“Quanto lontano proietta quella piccola candela!
Così brilla una buona azione in un mondo stanco.”
(William Shakespeare)
Dhaka, February 2020 |
Due anni fa, intorno a questi giorni, ero appena arrivato a Dhaka.
Per la prima volta, dopo dieci anni a rincorrerete quei colori a Roma,
ero immerso concretamente in quel vortice di polvere che era più vivo di ogni
Holi festival.
Sarà che questa è una mattina grigia che promette pioggia, sarà che
sono due anni in cui non sappiamo immaginare nessun tipo di futuro, che siamo
incatenati nelle nostre città; sarà che ogni volta che un aereo mi vola sopra
il naso e un treno fa tremare il suolo sotto i piedi mi viene la malinconia;
sarà che è dura cercare i colori ogni mattina come scriveva Cesare
Pavese quando quei colori sono lontani miglia e miglia da noi.
Sarà questo e tante altre cose ma mi è tornato in mente quel viaggio,
anche perché è stato l'ultimo prima della chiusura di tutto.
Sono tornato a vedere quelle fotografie, centinaia e centinaia scattate
in un mese, quasi a bere da quei colori folli e pungenti.
Dhaka, February 2020 |
Ho un rapporto strano, che non so spiegare bene neanche a me stesso,
con quella gente. Mi fermo a fissare queste immagini rubate da un rickshaw, di
queste donne e uomini che sopravvivono nella polvere grigia di giorni tutti
uguali, con volti stanchi e appesantiti dalla durezza di una città che ti
divora e ti sputa come betel rosso.
La stessa sensazione provai a Giacarta, in Filippine, tra i Rohingya in
Malesia.
Molto spesso mi dicono che sono empatico, che dovunque mi mettete io
sto bene, non ci sono distanze tra me e quella gente.
È vero. Ogni tanto provo a chiedermi come mai.
La gente non comprende che più che essere un pregio questo è un dolore
per me. A volte i miei occhi si bagnano senza motivo, come se io fossi uno di
loro ma non lo sono – con mortificazione e senso di colpa.
Forse perché la mia vita è andata così, ho fatto tanto ma ottenuto poco
e se non ci fossero stati i miei genitori in vita a quest'ora sarei come loro a
vivere sotto i ponti.
Sono ontologicamente unito a loro. Sento quello che provano, i loro
dolori, le loro lacrime. Ecco perché non mi sono mai sentito un ladro nel
fotografarli, perché io li amo dal più profondo del mio cuore.
Amo la dignità di vivere provando a sorridere tra le rughe di giovani donne con volti vecchi come mia nonna, se tu sorridi loro.
Jakarta, November 2017 |
Ovunque andassi mi hanno sempre detto che ero come uno di loro.
Forse è per questo che questa mattina non riesco a togliermi la
malinconia di dosso. Non so quando potrò tornare a visitare quei luoghi, se
sarò ancora in grado. C'è ancora tanto da vedere là fuori.
Vorrei perdermi tra le strade dello Sri Lanka, della Cambogia,
dell'India, del Myanmar... Tornare ancora una volta in Filippine, Malesia,
Indonesia.
La mia amata Thailandia che ho visto per un solo giorno, come un
miraggio.
Vorrei morire così, non mi importa dove ma lontano da tutto.
Con gli occhi pieni di colore. I piedi sporchi di terra.
In bocca frammenti sparsi di lingue triturate come spezie sulla pietra.
Vorrei far vedere a tutti, attraverso le mie fotografie, che il compito
di ognuno di noi è costruire ponti, come scrisse qualcuno – è renderci prossimi,
anche senza essere visti o interagire.
È sufficiente essere occhi pieni di amore.
Ecco, questo penso che debba essere la Fotografia nella sua più alta
missione: amare ciò che vede, che cattura, anche se nell'oscurità, nella
polvere, nel letame, tra i topi.
Questo mi manca tremendamente.
Se potete, aspettatemi...
Dhaka, February 2020 |
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