Una poesia per Dilla – Seconda Parte




Si misero in viaggio al mattino presto di sabato, con due minivan neri. Ognuno aveva tre file di sedili: Dilla era nella fila centrale con Alexander, nei sedili posteriori la sua truccatrice, l'acconciatrice ed un'altra assistente.

Nell'altro minivan c'era la crew di Vogue, con i fotografi e gli addetti agli abiti.

Dilla indossava una tuta da ginnastica di un grigio chiaro e le cerniere nere, i soliti occhiali scuri e aveva tolto le sneakers, le immancabili cuffiette nelle orecchie. Alexander in abiti neri era incollato al suo smartphone, chattando e sghignazzando da solo di tanto in tanto.

Garut distava da Giacarta 200 km, ci vollero circa tre ore. Il cielo era terso e già faceva caldo.

Giunsero a Garut verso le 12, in una villa affittata per la giornata come punto di appoggio.

Mentre il gruppo di collaboratori scaricava le valigie con gli abiti e le attrezzature fotografiche, Dilla, dopo aver indossato le scarpe, entrò nella residenza ben arredata dalle colonne color crema e camminò verso il terrazzo esterno.

Si tolse gli occhiali scuri e rimase a contemplare la distesa verde smeraldo delle risaie.

Quella tonalità di verde, una volta vista, non si dimentica per tutta la vita.

Santi, una delle sue assistenti, la raggiunse.

“Dilla, dobbiamo sistemare i capelli ed il trucco, così iniziamo.”

Lei smise di giocare con la cerniera della felpa, si tolse i capelli dal viso e annuì, seguendola all'interno.

Nella grande sala c'era un brulichio di persone intente a preparare le macchine fotografiche, mentre un uomo spingeva un appendiabiti a rotelle con appesi abiti di diversi colori.

Nel frattempo che Dilla era seduta davanti allo specchio con le lampadine bianche ai lati, lasciandosi truccare, Alexander in piedi, di lato, la guardava riflessa nello specchio.

“Allora, amore, inizieremo dalle risaie, poi cambio d'abito, in una location non troppo distante dal kampung, e per concludere al mercato.

Vogliono ricreare una scena di vita quotidiana, con la gente del luogo.

Non oso immaginare le loro facce quando ti vedranno arrivare!”

Esclamò sorridendo e battendosi la mano sul petto che si intravedeva dalla camicia nera sbottonata in alto.

Dilla ascoltava senza battere ciglio, immobile, mentre la sua pelle bianca iniziava a colorarsi di polvere cristallina dalle sfumature delicate.

Un'altra ragazza le pettinava con cura i lunghi capelli.

Quando fu pronta le portarono il primo abito bianco ed uno rosso.


 



Terminarono le prime due sessioni velocemente che era già ora di pranzo.

Mentre gli altri mangiavano con appetito il riso e il pollo fritto che avevano ordinato, seduti sul pavimento tra macchine fotografiche, pannelli riflettenti, abiti, scatole e cataloghi, lei mangiò solo della frutta, con cura, attenta a non danneggiare troppo il fondo di trucco.

Era giunto il momento di andare al mercato.

Dilla indossò un abito bianco e pesca; guardava fuori dal finestrino mentre i due minivan si avvicinavano al mercato. Anche se i vetri erano oscurati, le persone ai bordi della strada cercavano di guardare chi ci fosse all'interno.

Quando scese dal veicolo si era già radunata una discreta folla di persone, si sentivano soprattutto le voci dei bambini entusiasti.

Sembrava di essere su di un set cinematografico.

Era quasi surreale vedere Dilla, in tutta la sua bellezza, come una dea, muoversi tra i banchi della frutta e ortaggi, posare con le donne del mercato dai vestiti logorati dal lavoro e dal sole. Tutto intorno al piazzale in terra, usato come location, si era formato un budello di folla, pressati gli uni con gli altri, che ammirava la modella con l'entusiasmo di un giorno di festa.

Dopo un'ora i fotografi fecero segno che era sufficiente.

All'improvviso tutti batterono le mani e urlavano di gioia.

Dilla tirò un sospiro a rilasciare la stanchezza, mentre tornava in sé dopo la trance del rigore professionale.

Iniziò a guardare tutta quella gente accalcatasi per lei che la salutava e le sorrideva entusiasta.

Lei era la solita maschera distaccata.

Le due assistenti si affrettarono a portarle gli occhiali scuri e le sneakers bianche.

Camminò scortata da loro e da Alexander che salutava gioioso le persone, anzi, ogni tanto si fermava e si lasciava scattare un selfie con loro, come se fosse lui la celebrità.

 


 

Camminando vicino alla folla, Dilla notò un uomo che la guardava con un sorriso calmo. Si fermò di colpo, lo guardò. Era Arif, suo fratello.

“Ciao, Dilla.”

La modella avvertì un brivido correre lungo la schiena. Si allontanò dalle due ragazze e andò verso di lui. “Arif...? Sei venuto anche tu?”

“Beh, ne parlava l'intero kampung. Come non potevo non venire a vederti. Sei bellissima.”

Lei fece scivolare lo sguardo di lato. 

“Senti, lo so che sei impegnatissima. Però, non ci vediamo da molti anni, lo sai che la mia casa è qui vicino. Se vuoi possiamo andare un attimo. Giusto un saluto,” disse lui senza troppa convinzione.

Alexander le si avvicinò, le mise una mano sulla spalla. “Qualche problema, Dilla?” chiese con voce seria mentre guardava il viso dell'uomo.

Lei ebbe un sussulto. Si voltò verso il suo agente, “No, no. Lui è Arif, mio fratello. Vive qui con la famiglia. Mi ha invitato un momento a casa sua...”

Alexander la guardò negli occhi in modo paterno, “Vuoi andare?”

Arif stava già per scusarsi della proposta, quando Dilla lo guardò, “Va bene, solo un attimo. Ma devo passare prima a cambiarmi.”

Arif ne fu sorpreso.

“D'accordo, tu vai, io prendo la macchina e vi seguo. Ti aspetto là.”

Dilla salì sul minivan e si misero di nuovo in movimento verso la villa.

“Sei sicura? Non possiamo fermarci a lungo, dobbiamo essere a Giacarta prima di sera. Lo sai il traffico gila* che troveremo al ritorno!?” Le disse Alexander senza il suo solito tono acuto, con la mano che le accarezzava il braccio.

“Si, lo so. Solo un attimo. Non lo vedo da anni,” rispose Dilla mentre guardava la fila di case al bordo della strada.

Nessuno conosceva il suo passato, la sua famiglia, la sua infanzia. Non raccontava mai niente, anche nelle interviste.

Viveva in un eterno presente e il futuro erano gli impegni di lavoro che si accumulavano come pagine su un'agenda.

Il mattino chiudeva per sempre il giorno che si era concluso alle sua spalle. Ogni volta accadeva questo nella sua vita, da anni.

 

Si cambiò velocemente, chiese a Santi di struccarla al volo e uscì nella sua tuta grigia da ginnastica.

Arif l'attendeva in macchina davanti l'entrata della villa.

Mentre procedevano verso la casa non parlarono molto.

“Come stai?” Provò a chiedere lui.

“Tutto a meraviglia, grazie,” rispose in modo distaccato, iniziando a pentirsi di aver accettato l'invito.

Parcheggiarono davanti una casetta piccola, stretta tra altre uguali ma ognuna dal colore delle mura diverso.

Lei si alzò il cappuccio della felpa, scendendo, per non farsi riconoscere.

“Scusami, la casa è piccolina,” disse il fratello con imbarazzo.

“Non fa niente...” Disse lei calcando ancora di più il cappuccio e camminando rapida al suo fianco verso la porta.

Entrarono nell'abitazione in penombra, con il televisore per terra con due bambini seduti sul tappeto a guardare i cartoni animati. Su di una mensola c'erano macchine per cucire e un bollitore per il riso.

Assalamualaykum, Teteh,” disse la moglie del fratello, sorridente ma in evidente imbarazzo, mentre le porgeva la punta delle dita con le mani giunte per il saluto.

Wa'alaykumsalam,” rispose Dilla mentre si guardava intorno: era sufficiente ruotare la testa di 180° per contemplare tutta la stanza.

Esti, la moglie, si strinse le mani nervosamente e abbassò lo sguardo.

“Scusaci per la casa, non sapevo che saresti venuta, avrei almeno dato una sistemata”, diceva mentre cercava di nascondere con il piede, in modo convulso, alcuni abiti e biancheria dei bambini sul tappeto.

“Salutate la zia!”, rimproverò i figli, cercando di stornare la sua attenzione da ciò che stava facendo.

Dilla rassicurò la cognata, “Non ti preoccupare, rimango pochi minuti.”

“Eh? Mangia qualcosa, siediti, per favore, ti porto del riso? Della frutta?”

Esti era sempre più agitata e si muoveva da una parte all'altra della piccola stanza, come una falena dentro un barattolo di vetro, cercando di vedere cosa fosse fuori posto e fonte d'imbarazzo.

Arif la calmò, Sayang, tranquilla, prendi della frutta. Vai...”

Esti annuì in modo convinto e corse in cucina.

Arif fece segno alla sorella di sedersi. Lui fece lo stesso, su una sedia di plastica.

“Ne è trascorso di tempo...” Disse con il suo tono pacato.

Dilla annuì, intanto che Esti tornava dalla cucina con un piatto largo con sopra del mango e papaya tagliati a fette; poi andò a sedersi sul tappeto vicino ai bambini, con l'agitazione che ormai aveva lasciato spazio al piacere di vedere suo fratello con lei, dopo così lungo tempo.




Dilla li osservava nella penombra illuminati dallo schermo della televisione e dalla lama di luce polverosa che entrava dalla finestra in alto, come in un dipinto di Vermeer.

Esti la guardò dal basso, Teteh, hai figli?”

Dilla scosse la testa, “No.…”

Esti si sentì in colpa e abbassò lo sguardo mentre accarezzava i capelli del figlio seduto accanto a lei.

“Sono belli...” Aggiunse la modella, con voce profonda.

Esti le sorrise imbarazzata, “Grazie, Teh.”

Dilla trasalì avvertendo la mano del fratello che le accarezzava il ginocchio. 

“Vuoi andare al cimitero? È qui vicino, poi ti accompagno alla villa.”

Lei lo fissò con le labbra dischiuse, pallida, incapace di dire una singola parola.

“Ci vuole un attimo, credimi. Già che sei qui...,” disse Arif alzandosi in piedi, sorridente e placido come un lago.

Esti fissava lo schermo del televisore come se non volesse disturbare questo momento tra di loro.

Dilla sospirò: “Va bene, un attimo...,” mentre si alzava in piedi.

“Aspetta. Vengo subito,” disse lui mentre entrava in una piccola porta in legno laterale.

Esti anche era in piedi, ma sempre con lo sguardo in basso.

“Torna quando vuoi, a noi fa piacere...,” disse mentre si sfregava le mani.

“Va bene,” rispose Dilla senza convinzione.

Poi vide suo fratello tornare con una piccola borsa in batik a tracolla.

Ayo, salutate la zia!” esclamò Esti ai figli, sorridendo. I due bambini si alzarono di corsa e uno dopo l'altro le presero la mano destra e la toccarono con la fronte, per tornare a sedersi davanti ai cartoni animati.

Dilla abbozzò un sorriso poi abbracciò Esti e seguì il fratello in macchina.

 

Mentre lui guidava guardava la borsa in batik. 

Uscirono di poco dalla città, dove la terra era rossa. Si fermarono di lato al piccolo cimitero che riposava sul pendio di una collinetta.

Camminarono tra le tombe in pietra, nella terra brulla.

Arif si fermò presso una tomba con la pietra bianca e l'erba che ci cresceva sopra.

Si accovacciò di fianco mentre con la mano cercava di scansare gli arbusti per scoprire il nome.

“Mamma...,” disse lui, poi indicò la tomba a fianco: “Papà.”

Dilla si accovacciò come lui, dalla parte opposta, tra le due tombe, osservando la pietra.

Con la mano dalle dita affusolate e bianche accarezzò la pietra ruvida, togliendo qualche arbusto secco.

“Non ci vengo spesso,” disse lui sorridendo.

La sorella non riusciva a sorridere; anzi, il sangue iniziava a pulsare nelle tempie. “Io non ci sono mai venuta...,” rispose.

“Però adesso sei qui,” disse lui cercando di guardarla negli occhi, proprio davanti a lei, ma Dilla fissava solamente la pietra, quasi a toccare con gli occhi le lettere incise del nome. Naning.

Poi si voltò verso quella del padre, accarezzò la pietra cercando di togliere la terra dalla superficie – le sue dita erano ormai sporche.

Poi si diede una spinta sulle ginocchia e si alzò. “Va bene, andiamo, è tardi,” affermò con la voce controllata.

Arif balzò in piedi, annuì e iniziò a camminare verso l'uscita. Mentre stavano andando Dilla si fermò a guardare una giovane madre con due bambini versare dell'acqua su una tomba. Iniziavano a bruciarle gli occhi.

Si volse e camminò più rapidamente verso la macchina.

 



Appena chiuse lo sportello Dilla si sgonfiò in un lungo sospiro.

Il fratello stringeva la borsa di batik tra le mani, sulle gambe.

“Lo sai, abbiamo impiegato alcuni giorni a trovare i corpi di mamma e papà...,” iniziò a parlare ma Dilla lo fermò subito.

“Per favore!” Quasi a pregarlo di non continuare.

“...il fango aveva distrutto tutto, erano rimaste in piedi appena le mura della casa. Dopo aver ritrovato i corpi a valle, ho iniziato a cercare in casa, per recuperare il più possibile. Ma niente, il fango aveva divorato ogni cosa. Solamente questo sono riuscito a prendere,” disse lui mentre accarezzava il tessuto batik.

Dilla guardava più la sacca che il fratello.

Poi estrasse un libro muffito e consumato dal fango e dall'acqua.

Lo consegnò a lei. Le sue dita erano già imbrunite dalla terra, lo guardò attentamente, mentre con un'unghia scrostava il fango secco dal nome. Era un libro di poesie di Wiji Thukul, “The Grassroot Songs”

“Ti ricordi, era il preferito di mamma. Lei non era riuscita a terminare la scuola, iniziò a lavorare presto nei campi, però amava leggere queste poesie. Quante volte ce le avrà lette?” affermò lui sorridendo.

Dilla aveva gli occhi calamitati sul libro; provò ad aprire le pagine, molte erano state strappate, di altre non si leggeva una riga, alcune erano state graziate dall'umidità ma solo in alcuni versi.

Lei tornò a guardare il fratello. “Perché lo dai a me? Tienilo tu.”

Disse mentre gli restituiva il libro. Lui la bloccò con la mano, spingendo il libro verso di lei.

“No, questo libro è per te. Mamma avrebbe voluto che lo tenessi tu.”

“Ma dai! Non è vero!” esclamò Dilla con voce dura, gli occhi rossi. “Se non sono neanche venuta ai funerali! Mai una telefonata! Niente di niente! Tu sei stato con loro fino alla fine!” Urlava con rabbia.

Arif la guardò mentre le accarezzava i capelli.

“Tu sei sempre stata l'orgoglio di nostra madre. Tu non lo sai. Quando sei andata via da Garut, per iniziare la carriera di modella a Giacarta, mamma non faceva che ripetere a tutti che saresti diventata la numero uno di Indonesia. È vero, non chiamavi mai e non tornavi neanche alle feste di Eid, però mamma ti difendeva sempre. È impegnata lei! Sta sfilando mica bighellona in giro come tante ragazze di qua! Diceva a papà che storceva il muso quando, durante Eid, fissava la tua sedia vuota. Poi papà si ammalò, tu ancora studiavi all'accademia di moda, sapeva che Giacarta era cara, dovevi pagarti l'affitto e la retta dell'accademia. Nostro padre era disperato. Come faremo adesso? Io non riesco più a lavorare nei campi. Dilla deve tornare a casa ed aiutarci. Ma nostra madre lo rimproverava, diceva che era un vecchio brontolone e mai avrebbe impedito a te di realizzare i tuoi sogni; perciò andò a lavorare al mercato la mattina e cuciva il pomeriggio per i vicini di casa. Una delle macchine da cucire che hai visto a casa nostra l'ha regalata lei a mia moglie.”

Dilla stringeva il libro in modo sempre più forte, mentre lo ascoltava.

“Poi sono arrivati i tuoi primi successi. Ogni volta che il tuo volto era su una rivista lei arrivava al mercato e passava di banco in banco a farla vedere. Se poi non riusciva a trovare qui le riviste, chiedeva a chi andava a Giacarta di comprarle per lei. A casa aveva una pila di riviste di moda e quotidiani dove si parlava di te.

Per questo è giusto che abbia tu il libro. Era la cosa che amava di più mamma, un ricordo di suo padre. Era ignorante ma diceva sempre che il vero spirito del popolo indonesiano era in questi versi. E che leggere questi versi rendeva più dolce le asperità della vita.

Poi tu sai quale era la sua preferita,” disse lui mentre indicava il libro.

Lei sfogliò di nuovo le pagine secche e ruvide e ne vide una con un segno all'angolo della pagina. Era l'unica di cui era ancora possibile leggere il testo tra le macchie di umidità e fango.

Dilla sentì improvvisamente risalire come un magma incandescente dal suo abisso, fino agli occhi che ardevano neanche le avessero spinto dentro dei tizzoni infuocati. Esplose in un pianto che le squassò il petto. Dilaniante.

Arif le prese il capo da dietro e premette il suo viso sul petto.

“Piangi...,” disse lui mentre con l'altra mano le accarezzava la schiena.

Dilla non riuscì a smettere di piangere per quasi venti minuti, singhiozzando e tremando. L'intero suo corpo era sconquassato da un'alluvione che portò via tutti i detriti accumulati negli anni. Adesso vedeva – finalmente – quei frantumi del suo cuore che galleggiavano tra le rapide dell'acqua, che dal profondo traboccavano dagli occhi.

Scansò il viso, mentre con una mano provava ad asciugarsi le guance. Poi vide la maglia del fratello completamente zuppa di lacrime ed entrambi esplosero in una risata.

Lui estrasse dai pantaloni un pacchetto di Sampoerna rosse e lo aprì verso di lei.

Erano le 4.30 di pomeriggio, ma lei ne prese una.

Accesero la sigaretta e rimasero in silenzio, appoggiati ai sedili, gustando l'aroma dolciastro del fumo.

Terminato di fumare, lui avviò la macchina.

“Andiamo,” lei stringeva il libro sul petto con entrambe la mani.

Arrivarono davanti la villa che stavano già caricando tutto nei minivan.

Alexander uscito sulle scale si sbracciava facendo segno con l'orologio.

Dilla e Arif si guardarono e risero.

Lui le diede un bacio sulla guancia e le accarezzò il viso.

“Sei ancora più bella quando ridi. Torna quando vuoi, ma fammelo sapere prima sennò a mia moglie prende un infarto. Deve sistemare il castello.”

Lei sorrise ancora. Lo guardò dritto negli occhi e mostrò la borsa di batik. “Grazie... Di tutto. Verrò un giorno.”

Disse Dilla mentre scendeva dalla macchina.

Vide la macchina del fratello scomparire dietro le case e corse dentro con il volto abbassato per non far vedere gli occhi rossi.

Al ritorno non si tolse mai gli occhiali scuri, con le cuffiette alle orecchie e la borsa di batik stretta al petto, i piedi sul bordi del sedile.

Alexander la scrutava di tanto in tanto, “Tutto bene?”

“Tutto a meraviglia,” rispose lei.

 

La lasciarono al suo appartamento che erano già le otto di sera.

Hamzina le aveva preparato la solita cena leggera fatta di verdura e frutta.

Mentre la domestica sparecchiava la tavola, Dilla seduta sul sofà le disse.

“Ibu, da quanto tempo tua figlia non viene a trovarti?”

“Un mese, Ibu,” rispose Hamzina mentre riponeva i piatti e il bicchiere su una vassoio argentato per portarlo in cucina.

“Dille di venire il prossimo fine settimana, falla stare anche una settimana se vuoi, non vi vedete mai, di sicuro tu le manchi tanto.”

Hamzina la guardò senza sapere che dire.

“Boleh, Bu?” Le chiese se veramente poteva, stupita.

“Boleh...,” rispose Dilla sorridendo.

“Terima kasih banyak, ibu! Terima kasih!” La ringraziò sentitamente mentre si baciava le punta delle dita.

 

Dilla rimase sola. Per questa sera niente ginnastica, le fu sufficiente un lungo bagno.

Tornò in sala e si mise a cercare tra i CD. Prese un vecchio CD di Nining Meida, e lo mise nello stereo. Non ricordava quando era stata l'ultima volta che aveva ascoltato le canzoni della sua regione. La voce era diversa, non profonda e calda come la sua Nina Simone, ma la malinconia era la stessa.

Prese la borsa di batik e tirò fuori il libro sporco. Si sedette sul sofà bianco e aprì la pagina segnata. Era incredibile come il fango avesse risparmiato quelle due paginette – alcune parole erano svanite per l'umidità ma lei le ricordava a memoria.

Iniziò a leggere a voce alta, ma nella sua testa le parole sembravano uscire dalla bocca di sua madre.


“poesia per mamma”

mamma mi ha cacciato di casa una volta
ma ha pianto quando è diventato difficile per me
non riusciva a riposare
quando il mio fratellino giaceva sveglio affamato
lei era furiosa
se prendevamo una porzione di cibo
che non fosse la nostra
mamma ci ha insegnato la giustizia
con amore e affetto
determinazione pura
verdure a buon mercato le ha rese
di un gusto delizioso
mamma piangeva quando le cose erano difficili per me
piangeva quando io ero felice
ha pianto quando il mio fratellino ha rubato una bicicletta
lei ha pianto quando è uscito di prigione

quello di mamma è un cuore disposto a soffrire
i continui tormenti portati dai suoi figli
sempre pronto a scusare e perdonare
nel suo amore e affetto
è la luce splendente del mistero di Dio
che smuove il cuore umano
per la sua bontà
mamma mi ha mostrato dio.” *

solo, 86

 

Dilla chiuse il libro, mentre Nining Meida cantava “Kalangkang” (Ombra). Si alzò e andò a riporre il libro sporco di fango sulla mensola in smalto bianco.

Prese una sigaretta dal pacchetto di Sampoerna sul tavolo in vetro e aprì la vetrata. Uscì sul terrazzo e accese aspirando intensamente.

Ripensò alle parole del fratello e sorrise.

Sotto di lei la vita arrancava tra luci, clacson e traffico sempre identica, notte dopo notte.

Era la vita di Dilla che non sarebbe stata più la stessa di prima.



*Gila, pazzo.

P.S. Le fotografie sono scattate a Garut il 20 settembre del 2016, la notte stessa la pioggia incessante ha prodotto l'alluvione che ha ucciso 16 persone e distrutto gli stessi luoghi che avevo fotografato il giorno prima. Delle due modelle, una tornò con noi a Giacarta ma un'altra rimase la notte là e visse tutto il dramma. Io ne fui scioccato per lungo tempo. In questa storia di fantasia c'è il mio ricordo sincero per il dolore di quei giorni.




“mum's poem”

mum kicked me out of home once
but cried when it got hard for me
she couldn't rest
when my little brother lay awake hungry
she'd be furious
if we grabbed a portion of food
that wasn't ours
mum taught us justice
with love and affection
sheer determination
made cheap vegetables
taste delicious
mum cried when things were hard for me
she cried when i was happy
she cried when my little brother stole a bike
she cried when he got out of jail

mum's is a heart willing to suffer
the continual torments brought by her children
always ready to pardon and forgive
in her love and affection
is the shining light of god's mystery
that stirs the human heart
through her goodness
mum has shown me god.”

solo, 86

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