Pittura E Fotografia: Uno Sguardo (Parte Prima)

“È bello amare molte cose, perché in ciò risiede la vera forza,
e chiunque ama molto fa molto, e può fare molto,
e ciò che è fatto nell'amore è ben fatto.”
(Vincent Van Gogh)

 

Anche questa volta voglio rispondere a chi mi ha richiesto di parlare della pittura e della sua relazione con la fotografia. Lo faccio con grande piacere.

Di certo non sono un critico d'arte, ma fin da piccolo ho sempre amato disegnare e dipingere, anche se ho smesso da molti anni.

Però, durante le scuole superiori, le lezioni di arte e letteratura erano tra le mie preferite. E non ho mai nascosto questa passione, anche adesso, sia nei miei workshop che nei miei libri.

 

Perché sono fermamente convinto che nelle nostre fotografie, come in qualsiasi produzione artistica, non entra come contenuto ed ispirazione, solo ciò che a cui esse sono vicine, ma ogni cosa che ci piace ed appassiona.

Le mie fotografie sono piene delle foto che ho amato vedere, così come dei pittori, delle canzoni e libri che mi hanno ispirato.

Io credo che nell'arte non debbano esistere territori circoscritti, per cui ciò che è visuale rimanda al visuale così come ciò che si ascolta o legge, ma tutto si mescola dentro di noi, in un caldo magma di ispirazione.

Esiste un termine che descrive bene questa mia idea, mutuato dalla critica letteraria, e molto amato dai decadentisti francesi come Baudelaire e Rimbaud: la sinestesia, ovvero quel fenomeno percettivo-sensoriale che indica una contaminazione dei sensi nella percezione; per esempio, ad una situazione in cui una stimolazione uditiva, olfattiva, tattile o visiva è percepita come due eventi sensoriali ma conviventi. In poesia e nella critica letteraria è chiamata sinestesia l'espressione “parole calde” o “silenzio verde”.

 

Questo è il modo in cui io concepisco l'arte, senza confini o settori.

 

Inoltre è inevitabile che la fotografia debba molto alla pittura, perché da essa è nata e ne è la versione tecnologica, con l'esigenza della fedeltà alla realtà, immediata e duplicabile. Si parla sempre di riempire un rettangolo vuoto di immagini e significato.

Così come sono – a volte – dichiarati esplicitamente i debiti di grandi fotografi alla pittura, per non dire di coloro che hanno alternato durante la loro professione le due forme di arte, fino al punto di abbandonare la fotografia per tornare alla sola pittura: il caso più celebre è senza dubbio quello di Henri Cartier-Bresson, il quale ha sempre affermato il suo amore per il Surrealismo in pittura; lo stesso vale per Man Rey.

 

Salvador Dalì“Il gioco triste” (1929)

Henri Cartier-Bresson“Trieste” (1933)


Man Ray“Noire at blanche (nera e bianca)” (1926)

 

Io voglio qui proporvi qui dei confronti tra alcuni quadri famosi e delle fotografie, a mia suggestione, senza dilungarmi troppo in storie e interpretazioni. È sempre meglio lasciare alle immagini suggerire piuttosto che troppe parole.

Del resto, le prime forme di fotografia furono, come abbiamo visto in articoli precedenti, quelle del Pittorialismo, che era una pittura sulla fotografia, quasi a segnare il passaggio di testimone tra le due arti, che hanno comunque camminato in parallelo fino ai giorni nostri.

 

Mi piace iniziare con Paul Gauguin, perché la sua ispirazione varia dai temi dipinti ai colori.

Nato a Parigi nel 1848, Gauguin sarà tra i pittori più famosi del suo tempo ad abbandonare l'Europa alla ricerca di un mondo incontaminato e primitivo che troverà a Tahiti, in cui si trasferirà definitivamente nel 1895, per morire nel 1903 nelle Isole Marchesi, in Polinesia.

I suoi dipinti tahitiani sono misteriosi, simbolici, dal colore potente; così come i suoi famosi ritratti di donne, che sono un concentrato di sensualità, mistero e intimità con mondi lontani e diversi.

Come nella posa della modella delle prime fotografie di Alvid Coburn del 1905 che spinge il Pittorialismo del XIX Secolo verso una fotografia più moderna.

Allo stesso modo è impossibile non correre con il pensiero ai dipinti di Gauguin guardando i ritratti di Bernatzik, il primo fotografo con un approccio antropologico che documentò e studiò le popolazioni tribali del Sud Est Asiatico nel 1930, attraversando Thailandia, Birmania, Indocina, Laos fino a Bali.

 

Paul Gauguin“Te faaturuma (Il Silenzio)” (1891)

Alvin L. Coburn“Nudo” (1905)

Paul GauguinDonna con frutto (Dove vai?)” (1893)

Bernatzik“Donna Jaray”, Indochina


Ma Gauguin è anche colore: “Il colore, come la musica, coglie nelle sue vibrazioni quanto di più universale, dunque indefinito, esiste in natura: la sua energia segreta.” scrive alla fine della sua vita.

E quei colori accesi e completare sono stati il momento dii passaggio dal bianco e nero al colore di Alex Webb, che proprio in un'altra terra, ad Haiti nel 1975, scoprì un nuovo modo di fotografare:

“Tre anni dopo il mio primo viaggio a Haiti, ho capito che c'era un altro aspetto emotivo di cui dovevo tener conto: il colore intenso e vibrante di quei mondi.
Ho capito che il colore va oltre il colore stesso. Il colore è emozione. Se il bianco e il nero vengono dal cuore e dalla testa, “il colore viene dallo stomaco”, come ha detto una volta il fotografo belga Harry Gruyaert. È più sensuale del bianco e nero. Un rosso può essere rassicurante, oppure minaccioso, a seconda della sensibilità, delle esperienze o della provenienza di chi lo guarda.”

 

Alex Webb“Gouyave”, Grenada (1979)

Se Gauguin è il colore e l'esotismo, Caravaggio è la luce. Con Michelangelo Merisi, detto Caravaggio, si torna indietro nel tempo, alla fine del 1500, in Italia. Pittore maledetto dalla vita disordinata e violenta, che utilizzava le prostitute come modelle per raffigurare la Madonna, che ritraeva il proprio volto nelle teste decapitate quasi a prevedere la sua morte violenta, a causa di una febbre maligna e dopo essere stato accoltellato e bastonato a sangue per una lite.

Ma è grazie a lui che il mondo dell'arte conobbe un nuovo modo di concepire la luce: tragica, teatrale, come una spada che incide i corpi e le cose nell'oscurità delle tenebre, a cui ogni fotografo riconoscerà per sempre rispetto e tributo.

 

CaravaggioCena in Emmaus” (1606)

SalgadoOspedale di Abéché”, Chad (1985)

Con Caravaggio, Johannes Vermeer è uno dei pittori che amo più intensamente. Del pittore nato ad Anversa nel 1632 rimangono solamente 35 lavori, ma la sua meticolosità nei dettagli, lo splendore dell'uso della luce e la narrazione nelle sue tele lo hanno reso immortale ed una fonte di ispirazione per moltissimi artisti.

È lo stesso Steve McCurry, nel documentario “Vermeer, l'occhio del pittore”, a raccontare come il famoso ritratto della “Ragazza con l'orecchino di perla” sia stato la maggiore ispirazione per la sua fotografia più conosciuta, quella della profuga afghana Sharbat Gula, divenuta icona a livello mondiale come copertina del National Geographic del 1985.

L'inclinazione del capo, la luce, lo sguardo colmo di emozioni della giovane ragazza ricordano a McCurry, immediatamente, il dipinto di Vermeer. Quella fotografia fu un omaggio alla sua pittura. 


Vermeer“Ragazza con l'orecchino di perla” (ca. 1665-1667)

 
Steve McCurry“La bambina afghana” (1984)

Dagli interni olandesi di Vermeer ci spostiamo nella Belle Époque parigina di fine Ottocento con Toulose-Lautrec.

Un'altra esistenza votata all'eccesso quella del pittore affetto da nanismo, alcolizzato, malato di sifilide, che iniziò a disegnare a quattro anni e che fu il cantore del Moulin Rouge, dei balli sfrenati, dell'alcool e del sesso dei sobborghi parigini. Con uno stile unico e riconoscibile fu tra gli antesignani della grafica pubblicitaria, realizzando le locandine degli spettacoli del famoso locale di Parigi, ironico e pieno di vita, trova nelle parole di Giorgio Caproni un ritratto perfetto:

“Lautrec non ci pensava nemmeno a voler cambiare il mondo, e per questo forse ha così sensibilmente contribuito aa modificarlo. Bello o brutto che fosse, buono o cattivo, reo o innocente, a lui interessava una cosa sola: non perdere la bella occasione offertagli con la nascita, e guardarlo, vederlo, scoprirne il segreto.”

Queste parole, lo stile di vita e le atmosfere dei suoi lavori non possono non far venire in mente il famoso “Café Lehmitz”, il libro del 1978 del fotografo svedese Anders Petersen. Il giovane fotografo, trasferitosi ad Amburgo nel 1967, viene a conoscenza di questo locale dove si ritrovano gli abitanti del quartiere popolare: prostitute, poveracci, emarginati.

Lui ci vive dentro per tre anni, fotografandone ogni momento, senza il minimo giudizio morale ma essendo parte di quella stessa famiglia.

Diventerà uno dei libri di fotografia più celebri ed ammirati al mondo.

 

Toulose-Lautrec. “Marcelle Lender dancing in the Bolero in Chilperic” (1895)

Anders Petersen“Kleinchen with Dock Worker” (1968)

Per ora mi fermo qui, ma continuerà... 

 

Su Vermeer e Steve McCurry:

 


Salvador Dalì in “Arte Fantastica” (Taschen, 2005)
“Gauguin” (L'Unità – Elemond Arte, 1992)
“Caravaggio” (Electa, 1993)
“Vermeer” by Norbert Schneider (Taschen, 2016)
“Toulouse-Lautrec” (L'Unità – Elemond Arte, 1992)

 

Henri Cartier-Bresson: “L'Esposizione \ The Exhibition” (Contrasto | Centre Pompidou, 2015)
“Fotografia del XX Secolo” (Taschen, 2008)
Bernatzik: “Southeast Asia” (5 Continents Editions, 2003)
Alex Webb \ Rebecca Norris Webb: “Street Photography e Immagine Poetica” (Postcart \ Aperture, 2014)
Sebastiao Salgado: “Per la liberà di stampa” (EGA, 1996)
“Steve McCurry” (National Geographic, 2010)
“Anders Petersen”(Bokforlaget Max Strom, 2013)

 

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