagnate da un nugolo di dottori.
Shimu prese le sue cose, arretrò lentamente verso la porta mentre
osservava tutti quei camici bianchi attorno al letto.
Tahera la cercò con lo sguardo e annuì con un sorriso.
Tornata a casa raccontò a sua madre e suo fratello.
La famiglia di Tushar era già stata avvisata ed era sulla via per
l'ospedale.
Quella sera mangiò come se non toccasse cibo da mesi.
La sera uscì in cortile con gli abiti da lavare.
Guardò verso il muro, dove i rami dell'albero oltrepassavano il bordo
di mattoni rossi.
Nessuna traccia dell'uccellino.
Andò a dormire con un sorriso dolce ricamato sul viso.
Nasreen Begum |
“Nessun mistero al di là del presente;
nessuna lotta per l'impossibile;
nessuna ombra dietro l'incanto;
nessuna ricerca nel buio.
Questo amore fra te e me
è semplice come una canzone.”
(R. Tagore, da “Il Giardiniere”, XVI)
Un ringraziamento speciale va a Rownak per avermi aiutato in questo racconto.
Dedicato alla mia Dhaka.
*Il termine dal (anche riportato con la grafia daal, dhal o dahl) e talvolta conosciuto come dail, è un termine che indica varie tipologie di legumi secchi, ovvero lenticchie, piselli e fagioli. Il termine viene anche usato in riferimento a varie zuppe ricavate da queste leguminose.
*Boti è uno strumento da taglio, maggiormente diffuso in Nepal, Bihar, e nella regione del Bengala nella parte orientale del subcontinente indiano. È una lunga lama ricurva che taglia su una piattaforma trattenuta da un piede. Entrambe le mani vengono utilizzate per tenere tutto ciò che viene tagliato e spostarlo contro la lama. Il lato più affilato è rivolto verso chi lo utilizza.
*Pakhi pagol, uccello pazzo.
*Il cha è la bevanda tipica di the con il latte.
*Il jelapi o jalebi, noto anche come jilapi, jilebi, jilipi, zulbia, jerry, mushabak o zalabia, è uno spuntino dolce indiano popolare. È fatto friggendo la farina di madia (farina normale o farina per tutti gli usi) in una pastella pretzel o in forme circolari, che vengono poi imbevute di sciroppo di zucchero.
*L'harmonium è un organo a soffietto utilizzato nella musica classica indiana.
*In my luxurious room
I wrote on the door.
*Fly bird there,
ask him never to forget me.
English version
I needed a happy ending story, thank you!
ReplyDeleteGrazie a te 🙏
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