“Possano questi occhi tristi crescere fantasmi –
Quando, ingiustamente e soli, sono andati alla deriva
Nell'ombra senza voce da dove venivano?”
(Ella Higginson, 1860-1940)
Edward S. Curtis. “Una razza in estinzione, Navaho, 1904 |
Io sono interessato alla fotografia cosiddetta etnografica.
È un'altra finalità che può avere la Fotografia.
Quella di conoscere, documentare e salvare nella memoria popoli che
sono andati perduti o sono mutati nel tempo. Ho già parlato di Bernatzik, e dei
suoi tre monumentali volumi dedicati all'Africa, Sud-Est Asiatico e Pacifico
del Sud.
In questo periodo dove si rimuovono statue, immagini e film che hanno
discriminato i neri d'America, Edward S. Curtis, invece, è l'esempio di chi
dedicò tutta la sua vita a far conoscere bene chi fossero gli indiani
d'America.
“Edward S. Curtis”, 1899 |
Edward S. Curtis: One Hundred Masterworks |
Nato nel 1868, riuscì a portare a conclusione, con immense difficoltà, un progetto epico e mastodontico: la sua enciclopedia “The North American Indian”, 20 volumi con circa 2.200 fotografie, che occupavano un metro e mezzo di spazio.
Impiegò quasi trent'anni, sacrificando anche il suo matrimonio, per
realizzare questo progetto, che ebbe vari finanziatori, tra cui anche amici di
Roosevelt che amava i suoi ritratti e il suo entusiasmo.
Si dice fosse un tipo “robusto e geniale, dotato di grande coraggio
oltreché di vigore fisico”.
Visitò oltre ottanta tribù, e a metà dell'opera erano gli stessi indiani che lo contattavano per essere ritratti e raccontati. Perché, il problema principale è che tutta la tradizione culturale indiana era solamente orale; Curtis li stava aiutando a perpetrarne la memoria.
“Una tribù visitata e studiata racconta a un'altra che, una volta scomparsa la generazione di oggi, gli indiani sapranno dai miei libri com'erano una volta, cosa facevano, e questa tribù non vuole essere lasciata fuori.” (Edward S. Curtis)
“Taos water carriers”, 1905 |
"An Apsaroke mother and child", 1908 |
Non solo li ritraeva, in modo splendido e malinconico, ma Curtis annotava tutto quanto: le biografie dei capi indiani, di guerrieri, guaritori e sacerdoti. Trascriveva i testi e le musiche. Divideva i capitoli, per ogni tribù, in “Usanze e costumi”, “lavoro, artigianato e religione”, “Cerimonie”, “Medicina a guaritori”.
Gli ultimi che ritrasse furono gli inuit, gli eschimesi dell'estremo
nord.
L'aspetto più importante è che Curtis fu diverso da tutti i suoi
predecessori, le cui fotografie degli indiani non facevano che avallare i
pregiudizi con cui questo popolo era visti: i “selvaggi adorni di piume”.
Gli indiani, in quel caso, erano solo modelli usati per confermare e
rafforzare idee preconcette e paure che gli americani provavano nei loro
confronti (presenti in quasi tutti i primi film western con gli indiani), e gli
stessi indiani non avevano nessun potere per ribaltarli. Erano oggetti
passivi, semplici stereotipi da cartolina.
Curtis invece viaggio con loro, cerco di capire la lingua, visse con loro,
in un modo così empatico che ricorda quanto fece Koudelka con gli “Zingari” del
suo libro più famoso. E più di ogni altra cosa, era profondamente indignato per
le ingiustizie che erano costretti a subire.
“Donna Hupaa”, 1923 |
“Curtis ha scelto una presa di posizione sociale e umanitaria. I suoi ritratti hanno dato un volto alle popolazioni indigene del continente americano che erano in pericolo di estinzione”, scrive Hans Christian Adam nell'introduzione al libro.
Alcuni volti sembrano dotati di un'empatia magnetica, sembra di poter
cavalcare dentro le praterie di tristezza e orgoglio di questo popolo.
C'è modo e modo di raccontare chi è “diverso” da noi.
E renderlo il più possibile “prossimo a noi” è uno dei modi più belli e
toccanti.
"Navajo Girl", 1920 |
“Mosa – Mohave”, 1903 |
“Chaiwa-Tewa”, 1921 |
“Flathead Warrior”, 1910 |
“Edward S. Curtis” by Hans Christian Adam (Taschen, 2012)
https://www.edwardscurtis.com/
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