Karawang, Indonesia. 2010 |
Ci siamo lasciati nella Prima Parte con esempi di metafore in alcuni
dei grandi scrittori dell'Occidente.
L'idea è quella di affiancare a tali esempi quelli estrapolati dai
romanzi di scrittori orientali, per mettere in evidenza la differenza nella
loro concezione e il sistema di riferimento.
Laddove la metafora nei grandi romanzieri occidentali, soprattutto
relativa alla descrizione dei personaggi, è molto spesso incentrata su aspetti
intellettuali, psicologici o meramente descrittivi con classiche
aggettivazioni, salta subito all'occhio lo stile completamente diverso nei
romanzi degli scrittori dell'altro lato del mondo.
Innanzitutto l'uso della metafora è molto più frequente, ci sono
scrittori, come Soth Polin che ne usa quasi una a pagina nei suoi romanzi.
Voglio partire proprio da lui, non fosse altro che è l'ultimo che sto
leggendo. Soth Polin è uno dei pochissimi scrittori cambogiani sopravvissuti al
periodo dei Khmer rossi, il cui romanzo di culto “L'anarchico”, del 1980, è
stata ripubblicato da poco dalla casa editrice ObarraO Edizioni, che è
diventata un mio punto di riferimento proprio in questa ricerca di autori
asiatici.
Lo stile degli scrittori di questa area appare immediatamente
aggressivo, impetuoso, di forte impatto fisico, che è poi il punto da cui siamo
partiti citando la splendida metafora del rettile all'opera di Cioran.
Già l'incipit ricorda lo stile corrosivo e infiammabile di Agota
Kristof, Thomas Bernhard, lo stesso Cioran.
“La mia vita scorreva come una lenta emorragia”; e qualche riga dopo:
“In un certo senso ero scorticato dal mio carapace.”
Siamo alla prima pagina, ma fin qui niente che non sia già detto, cito
uno tra tutti, che poi era nella parte precedente, per esempio da Dostoevskij
nelle “Memorie del sottosuolo”.
Poi inizia con la sua carambole di metafore in questo stile:
“Riprendemmo velocemente la nostra strada. Grosse gocce di sudore
simili a chicchi di mais bagnavano il mio viso.”
“Attraverso l'acqua trasparente percepivo indistintamente le nuvole che
assomigliavano a spaghetti in salsa cambogiana.”
O come i capelli di una ragazza francese che sono “biondo-ramati come
il mais”; “lo spettacolo delle sue gambe tornite, brunite e sode come i fiori
del banano.”
Nella seconda parte del romanzo, l'autore ha un incidente stradale con
il suo taxi causando la morte della sua cliente, così descritta:
“La giovane sbalzata a terra in una frazione di secondo che rotolava su
sé stessa, accartocciata, contorcendosi come un rettile sulla brace.”
Per non parlare di come vengono chiamati gli attributi sessuali, quello
femminile, per esempio, è chiamato “il tortino”, “Nom Kom”, il tortino
di riso, che risale alla tradizione bramanica del matrimonio cambogiano; in un
altro punto, riferito all'organo genitale femminile chiamato yoni,
scrive, “aveva peli sottili e freschi come il polline dello champou”,
che è un albero coltivato nei giardini per i suoi frutti che vanno consumati
appena colti, con una evidente metafora nella metafora.
Cita anche dei modi di dire che rendono bene l'idea della carnalità
della sua cultura, uno è relativo ad un certo tipo di carattere di uomo
cambogiano, che ha “mani di fuoco che bruciano, artigli di pollo che
feriscono”, l'altro ancora più morbosamente fisico si riferisce alla capacità
di fare eccitare una donna: “la fa bagnare come una lumaca sulla corteccia di
un banano”.
Non è da meno lo scrittore cinese Ma Jian, di cui è stato ripubblicato
lo scorso anno il suo romanzo più famoso e oggetto di censura in Cina, “Tira
fuori la lingua – Storie dal Tibet”, del 1987.
Anche la sua prosa è molto aggressiva e carnale, con continui
riferimenti alla sfera fisica, come quando descrive una ragazze che
“ultimamente era molto cresciuta e adesso era bella come un lampone selvatico.
'Chiunque la veda vorrebbe darle un morso'.” Sempre della stessa ragazza
ricorda il suo “odore di latte acido sulla pelle.”
Non dobbiamo dimenticare che nei suoi racconti sono protagoniste le ampie
vallate aride dell'Himalaya, quei villaggi poverissimi e agricoli, per cui le
sue metafore seguono quello stato d'animo, e allora: “I visitatori si
affollarono sulla soglia e rimasero lì fermi come un gregge di pecore nere.”
Questo ultimo argomento mi suggerisce una parentesi. Ho detto nella
prima parte di come in Occidente le metafore siano di diverso tipo, perché
l'ambiente in cui gli scrittori sono cresciuti forgia il loro modo di vedere e
di sentire. Un sostrato filosofico e psicologico ha portato la maggior parte
dei grandi scrittori ha usare metafore e figure retoriche totalmente lontane da
queste che sto citando. Va detto però che, come mi ha confermato un mio caro
amico e docente all'università specializzato sulla letteratura latino-americana,
non è una esclusiva degli scrittori asiatici, nei romanzi del latino-america
l'uso delle metafore è pressoché lo stesso. Aggiungo che nella stessa Italia, è
paradigmatico lo stile degli scrittori sardi, tra i più potenti e suggestivi
proprio in virtù della peculiarità dell'isola.
Mi è venuto in mente quando ho parlato della metafora delle pecore nei
racconti sul Tibet poiché quello è l'ambiente in cui si muovono i suoi
personaggi.
Con l'obbligo di citare Grazia Deledda, Premio Nobel per la Letteratura
nel 1926, la quale nonostante fosse ancora sulla scia delle letteratura
ottocentesca, non mancava di usare metafore come: “un vecchione nero e gonfio
come un otre”, e “aprì le braccia, e cadde a terra come una pianta rampicante
priva di sostegno”. (“L'edera”)
Ma è con gli scrittori contemporanei che questo stile si intensifica e
raggiunge immagini potenti, dal romanzo “Sonetàula” del 2000 di Giuseppe Fiori,
che racconta la storia di un giovane pastore sardo, che viene descritto
all'inizio proprio così: “Più che di uomo, era cresciuto figlio di bosco e di
pecora, nei lunghi silenzi del Monte Entu.” Fino a parti in cui la simbiosi tra il protagonista e la pecora
diventa quasi allucinatoria: “la memoria delle gocce di lardo lasciate cadere
ardenti sulla carne per farla ben rosolata e saporita gli metteva il fuoco in
testa.”
A mio avviso, però, è assolutamente da leggere Salvatore Niffoi, la cui
prosa è un brulichio fervido e materico di aggettivi e metafore. È sufficiente
citare l'incipit del romanzo “Il Bastone dei Miracoli” del 2010.
“Licurgo Caminera se ne stava immobile come una lucertola nella sua
stanza piena di libri... La testa, sprofondata sul cuscino, continuava a
mungere un sudore untuoso che la figlia Penelope gli asciugava ogni tanto con
un panno da cucina. […] Cercò lo sguardo della figlia e, uncinando l'indice che
somigliava a uno stecco di biancospino, la invitò ad avvicinarsi. […] Le unghie
di Licurgo erano dure come artigli di astore e avevano colore di terra e succo
di tabacco.”
La Sardegna è la terra di mia madre e, anche se ci sono stato appena
tre volte da bambino, conosco bene quei paesaggi e il carattere delle persone
dai suoi racconti, perciò non è stato difficile immaginare il tipo di
letteratura che poteva scaturire da quell'isola, e non credo sia molto diverso
anche per un'altra isola come la Sicilia, che è anche prossima all'Africa con
tutto ciò che comporta.
Ma torniamo ai nostri scrittori asiatici.
Non che questo stile sia prerogativa degli scrittori uomini.
Prendiamo Journal-Gyaw Ma Ma Lay, la più celebre scrittrice birmana con
il suo capolavoro “La sposa birmana” del 1994.
Cito questo bellissimo passaggio in cui viene descritto il primo
interesse della protagonista Wai Wai per colui che diverrà suo marito:
“Gli occhi bassi, Wai Wai era felice. Riceveva con avidità l'affettuoso
interessamento di quell'uomo, che riteneva freddo e orgoglioso, così come la
terra screpolata di Kason si impregna della prima ondata dei monsoni”,
dove Kason è il periodo dell'anno che va da aprile a maggio.
In un altro momento Wai Wai è descritta dal marito come “quel fragile
fiore di loto che era riuscito a sorgere dal fango delle paludi”; e come in
Soth Polin anche nel romanzo di Ma Ma Lay vengono citati modi di dire della
cultura birmana, come: “Era come una scimmia seduta su un braciere”, per
indicare il massimo dell'agitazione. Chiudo con lei citando come viene
descritto il corpo ormai malato della protagonista: “Il suo corpo aveva
quell'aspetto tormentato che assumono gli alberi all'inizio della stagione
secca, con i grovigli di rami spogliati delle foglie appassite.”
In questo giro andiamo adesso nelle Filippine di Mia Alvar, una tra le
più dotate scrittrice contemporanee, con la sua raccolta di racconti “Famiglie
ombra” del 2015. Anche il suo stile è figurativo con riferimenti al mondo
vegetale, come quando descrive nel primo racconto il padre del protagonista:
“Gli era venuta una pancia grossa come un'anguria, e quasi altrettanto verde
per via delle vene tese contro la pelle.” In un altro racconto così viene
descritto un uomo: “Aveva il naso largo, un po' bovino alle narici”; o di una
donna: “I capelli, del colore improbabile di un'aranciata Sunkist, seguivano la
curva della mascella, più lunghi davanti e corti sulla nuca, con ciocche che le
penzolavano davanti al viso come piume rigide.” Oppure di una “carnagione scura
come la cannella” o di una voce che “era piatta e potente come un cucchiaio di
legno contro un tavolo.”
Solamente per citare alcuni esempi, anche se a mio avviso una delle
metafore più belle e profonde è quella nel racconto che dà il titolo alla
raccolta, e dice:
“Vivevamo come contadini ai piedi di un vulcano, timorosi di offendere
gli dèi che governano i nostri raccolti e la nostra ricchezza”, riferito alle
famiglie filippine emigrate nel Bahrein per lavorare.
Metafore come queste non mancano anche nella letteratura malese, capaci
di usare il mondo vegetale per descrivere destini o concezioni di esistenze,
come nella splendida metafora di Fatimah Busu in “Salam Maria” del 2004:
“Le donne sono come il cetriolo e la vita intorno a loro è come il
durian.
Sia che le donne si avvicinino alla vita o la evitino, saranno comunque
schiacciate, proprio come il durian schiaccia il cetriolo”.
Laddove è fondamentale conoscere il frutto del durian, che tra i
principali frutti in Malesia, e in molta parte dell'Asia, caratteristico
proprio per la sua durezza e per la pelle ricoperta di spine rigide e
appuntite.
Questo uso di metafore dal respiro ampio è usato anche da una
scrittrice indonesiana, Ayu Utami, nel suo romanzo “Saman” del 2001:
“Qui in questo parco sono un uccello che ha volato per migliaia di
miglia da una contea che non conosce stagioni, un uccello che è migrato in
cerca di primavera; primavera, dove puoi sentire l'odore dell'erba e degli
alberi; alberi, di cui non potremo mai conoscere il nome o l'età”.
A questo stile non sfugge neanche un autore di best-seller come
l'indonesiano Andrea Hirata, forse l'autore contemporaneo più famoso nell'area
indo-malese. Valga l'esempio tratto dal romanzo “Edensor” del 2007:
“Alla Sorbona ogni giorno sono avvelenato dalla conoscenza anche se
sono come un pulcino di quaglia che inciampa dietro a una mamma pernice.”
Credo che il mio pensiero sia ormai facilmente comprensibile.
Sottolineo il fatto che questa vuole essere assolutamente solo una
suggestione letteraria e non un saggio critico, un gioco di comparazioni e di
sensazioni. Come ho ricordato prima, citando il caso degli scrittori sardi, non
mancano anche da noi esempi di metafore più materiche e carnali, ma negli
angoli del mondo dove la vita è più legata alla sopravvivenza, al lavoro nei
campi, alla forte sensualità aggiungerei, anche la scrittura tende ad assomigliare
a quel rettile all'opera di Cioran, da cui sono partito.
Cito a chiusura un classico della letteratura antica Tamil, quel
Shilappadikaram, “La Cavigliera d'Oro” di cui ho già parlato, e stiamo parlando
del III e il VII secolo d.C. Già allora veniva descritta la protagonista
Kannaki con le spalle “come canne ricurve”, o i “capelli disfatti sembravano
una foresta oscura”; oppure capace di abbracciare il suo sposo “come una
liana”.
Giusto per rendere l'idea di come tutto inizi da tempi ben più remoti.
Tutto questo mio lungo sproloquio, in realtà, vuole essere solamente un
modo un po' contorto per rispondere a chi mi chiede a proprosito della
scrittura che amo leggere e scrivere. Ovviamente adoro le analisi e gli scavi
psicologici di Dostoevskij o le sublimi descrizioni intellettuali di Musil o
Joyce. Però, forse proprio perché ho vissuto sulla mia pelle, ho odorato,
toccato e visto quei luoghi, adesso sento molto più simile a me quel tipo di
scrittura; la fotografia non è stata un fattore di poco conto in questa
predilizione. Passare dai libri divorati nel chiuso di una stanza o biblioteca
a camminare chilometri, essere tramortito dagli odori forti dei mercati quanto
accecato dal verde intenso delle risaie, modifica anche il nostro modo di
scrivere, così come di vivere.
Perciò sporcatevi dei vostri sensi, non abbiate vergogna dei vostri
impulsi e passioni, sbucciate le vostre idee della parte sofisticata, la polpa
è quella che conta.
Scrivete costringendo chi vi legge ad usare tutti i sensi, fatelo
sudare, tremare, sporcare e godere come una lumaca sulla corteccia di un
banano.
Del resto una delle domande classiche che si fa nei corsi di Fotografia
è: perchè qualcuno dovrebbe soffermarsi a vedere le nostre fotografie? Sprecare
due minuti del proprio tempo per noi?
Lo stesso vale per chi ci legge.
Questo dobbiamo donare a chi dedica il proprio tempo ai nostri romanzi,
racconti o poesie. Il piacere della lettura, piacere inteso proprio in senso
fisico e carnale, non solo mentale.
Idea e carne. Emozione e passione.
Ricordandoci che la psicologia passa anche dei nostri fluidi e
desideri, dal tatto e dal sangue.
Chiudo citando l'ultimo aforisma di Cioran, proprio su questo argomento
e chi vuole intendere, intenda...
“Mille anni di guerra hanno consolidato l'Occidente;
un secolo di “psicologia” lo ha ridotto allo stremo”
(E. Cioran, “Sillogismi dell'amarezza”)
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