Su questa nostra madre terra
Cresceranno sempre di più.
Se non riusciamo a garantire loro il ritorno,
Lasciamo che si diffondano su qualsiasi riva."
(Mohammad Nurul Huda, da “Rohingyas”)
Insieme ad alcune famiglie Rohingya. Penang.Malesia, Dicembre 2017 |
Vorrei tornare a parlare dei Rohingya.
Diversi motivi mi spingono a farlo.
Il primo è che, per la prima volta nella mia vita di fotografo, ho
deciso di partecipare ad un concorso fotografico chiamato “ASA Project – Storie
di Resistenza”, portando come progetto la storia delle famiglie Rohingya in
Malesia.
La seconda ragione è che ho iniziato a conoscere alcuni ragazzi
Rohingya che vivono all'interno del campo profughi a Cox's Bazar, i quali –
oltre a tenermi aggiornato su quello che accade all'interno – mi hanno
raccontato meglio questa tragedia epocale.
Mi sembrava la scelta migliore quella di mostrare queste storie al
concorso, a prescindere degli esiti, perché per me loro rappresentano veramente
“la resistenza”, anzi la (R)esistenza, come ho intitolato il progetto.
Fin dal primo incontro con quelle famiglie, nel 2017, un anno prima di andare a
vivere a Penang, ho avvertito il peso di quelle esistenze.
Era proprio l'anno in cui se ne parlava molto, nel 2018 fu premiato
anche al terzo posto nella categoria “Digital Storytelling Contest” un
reportage di gruppo sulla tragedia dell'esodo Rohingya, nel World Press Photo.
E il fotografo Patrick Brown da premiato al primo posto nella categoria “Photo
of the Year” proprio con uno scatto terribile dei corpi affogati dei Rohingya
che tentarono una fuga per mare verso Cox's Bazar.
Così riporta la sinossi di quella immagine.
“I Rohingya sono una minoranza prevalentemente
musulmana nello Stato di Rakhine, nel Myanmar occidentale. Contano circa un
milione di persone, ma le leggi approvate negli anni '80 li hanno
effettivamente privati della cittadinanza birmana. La violenza è esplosa in
Myanmar il 25 agosto dopo che una fazione di militanti Rohingya ha attaccato
postazioni di polizia, uccidendo 12 membri delle forze di sicurezza del
Myanmar. Le autorità del Myanmar, in luoghi sostenuti da gruppi di buddisti,
hanno lanciato una repressione, attaccando villaggi Rohingya e case in fiamme.
Secondo l'UNHCR, il 28 settembre il numero di Rohingya che successivamente sono
fuggiti dal Myanmar per il Bangladesh ha raggiunto i 500.000.”
Era il 2018.
La comunità internazionale iniziava a conoscere le cifre e l'orrore di
questo genocidio, prima ancora di alzare la voce di protesta contro il premio
Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi, allora a capo del paese, che ha sempre
taciuto davanti al dramma di questa etnia, poiché spalleggiata al potere
proprio da quell'esercito che era l'esecutore dello sterminio.
Va detto però che Shahidul Alam, il fotografo più famoso del Bangladesh, già
nel 2014 fotografava le navi abbandonate dai Rohingya sulle spiagge della
Malesia e i rifugiati nel distretto di Teknaf a Cox's Bazar, nel 2016, prima di
essere accolti nel campo, come è testimoniato nel suo ultimo libro “The Tide
Will Turn” del 2019.
Quindi, per me, fu molto toccante conoscere alcuni dei bambini Rohingya
ospiti del Penang Peace Learning Center fondata dal Dr. Kamarulzaman Askandar,
professore di studi su Peace and Conflict (USM), e coordinatore regionale del
Southeast Asian Conflict Studies Network (SEACSN).
A lui feci una lunga intervista all'epoca in cui chiariva gli aspetti
del conflitto in Myanmar e della loro esistenza in Malesia.
Questo mi disse il Dr. Askandar sulla tragedia.
“Penso che tutti i paesi dovrebbero avere un
ruolo maggiore nel cercare di risolvere i problemi dei Rohingya in Myanmar
perché non si tratta solo di un problema relativo ai Rohingya; è una questione
di umanità, si tratta di un gruppo di persone che viene sostanzialmente
spazzato via, è una questione di genocidio, è una questione di crimine contro
l'umanità. È un problema di cui tutti, da ogni paese, dovrebbero essere non
solo consapevoli, ma anche muoversi per la risoluzione del problema.
La Malaysia è in una buona posizione per dare un
contributo ancora maggiore alla risoluzione dell'argomento perché al momento
abbiamo quasi 90mila rifugiati Rohingya che vivono in questo paese. Vengono qui
da molti anni e, nonostante la Malaysia non sia un firmatario della convenzione
sui rifugiati, questo paese ha accolto un gran numero di rifugiati Rohingya e
deve affrontarlo su base umanitaria.
Abbiamo permesso alle persone dell'UNHCR di
registrarli e abbiamo permesso loro di vivere qui su base umanitaria, ma
dobbiamo ancora considerare cosa è necessario fare con questo gran numero di
rifugiati Rohingya in questo paese. E il problema non è solo qui in Malesia, ma
dobbiamo guardare alla causa principale del problema che è in Myanmar. Perché
se risolviamo il problema in Malesia ma il problema centrale in Myanmar non
viene risolto, continueremo ad avere tutti questi rifugiati, non solo Rohingya,
ma ci sono anche altri gruppi etnici che sono usciti dal Myanmar a causa del
conflitto laggiù.
Quindi la Malesia dovrebbe fare qualcosa per
fare pressione sul governo del Myanmar affinché affronti questa situazione in
Myanmar, per trattarli umanamente, per dare loro la vita sociale e politica che
realmente richiedono e che dovrebbero avere. Ma non si tratta solo dei malesi,
non si tratta solo degli americani, dovrebbe riguardare tutti noi che facciamo
pressioni sul Myanmar per risolvere la questione prima che sia troppo tardi e
per dare ai Rohingya i diritti che meritano veramente.”
Quel giorno conobbi alcune delle famiglie dei bambini. Mi portarono e
visitare le loro case. Scattai le prime fotografie ed ascoltai le loro storie.
Un anno dopo sono tornato nella stessa città, per viverci e lavorare,
dal 2018 alla fine del 2019.
Mi sono messo a cercare di nuovo quelle famiglie, ed altre in diversi
regioni della Malesia: Kedah, Kelantan. Dovunque andavo, in quell'area al nord
della Malesia, chiedevo ai miei amici dove potessi trovare famiglie Rohingya.
Con alcune di loro è nata anche un'amicizia, sono tornato spesso a
trovarle e ho portato loro ciò di cui avevano bisogno: abiti, medicine, cibo,
quaderni per i bambini.
Oramai la questione Rohingya era esplosa, se ne parlava molto e
iniziavano le proteste contro la San Suu Kyi, con petizioni per richiedere la
riconsegna del Nobel per la Pace.
Adesso suona ironico vederla destituita con un colpo di stato da
quell'esercito criminale che per anni lei stessa ha coperto.
Non si è mai spenta – per fortuna – la luce sul genocidio nazista, per
il vigore con cui gli stessi ebrei ne hanno portato testimonianza, ma altri
genocidi sono svaniti nel nulla senza quasi ci fosse eco.
Quando ero a Giacarta un mio caro amico giornalista, cinese, mi
raccontò che tra la fine del 1965 e il 1966 in Indonesia si consumò una delle
peggiori stragi del XX secolo. L'esercito di Suharto assassinò, in pochi mesi,
mezzo milione di militanti del Partito Comunista, altri milioni di attivisti
vennero arrestati e trascorsero decine d’anni in prigione. Le conseguenze
furono enormi ma di quel massacro in Europa ben poco si conosce.
Adesso dei Rohingya se ne parla molto meno, e ancora c'è molta gente in
Italia che non sa proprio chi siano o che sta succedendo al loro popolo.
Io ho avvertito anche come il sentimento iniziale di affetto e
compassione, in Malesia, sia iniziato a mutare in insofferenza e ostilità.
Accogliere è una buona azione, ma vederli non evolversi, migliorare il
loro stato, li rende soggetti a ostilità, come accade per tutte le minoranze
profughe in giro per il mondo.
Il problema è che, come spiegò bene il professore, non è colpa loro se
posso limitarsi a lavori illegali, nei cantieri o nei porti, perché finché non
viene riconosciuta loro la cittadinanza potranno solamente non essere
arrestati, con la carta UNCHR, ma non potranno mai accedere alle scuole, alle
case, alla sanità pubblica. Niente, come fantasmi.
Io ho trovato alcune aree (o kampung, come ho già spiegato molte volte)
in Penang o Kedah, quasi oramai abitate solamente da Rohingya.
Esiste un mercato tradizionale a Penang, veramente unico e ormai il
solo rimasto in Malesia; lo chiamano Pasar Bisik, ovvero il mercato dei
bisbigli, perché chi contratta il prezzo dei pesci all'asta, appena pescati in mare,
lo fa bisbigliando il prezzo all'orecchio.
Questo mercato è nelle due rive del fiume che porta al mare verso la Thailandia,
in due differenti regioni: da un lato Penang e dall'altro Kedah, chiamati
kampung Kuala Muda.
Io sono stato da entrambi i lati, e nella parte di Penang, l'antico
villaggio di pescatori con le case in legno è ormai abbandonato dai malesiani e
affittato alle famiglie Rohingya, i cui uomini fanno il mestiere di pescatori
che le nuove generazioni malesi non vogliono più fare.
Campo profughi Rohingya. Cox's Bazar. Bangladesh, Febbraio 2020 |
A febbraio dello scorso anno ho avuto la possibilità di andare a
visitare il campo profughi di Cox's Bazar, e questo l'ho scritto molte volte,
anche nel mio ultimo libro. Qui ho anche intervistato la Dr. Sadia che lavora
ad un Health Post in uno dei campi, che mi ha aggiornato sulle condizioni del
campo durante la pandemia.
Non riesco a smettere di pensare a queste famiglie.
Come ho detto, ultimamente alcuni ragazzi che vivono all'internino del
campo sono diventati miei amici, mi raccontano le loro storie, mi tengono
aggiornato. Sono dilettanti fotografi, video maker, poeti, scrittori,
giornalisti. La prima volta che entrai nel campo il mio amico mi disse che
quasi la totalità dei Rohingya sono analfabeti, illetterati.
Adesso scopro altre verità. Anche se con pochi mezzi, ci sono molti
ragazzi che sognano un futuro di lavoro fuori dal campo. Che amano l'arte, la
poesia. È grazie a loro che sono venuto a sapere di un grande incendio che alla
fine di marzo ha distrutto ben tre campi, con oltre 200 case distrutte e molti
dispersi. Nessuno ne ha parlato, ma loro con le videocamere dei telefoni hanno
testimoniato ogni momento.
Mi hanno detto che esiste una rete nel mondo di attivisti Rohingya, di
giornalisti e scrittori.
Alcuni di questi ragazzi sono nati nel campo, non hanno mai visto il
Myanmar. Perché noi abbiamo iniziato a conoscere questa tragedia nel 2017, ma
ci sono ragazzi come Mainul Islam i cui genitori sono arrivati nel campo in
Bangladesh addirittura nel 1992: lui è nato all'interno, adesso ha 26 anni e
suo padre è morto che aveva solo 18 mesi, la madre è morta tre anni fa,
entrambi nel campo.
Un'intera esistenza senza mai valicare i recinti spinati del campo.
Loro mi hanno raccontato che noi sappiamo dei Rohingya da pochi anni,
ma non è vero che la loro persecuzione è iniziata solamente negli anni Ottanta
come viene riportato spesso, bensì già nel 1784 l'esercito birmano iniziò ad
uccidere i Rohingya, e non solamente loro. Il problema non è la loro fede
islamica ma sono perseguitati in quanto minoranza etnica, e molte altre insieme
a loro – ci sono i Chin, i Kayah, i Mon, e altri ancora.
Il Myanmar è un paese misterioso e tormentato, che ha cambiato nome (da
Birmania a Myanmar nel 1989) e tre diversi colonizzatori, passando dagli
inglesi ai giapponesi fino all'esercito militare.
Per molti di questi ragazzi c'è lo spaesamento totale. Nati all'interno
di un campo profughi, in un paese che non è il loro, una lingua che non è la
loro, senza facili prospettive di futuro e senza nessun legame con la loro
terra d'origine.
Ovunque vadano sono dei fantasmi.
E quando qualcuno procede troppo al livello della terra non incontra lo
sguardo di chi sta in piedi.
Per questo motivo non voglio smettere di scrivere su di loro.
Tutte le fotografie sono state scattate a Penang e Kedah, il 3\7\16 Dicembre 2017 |
Vi lascio con una poesia recitata dall'interno del campo. Lui si chiama Nur
Sadek, vive nel Camp 26 e ha solo 19 anni. È un poeta, fotografo e
un'attivista del suo popolo.
La prima volta che abbiamo parlato era impressionato dal fatto che
conoscessi il popolo Rohingya.
La sua era una ricca famiglia in Maung Daw nella provincia di
Rakhine dove vivono i Rohingya, il padre era un uomo d'affari, perciò Nur Sadek
parla un ottimo inglese ed è un amante dell'arte e della poesia.
A dimostrazione di come non tutti i Rohingya sono poveri e senza
cultura.
Non erano una tribù che viveva nelle foreste, ma un popolo con la sua
dignità, storia e cultura.
O come Mayyu Khan, un giovane pittore di 20 anni che vive nel campo 20
di Balukhali.
Questo è solamente un modo di raccontare gli eventi sotto una diversa
luce.
Anche nella difficoltà, nella sofferenza e nella solitudine c'è chi non
smette di sognare e creare.
Per provare a dare voce a chi voce non ha...
Penang. Giugno e Maggio 2019 |
“La coraggiosa eroina Rohingya nel mare senza sponde”. |
Titolo: “Gli occhi della ragazza Rohingya” Artista: Mayyu Khan Dimensioni: A4 Colore: acquerello |
Mohammad Nurul Huda: “Rohingya and other poems” (Journeyman Books, 2019)
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