La stanza degli ombrelli: su Erik Satie

“Non ho mai scritto una nota senza la mia intenzione.”
(Erik Satie)


Erik Satie

 

A volte è spiazzante leggere le biografie degli artisti che amiamo.

Prendiamo Erik Satie.

Personaggio assolutamente bizzarro. Nato il 17 maggio del 1866 nella cittadina di Honfleur in Francia da madre scozzese e padre normanno, Satie si trasferì a quattro anni, con la sua famiglia, a Parigi. Poi la madre morì e lui con il fratello minore tornarono nella città natale, nel 1872.

Tornò a Parigi sei anni dopo, a vivere con il padre che si era risposato con una insegnante di pianoforte – fu proprio lei a dargli le prime lezioni, quando aveva dodici anni.

Provò ad entrare nel conservatorio ma fu bocciato, dopo due anni, perché privo di talento secondo i professori. Nel 1885 fu riammesso ma sempre considerato uno studente di scarso valore.

Così prova con l'esercito, a 19 anni, ma neanche quella sembra essere la direzione giusta. Si farà riformare volutamente.

 

Che dire altro? Viveva in un appartamento che chiamava “l'Armadio” con sole due stanze, di cui una era sempre chiuse a chiave e conteneva la sua collezione di ombrelli, amati al punto da non essere mai usati.

Fondò una religione personale di cui fu il solo adepto.

Fu amico dei grandi poeti dell'epoca, come Mallarmè, Verlaine e Cocteau.

Era ossessionato dal numero tre.

Fu il primo a usare la tecnica del “piano preparato”, posizionando degli oggetti nella cassa armonica del pianoforte: una tecnica che diventerà usuale nella “musica concreta contemporanea”.

I suoi spartiti erano illeggibili, e senza indicazioni.

Seduto nei locali a bere con i suoi amici, amava ripetere che il suo ideale di musica era quella “da tappezzeria”. Fu lui a creare questo termine che usiamo ancora oggi, per descrivere un certo tipo di musica soft e senza nerbo.

Sembra che un giorno Satie, seduto ad un caffè, disse al suo amico Fernand Léger:

“Sai, bisognerebbe creare della musica d'arredamento, cioè una musica che facesse parte dei rumori dell'ambiente in cui viene diffusa, che ne tenesse conto. Dovrebbe essere melodiosa, in modo da coprire il suono metallico dei coltelli e delle forchette senza però cancellarlo completamente, senza imporsi troppo. Riempirebbe i silenzi, a volte imbarazzanti, dei commensali. Risparmierebbe il solito scambio di banalità. Inoltre, neutralizzerebbe i rumori della strada che penetrano indiscretamente dall'esterno.”

 

Leggere così “en passant” (come dicono i francesi) la vita di questo omino, morto di cirrosi epatica a Parigi a luglio del 1925 fa pensare chissà che musica buffa potesse creare.

 

Non so quanto di voi che state leggendo abbiano mai ascoltato le sue tre Gymnopédies e le sei Gnossiennes.

Le Gymnopédies, composte nel 1888, sono tra le sue opere più famose, ma io preferisco le prime tre Gnossiennes.

Fu lui stesso a coniare questo termine, per chiamare questa musica composta tra il 1889 e il 1897. Pare che Gnossienne derivi dalla parola gnosi, cosa non troppo sorprendente data l'implicazione di Satie in sette e movimenti gnostici nel periodo in cui iniziò a comporre questi brani. Alcune fonti, tuttavia, asseriscono che il titolo derivi dal famoso palazzo cretese di Cnosso, o “Gnossus”, e che le composizioni siano dunque da collegare al mito di Teseo, Arianna e il Minotauro.

Ovvero il mito del Labirinto.

 

Io scrissi già sulla musica di Glenn Gould e quanto il pianoforte mi abbia sempre affascinato. Non sono il solo a ritenere questo il Re degli strumenti musicali. Perfetto e completo.

Ha qualcosa veramente di misterioso nel suono che produce, come se gli accordi suonassero direttamente nelle sinapsi del cervello.

Ascoltare per la prima volta la prima Gnossienne credo sia una delle esperienze emotive più forti in musica.

È come una  trappola – un labirinto appunto – da cui è impossibile fuggire via.

È incredibile come colui che ambiva a realizzare musica da tappezzeria e viveva in un “Armadio” collezionando ombrelli mai utilizzati, abbia potute concepire qualcosa di così profondamente toccante e sublime.

Una musica, suonata tuttora con ogni strumento e in mille interpretazioni, che rimane ancora così misteriosa.

Pensare che Satie, all'epoca, era chiamato il “tapeur à gages”, uno strimpellatore salariato, perché privo di educazione accademica, sostanzialmente autodidatta.

Ma quando queste note partono tutto si ferma, sembra di essere catapultati in una landa deserta, i cui accordi alti lasciano una strana malinconia, un senso di solitudine, una forza di gravità che ci fa sedere a terra, abbracciare le proprie ginocchia e subire il suo fascino fino alle lacrime.

 

Io scrivo di ciò che amo, e credo che sia uno splendido dono far conoscere questa musica a chi non l'ha mai ascoltata.

E anche un modo per riflettere sulle nostre vite, sulle persone bizzarre che incontriamo per strada, magari sorridendo beffardi delle stranezze e dei tic di uomini e donne, come se fossero errori di produzione della grande fabbrica delle nostre esistenze.

Poi magari è sufficiente conoscerli meglio per essere sopraffatti dalla meraviglia, di quanta bellezza ognuno di noi nasconde nel proprio intimo, senza che nessuno se ne sia mai preso cura.

 

Proprio come la stanza degli ombrelli della casa di Satie.

Ognuno di noi, ne sono certo, ne nasconde una.



Vi consiglio l'ascolto in una delle più celebri esecuzioni del pianista italiano Aldo Ciccolini:

 Erik Satie Gnossienne n° 1:


Gnossienne n° 2:


Gnossienne n° 3:




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