Rome, April 2021 |
In questi giorni la mia attenzione è stata catturata da qualcosa che,
seppur in differenti ambiti e tipologie, mi ha portato a riflettere su di un
unico tema.
Tre variazioni sul volto e il suo legame con il vuoto, anche se è
estremamente ambiguo e fluttuante questo concetto.
Primo caso: “Il ladro di foto tombali”.
È notizia recente, nella cronaca di Roma, che è stato incriminato tale
Marco C., un ex elettricista di Portonaccio, una zona della città, per la sua
inquietante mania di rubare le immagini dalle tombe nei cimiteri.
Pare che la prima volta fu nel 1994, dove vide la fotografia di una
bella ragazza sulla lapide nel cimitero del Verano e la rubò.
Da allora non è stato più in grado di smettere, finché è stato
contestato all'uomo il furto di ben 358 immagini, tutte donne carine e morte
giovani.
Lo hanno chiamato il “necrofilo ruba-fotografie”.
“Ho iniziato nel 1994”, racconta l'uomo indagato, “prendendo, per
motivi che non so precisare, una foto da una lapide del Verano. In seguito al
primo furto ho sviluppato una vera e propria dipendenza. Non sono riuscito più
a fermarmi. Le più belle le tenevo esposte, con le cornici. Per me erano sacre.
Altre le nascondevo per non farne vedere troppe.”
Non solo le rubava, sradicandole dalle lapidi, ma comprava anche le
foto-ceramiche.
La sua camera da letto viene descritta come una sorta di camposanto;
inoltre annotava in un diario il giorno del furto e i dati delle donne decedute
nelle fotografie:
“5 maggio 2020, presa Licia P., morta nel 65 a trent'anni.”
Veramente inquietante.
Ovviamente a ogni cultore della fotografia, e chi ha già letto questo
mio blog, viene subito in mente l'aneddoto di Ferdinando Scianna sulle origini
dell'amore per la Fotografia. Quello del padre che fotografava le persone
defunte per le immagini delle lapidi, sicché la gente in paese lo prendeva in
giro dicendo che resuscitava i morti, e Ferdinando invece “ammazzava i vivi”.
Un buon psicologo andrebbe a nozze con una perversione macabra come
quella di questo Marco C.
Anche io ne sono rimasto incuriosito.
Solitamente “necrofilo” è riferito alla perversione per cui si prova
attrazione sessuale verso cadaveri di sesso opposto.
Ma in questo caso l'attrazione amorosa (philia) è più per
l'immagine.
Non oso addentrarmi in chissà quali labirinti e trascorsi emotivi di
una persona così, però da fotografo e ritrattista non posso che soffermarmi a
pensare a cosa è potuto scattare nella mente di questa persona malata.
Di certo avrà dei forti problemi a relazionarsi con l'altro sesso; non
credo sia sposato né tantomeno fidanzato.
Forse ha un radicale rapporto conflittuale, se non traumatico, con le
donne vive, perciò l'unico appagamento emotivo e affettivo lo ottiene da
immagini di donne che non ci sono più.
Quei volti che sono scomparsi sono per lui molto più reali delle donne
che incontra ogni giorno e magari ignora del tutto (e lo ignorano).
“Per me erano sacre”, afferma. Come le icone religiose.
Una devozione malata per la bellezza, la giovinezza, l'assenza.
Io non credo che l'accento sia sulla morte, anzi ritengo che la
definizione di necrofilo sia errata. È più una icono-filia.
È l'immagine (icona) del vuoto che lui ama.
La sacralità dell'assenza che è più viva dell'immagine reale e
quotidiana che lo circonda – e di certo lo ferisce.
Una tonalità oscura e perversa del potere che possono avere i ritratti
sulle menti delle persone.
Ricordo le tribù, ma anche molte persone animiste e musulmane che rifiutano
di essere fotografate proprio per il timore che la loro anima venga rapita
dalla macchina.
Solo Dio può riprodurre l'essere umano, noi non possiamo macchiarci di
tale superbia.
In tutto ciò cade l'abisso di questo uomo, in cui l'amore per il vuoto
della morte racchiuso in un volto sconosciuto riesce a colmare il vuoto della
sua anima.
Secondo caso: "il vuoto dietro i volti".
Mi è capitato di leggere di un sito web e una app chiamata “This PersonDoes Not Exist”, dove ogni click genera automaticamente un viso (e uno sfondo)
differente.
Nel febbraio 2019, l'ingegnere Uber Phillip Wang ha creato questo sito
web che, utilizzando StyleGAN, propone ai visitatori foto di persone che non
esistono. StyleGAN è un tipo di Rete generativa avversaria, generative
adversarial networks (GAN) sviluppata da NVIDIA e distribuita open-source
dal 4 febbraio 2019.
Come spiegano su Inverse, ogni singola foto sul sito è stata creata
utilizzando un particolare tipo di algoritmo di intelligenza artificiale, la suddetta
GAN.
“Ho deciso di dar fondo alle mie tasche e sensibilizzare l'opinione
pubblica su questa tecnologia”, ha scritto l'ideatore. “I volti sono i più
importanti per la nostra cognizione, quindi ho deciso di dare vita a quel
modello specifico pre-addestrato. Ogni volta che aggiorni il sito, la rete
genererà una nuova immagine facciale dal nulla da un vettore a 512 dimensioni.”
Il realismo di quei volti è impressionante.
Sembra di essere davanti ad una slot machine, stimolando quasi una
sorta di dipendenza compulsiva a vedere quale sarà il prossimo volto.
Mi sono chiesto a che pro.
Non è la stessa cosa sfogliare un qualsiasi libro fotografico di
ritratti?
Non è che i volti ritratti, per esempio da Steve McCurry, sappiamo chi
siano. Certo abbiamo la sicurezza che sono persone esistenti. C'è la
didascalia, il luogo, la data. L'esistenza certa di chi li ha fotografati.
L'intento del creatore del sito era mettere in guardia su tutto ciò di
falso che circola nel web. Attenzione – sembra dire – non solamente le notizie
possono essere false, ma anche le persone, i volti che vediamo, a centinaia,
ogni giorno sui social, sui siti d'informazione.
E lo ha fatto, non a caso, scegliendo i volti, perché il viso è da
sempre il simulacro delle nostre identità.
Dagli animisti citati sopra, alle teorie lombrosiane sulla correlazione
tra fisionomia facciale e carattere della persona.
Sembra un gioco. Un trastullo mentale di un genio dell'informatica.
Però è diventato un caso e altri programmi simili sono stati creati in
scia: due facoltà della Information School dell'Università di Washington hanno
utilizzato l'algoritmo per creare “Which Face is Real?”, che sfida gli utenti a
distinguere tra un volto vero e uno falso posti fianco a fianco.
Siamo arrivati al grado zero del volto umano. Non più il simulacro
delle nostre identità ed esistenze, ma una superficie che rivela il vuoto
assoluto.
Qualcosa che va oltre la superbia umana di riprodurre iconograficamente
l'essere umano, compito che un tempo era prerogativa solamente di Dio.
Adesso siamo capaci di creare un'umanità che non esiste. E non come ha
fatto per secoli, e sempre farà, la poesia, la letteratura, inventando storie e
persone che esistevano solo nella mente dei suoi creatori; bensì nel punto
focale della umana cognizione: il viso.
Terzo caso: "il volto come salvezza".
Vann Nath è uno dei sette sopravvissuti delle quattordicimila persone
torturate e uccise nella prigione S-21 Tuol Sleng in Cambogia durante la
dittatura di Pol Pot. La sua storia è raccontata nel suo bel libro “Il pittore
dei Khmer rossi – Memoir” di Add Editore.
Questo genocidio, passato alla storia come l'Anno Zero, è stato
raccontato in moltissimi modi, sia nei libri che nelle fotografie dei
foto-reporter di quegli anni. La follia criminale del dittatore lo portò a
sterminare un terzo della sua stessa popolazione: voleva creare l'Uomo Nuovo
cancellando l'esistenza di chi, ai suoi occhi, rappresentava il passato.
Sono terribili i racconti dei sopravvissuti.
Vann Nath era un pittore.
Nelle prigioni i soldati avevano una lista delle persone incarcerate e,
a fianco di quei nomi, c'era scritto “distruggere”. Ma a fianco del suo nome
scrissero “tenere e usare”. Perché nella vanità degli aguzzini la sua arte
venne vista come un modo di auto-celebrarsi.
Fu incaricato di ritrarre continuamente Pol Pot, i comandanti delle prigioni,
più tutte le atroci torture e omicidi che venivano commessi.
Tutti i prigionieri venivano fotografati e gli venivano prese le misure
della testa per poi essere bendati e legati con una corda al collo.
Quello che vide in quegli anni fu terribile. E lui doveva rapprentarlo.
Dovette dipingere il volto dell'uomo più odiato nella sua nazione.
Quando il regime cadde e Pol Pot morì, nel 1998, da solo in mezzo ad
una giungla, il primo sentimento di Vann Vath fu la rabbia per non poterlo
vedere in un'aula di tribunale, a pagare per tutti i crimini commessi in oltre
venti anni. Il karma lo aveva fatto morire da solo, bruciato senza che ci fosse
un bonzo a benedirlo, ma la rabbia era troppa.
Adesso tutti gli altri dovevano pagare. Ma come testimoniare alla corte
di quei crimini?
Grazie ai suoi dipinti. Ai suoi ritratti.
Quelli furono usati come prova, e lui fu uno dei testimoni cruciali,
per poter condannare i khmer rossi.
Che beffa!
Il ritratto dei potenti durante il regime divenne la prova della loro
colpevolezza.
I suoi dipinti sono gli incubi reali che non potranno mai più essere
dimenticati. Poche volte dei ritratti hanno avuto una storia duplice e
terribile, simile ad una tragedia greca, come quelli eseguiti da Vann Vath.
Ma il senso di vendetta che esala da questa storia diventa una sorta di
medicina per la ferita.
La vanità che punisce sé stessa.
L'arte usata dalla tirannia diviene mezzo di giustizia.
Il ritratto come nemesi.
Comments
Post a Comment