Una Poesia per Dilla – Prima Parte

 

 

Dilla era una delle Top Model più pagate in Indonesia.

Aveva appena terminato una sessione fotografica in uno studio a Menteng: domani il suo volto sarebbe stato sulla copertina della rivista “Femina”, come donna dell'anno – era la quarta volta che accadeva.

Poteva avere anche tre sfilate in una settimana, molto spesso oltre i confini della sua terra.

Era come una macchina fredda e precisa come un orologio; la sua professionalità era indiscussa e, a volte, incuteva soggezione in chi lavorava insieme a lei.

C'è che vociferava che lei non provasse alcuna emozione.

Aveva rinunciato anche ad avere una famiglia.

Tutto il suo mondo girava solamente intorno al lavoro.

 

Fu sufficiente un'ora in studio al fotografo per avere gli scatti giusti, e solo lei poteva scegliere le foto che sarebbero andate in copertina. Gli stessi editori delle riviste non si azzardavano ad obiettare, perché la sua immagine vendeva migliaia di copie, e perché, in effetti, non sbagliava mai le sue scelte.

Uscita dallo studio, con i suoi occhiali scuri che le coprivano metà del viso, i capelli lunghissimi e lisci, e le sneaker bianche per far riposare i piedi, Dilla salì sul retro dell'automobile scura che l'attendeva davanti l'edificio, mentre tre uomini in giacca tenevano lontane le persone che erano in attesa, curiose di vederla per un'istante.

A chi la chiamava per nome o pregava per un autografo o un selfie, lei non degnava neanche di un cenno o mezzo sguardo, le cuffiette nelle orecchie con la musica ad alto volume, entrò e chiuse subito la portiera dell'auto.

Nel frattempo che l'autista combatteva con il traffico di Giacarta, lei controllava le sue unghie perfettamente curate e colorate di un viola sfumato verso il blu.

Il suo appartamento non era troppo distante ma con il traffico del pomeriggio ci sarebbe comunque voluto un'ora.

Nei giorni successivi aveva una sfilata a Bali, due interviste in televisione e altri servizi fotografici.

Il suo telefono raramente squillava. Arrivavano solamente messaggi per appuntamenti di lavoro che il suo agente, Alexander, annotava e poi mandava a lei per la conferma.

A casa l'attendevano 45 minuti di palestra, un lungo bagno caldo, la cena e – come ogni giorno – il suo letto, alle 21.30 in punto.



Il traffico divorava ore di vita in quella città, pensava Dilla guardando dal finestrino oscurato di lato, i ragazzi e gli uomini senza età dal volto rigato camminare tra la fila di macchine ferme con giornali, bibite in buste di plastica e cannuccia o giocattoli surreali che nessuno mai comprerà.

Entrò nell'ascensore che era ormai tardo pomeriggio.

“Assalamualaykum, Ibu*,” la accolse Hamzina, la sua domestica da oltre quasi dieci anni, prendendo il suo scialle lungo e le scarpe che aveva tolto sul ciglio della porta di casa.

Hamzina era una piccola donnina di 46 anni, proveniente da Surabaya, parlava molto poco, era silenziosa ed una grande lavoratrice. Era perfetta per Dilla.

Il suo appartamento al 18° piano di uno dei grattacieli del centro era grande, con due aree, una in cui dormiva Hamzina, con la cucina e altre due stanze che spesso erano usate dalla domestica per ospitare la figlia che veniva a trovarla, ed un'altra area in cui abitava Dilla, con una larga sala e terrazzo, altre due stanze vuote, una palestra e la sua camera con due bagni.

Tutto era essenziale e bianco, assolutamente bianco.

Sulle pareti o le mensole c'era giusto qualche sua fotografia, di famosi fotografi, o copertine di riviste con il suo volto. Al centro della sala c'era un suo ritratto dipinto in stile balinese.

Pochissimi libri, molte riviste di moda, qualche premio e alcune figure di Wayang* sul tavolo ovale al centro della sala. Niente tappeti, lei amava sentire il contatto del pavimento sotto i piedi nudi.

Terminato il ciclo di palestra, con cyclette, tapis roulant, e diversi esercizi per scaricare la tensione, andò a fare il suo bagno caldo nella grande vasca bianca circolare. Lasciava immergere completamente il corpo lasciando fuori solo il naso e gli occhi, galleggiando in bolle bianche di sapone al gusto di lavanda.

Avvolse il corpo sottile dalla pelle di seta in una veste leggera, legò i capelli dietro e andò a mangiare la cena preparata da Hamzina: riso, uova, cetrioli, pomodori tagliati fini e sambal, la salsa piccante che non manca mai nei piatti in Indonesia – voleva una cena non troppo pesante, sia per una questione di dieta sia perché sarebbe andata presto a dormire.

“Terima kasih, Bu”, Dilla ringraziò Hamzina che stava sgombrando il tavolo dai piatti e il bicchiere.

Attese che la domestica tornò definitivamente nel suo regno e andò verso l'impianto hi-fi, unico segno nero nel bianco candore della sala.

Mise su un CD di Nina Simone e alzò leggermente il volume, poi andò a prendere una sigaretta Sampurna dal pacchetto sul tavolo basso in vetro vicino al sofà: questo era l'unico vizio che si concedeva, una sola sigaretta ogni sera prima di andare a dormire.

L'accese e tirò forte per aspirare l'aroma dolce. Adorava la voce di Nina Simone, calda, profonda e dolente, soprattutto quando cantava gli standard blues, “Do I move you?” era la sua preferita, con “Ain't got no, I got life”.

Dilla andò verso la grande vetrata e uscì sul terrazzo.

Fumò guardando Giacarta, nella notte, estendersi all'infinito. Più che la skyline dei grattacieli si perdeva nelle centinaia di piccoli luci rosse delle automobili nel traffico. I suoni non arrivavano fino a quell'altezza, sembrava di essere come sulla cima dei monti dell'Himalaya.

I lunghi capelli sottili le accarezzavano le guance.

Tornò dentro, chiuse la vetrata, spense la sigaretta nel posacenere d'argento a forma di tartaruga e anche lo stereo.

Alle 21.30 si sdraiò sul letto a due piazze e chiuse gli occhi.

 


La mattina dopo arrivò presto il suo agente Alexander.

Dilla stava ancora facendo colazione. Alexander era il suo fidato agente e forse l'unico amico che aveva, un bellissimo ragazzo gay di Solo, estroverso e sorridente che amava vestire di nero e assolutamente professionale.

Baciò Dilla sulle guance e si sedette sul sofà bianco mentre lei finiva il caffè.

“Allora, cara Dilla, c'è stato un cambio di programma!”

Disse lui dondolando il piede destro con la gamba accavallata.

Queste poche parole già avevano disturbato il risveglio di Dilla.

Lei lo guardò con occhi severi.

“Abbiamo dovuto posticipare la sfilata a Bali di sabato, perché ti è stato commissionato un servizio fotografico molto importante, per Vogue!”

Disse Alexander mentre si guardava le unghie lucide delle mani in modo distratto, ma era il suo tentativo di evitare lo sguardo contrariato di lei.

Dilla lo fissava intensamente in attesa che si spiegasse meglio.

Lui le rispose in tono più serio.

“Dobbiamo andare a Garut.”

Lei non riuscì ad impedire ai muscoli sulle sopracciglia di irrigidirsi.

“Garut?” Ripeté con voce bassa.

“Si, si, Garut! Vogliono realizzare una sessione nel mercato e nelle risaie di là. È un bel luogo no?”, esclamò con la voce in una tonalità più alta.

“Guarda che io ci sono nata a Garut... La conosco bene”, rispose seccata Dilla.

“Non capisco che ha di speciale qual posto... Tutto qui”, continuò lei nervosamente mentre si accarezzava i lunghi capelli, con entrambi i piedi sulla sedia.

Alexander la guardò con occhi spalancati e le braccia aperte.

“È Vogue, cara! Vogue! Ma che ti importa? Ci mandassero pure a Papua! Vogueeee!”

“Ya, ya. Fosse la prima volta che loro pubblicano le mie fotografie...”

Disse Dilla, alzandosi, recuperando la sua compostezza e il tono di voce distaccato.

Il suo agente si alzò soddisfatto, si sistemò i capelli perfettamente acconciati gradandosi riflesso nel vetro di una fotografia sulla libreria vuota.

“Allora, domani alle 10.30 negli edifici di TransTV per l'intervista, pomeriggio dal parrucchiere e sabato mattina si parte alle 9 precise.”

Disse lui andando verso la porta, accompagnato da Hamzina, mentre lei annuiva in modo distratto.



Quella mattina era libera.

Hamzina chiese il permesso per andare a comprare della frutta al mercato.

“Silakan, ibu”, disse Dilla autorizzandola ad andare.

Rimase da sola nella casa bianca e spaziosa. Il sole entrava dall'ampia vetrata facendo splendere lo smalto bianco dell'arredamento.

Mise su un CD di Nina Simone e si sedette sul divano morbido, con una gamba sul bracciolo sinistro.

Garut.

Ancora ricordava bene quel 21 settembre del 2016.

Era a Singapore e il giorno dopo avrebbe dovuto sfilare, quando le vennero a dire ciò che era successo.

Tutta la notte ci fu un terribile alluvione, era martedì: il fiume Cimanuk tracimò a causa della pioggia incessante, allagando l'intero kampung* con quasi due metri di acqua e fango, distruggendo le case, con oltre centinaia di famiglie rimaste senza casa, dispersi e 16 vittime.

Tra cui suo padre e sua madre.

 



Il fratello Arif viveva già in un'altra parte con la sua famiglia.

La comunicazione non fu semplice e ci vollero dei giorni per capire bene chi fosse disperso o non ce l'aveva fatta.

Il giorno dopo sfilò come se nulla fosse accaduto, magnifica come sempre. Una farfalla sulla passerella.

Nessuna emozione trapelava dal suo volto, tutta la sua bellezza era votata a far risaltare quella degli abiti.

Da Singapore volò direttamente in Giappone.

Riuscì a parlare per telefono con il fratello che le confermò la morte dei genitori.

“Domani ci saranno i funerali...”, disse lui sommessamente.

“Sono in Giappone, mi dispiace. Ho una sfilata.”

Rispose Dilla e chiuse la telefonata.

Ricordò che sentì il suo cuore esplodere ma non riusciva a vedere dove fossero finiti i frantumi. Come se tutto cadesse in un vuoto oscuro, senza suoni o forme.

Anche in Giappone fu osannata per la sua bellezza e professionalità. Fu sulle copertine di tutte le riviste di moda in Giappone e Indonesia.

Da quel giorno non ebbe più nessun contatto con suo fratello, né tornò a Garut – quando lui telefonava Dilla non rispondeva, finché dopo alcuni mesi lui smise di chiamarla.

 

Quella sera fumò due sigarette sul terrazzo, prima di andare a dormire, con lo sguardo perso sulla luci delle strade di Giacarta, mentre Nina Simone cantava “I wish I knew how it would feel to be free.”

 


 

CONTINUA...



* Ibu, significa “madre” in lingua indonesiana, ma viene usato anche per chiamare le donne non sposate, come segno di rispetto.
* Wayang sono le tipiche figure della tradizione indonesiana.
* Kampung è come viene chiamato il villaggio.

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