“E il mistero supremo era semplicemente questo: qui c'era una stanza;
là un'altra. La religione ha risolto questo problema o l'amore? "
(Virginia Woolf)
Recentemente mi è capitato di leggere un sito creato da John Koenig,
“The Dictionary of Obscure Sorrows”.
Giocando con etimologie, prefissi e suffissi ha creato decine e decine
di neologismi, alcuni già entrati nel modo di dire dei social media. Era il
2015.
Ideò queste nuove parole come necessità per la scrittura delle sue
poesie, perché aveva in mente dei concetti che non erano ancora stati espressi
con le parole in uso.
Folle e geniale.
Inoltre, nelle discussioni soventi che sto facendo con il professore di
antropologia Antonio Riccio, con cui sto collaborando per un progetto sulle single
mother filippine a Roma, è uscito fuori un tema interessante.
Si parlava di una ricerca condotta da un insegnante e una ricercatrice
di antropologia de “La Sapienza”, Vincenzo Padiglione e Silvia Settimi,
chiamato “Musei del Sé”: una ricerca etnografica diventata anche un libro, sulle
stanze dei ragazzi fotografate da essi stessi.
In questi mesi è diventato sempre più difficile uscire fuori e le
nostre stanze diventano dei gusci protettivi, dei veri e propri carapaci, come
quelli dei crostacei o delle tartarughe.
Perciò mi è venuta voglia di pensare come racconterei me stesso
fotografando la mia di stanza.
Premesso che, nonostante il tema interessante, non amo molto il termine
“museo del sé”.
Io non sento minimamente la mia stanza come qualcosa che muse lizza me
stesso, anzi, essa è assolutamente viva e pulsante.
Pensando dunque alla “parole oscure” di Koenig, ho coniato il termine
“egostànzia”, unendo il termine latino stànzia per stanza ed ego per
il “sé”: la stanza del sé.
Sin da piccolo non c'era luogo più sicuro della mia stanza e, anno dopo
anno, accumulavo oggetti che mantenessero vivo il ricordo di chi ero.
Come ho già scritto, io sono un accumulatore compulsivo, e la stanza
riproduce al rovescio ciò che è la mia anima.
Io accumulo ricordi, volti, dolori, colori, ferite, risate, amori, così come conservo buste di plastica, scontrini, libri, immagini.
Tutto quanto in un caos organizzato comprensibile solo da me.
A volte mi sorprendo di come questo profondo legame con la mia stanza
la porti a riprodurre anche le mie ferite e le cicatrici.
Quando mio padre vuole riparare qualcosa di crepato o scollato io
glielo impedisco.
Mi piace vedere la carta da parati che si apre piano piano nel tempo
come una cicatrice.
È giusto così.
Bisogna diffidare di chi non cura e vive la propria camera, la mantiene
anonima, senza identità.
O è un monaco o un bugiardo, oppure è un egoista.
Non so quanto si può capire di me da queste foto, sono solamente dieci
polaroid del mio carapace.
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