4/5 sec. f. 22 10mm ISO 100 Old Dhaka, Dhaka, 17 Febbraio 2020 |
La rappresentazione della realtà attraverso l'arte ha avuto il suo inizio con
l'invenzione della Prospettiva, con il “De Pictura” (1434-1436) dell'architetto
Leon Battista Alberti.
Non a caso inizierà il Rinascimento in quel
periodo ed una nuova fase dell'umanità.
La prospettiva allora, nei dipinti, e con la
fotografia poi, fu il modo di dare profondità, e quindi una terza dimensione,
alle superfici bidimensionali che sono le tele e le fotografie.
La fotografia utilizza ogni tipo di
stratagemma, come le cornici naturali, le linee diagonali, differenti
piani che si perdono in lontananza, per provare a mantenere fede al suo destino
fin dalla sua nascita: essere una rappresentazione fedele della realtà.
Ma questa è un'utopia.
Come ha intitolato un suo libro il giornalista
e studioso della fotografia Michele Smargiassi, la fotografia è e sempre sarà
“un'autentica bugia”.
“Per sua natura, la fotografia non può che
mentire”, inizia così il suo libro.
Ma questo è un argomento troppo complesso da
affrontare ora.
Quello che mi fa pensare, guardando questa
foto, è che nelle immagini una cosa manca, un elemento fondamentale della vita:
il tempo.
E non potrebbe essere altrimenti, poiché la
fotografia è proprio estrapolare un
istante dal flusso temporale per imbalsamarlo, come ho scritto a proposito
delle farfalle nel laboratorio.
Già la pittura e la scultura, con il
“Futurismo”, cercarono di rappresentare il tempo con forme finite. È
famosa la scultura di Umberto Boccioni “Forme uniche della continuità nello
spazio”, del 1913.
Quando tu sei a Dhaka, la prima cosa che ti colpisce è il traffico e il numero incredibile di rickshaw, CNGs e motociclette che si muovono intorno a te. È una strana sensazione, perché tu sei magari seduto per ore su di un rickshaw e vedi questo flusso colorato e rumoroso che si muove con te, in ogni direzione.
Come ho detto al mio amico che era sempre con
me, dopo una settimana inizi a non fare più caso al suono dei clacson, che
diventa la nota dominante ad ogni tua giornata: è incessante. Perciò, dopo un
po' non ci fai più caso.
Quindi, tutte quelle ore seduti sono in realtà
tempo perso, che si traduce in cognizione del tempo perduta. Sembra di essere,
appunto, cristallizzati in un eterno presente.
Se non fosse proprio per gli altri rickshaw che
si muovono e ti fanno tirare un sospiro di sollievo. Ebbene sì, immobili nella
melassa del traffico, ma il tempo ancora scorre!
Ma come far capire questo con la fotografia?
Come dare a chi vede le nostre immagini, magari seduto comodamente nella
propria stanza, e che non è mai stato un una di queste megalopoli asiatiche che
vivono tutte lo stesso problema del traffico?
Ho provato a fotografare il traffico in ogni
modo quando ero là, ma sempre dal mio punto di vista, a livello della strada.
Era una fotografia ancora “spaziale”; faceva capire quante automobili e
autobus e rickshaw erano presenti in quel momento. Ma mancava l'idea del tempo,
la dimensione temporale che si muove ininterrottamente ma nello stesso momento
intasata, soffocata, congestionata.
Difficile e frustrante.
Poi, una mattina, girando per la mia amata Old
Dhaka, mi sono trovato in questa piazza incrocio, veramente caotica. Mi sono
accorto che i palazzi che si affacciavano sulla strada avevano diversi piani e
terrazze, perciò si poteva provare a sporgersi da uno di essi. La visione
dall'alto mi mancava, o meglio, avevo già fotografato le strade trafficate, ma
dai ponti che le attraversano, perciò alla fine erano solamente strade
trafficate in un senso di marcia e l'altro.
Dhaka, 13 Febbraio 2020 |
Ma questa era un incrocio, molto più
interessante.
Ed infatti, appena affacciato dal primo piano
ho capito che era come avevo immaginato. Allora su, fino al terzo e ultimo
piano: visuale perfetta, dominando tutte e tre le strade che confluivano al
centro e visione da girone infernale dantesco.
Un fluire continuo di colori e suoni.
Ho cambiato il mio obiettivo, con passaggio
obbligatorio al grandangolo 10mm.
La foto era interessante, ma sempre mancava
quel terzo elemento, oltre l'elemento di profondità, ovvero il tempo.
E allora ho pensato che è vero, io raramente
faccio foto sperimentali, ma forse questo era il caso di giocare con i tempi di
scatto.
Io fotografo sempre e solo in Manuale, non
conosco altro modo, fin dai miei inizi, da quando uscivo ogni giorno a fare
pratica di fotografia, da solo. Buttando via centinaia di foto sbagliate,
mosse, bruciate.
Poi, piano piano, uno migliora e poi scattare
diventa come respirare, e io respiro solo in manuale.
Ma se io voglio il tempo, non c'è niente da
fare, con il tempo devo lavorare.
Allora riduco gli ISO al minimo, chiudo il
diaframma e allungo il più possibile il tempo di scatto: questa volta non è la
luce che vuoi entri dentro di te, ma il tempo.
E tempo necessita tempo, perciò l'otturatore
scatta lento. È una frazione di secondo, ma che è veramente lunghissima, tra il
momento del dito che preme il pulsante e il clac dell'otturatore che
chiude ogni cosa.
E in quel momento di sospensione che tutto sta
entrando in te: ogni rickshaw, le automobili, i clacson, i colori, la polvere.
Ed è una strana sensazione perché non puoi vedere nulla: l'occhio nel mirino
non vede nulla, e devi anche trattenere il fiato; impugnare la macchina nel
modo più fermo possibile, senza cavalletto, perché anche il minimo respiro può
far vibrare la macchina fotografia e rovinare lo scatto.
Poi apro gli occhi, guardo la foto e vedo
quello che cercavo.
Sì, eccolo. Il tempo è entrato nella
fotografia. Scorre, è fluido, filamentoso, sporco e polveroso.
È la vita.
E non è un trucco da post-produzione. No.
È semplicemente una richiesta fatta alla
propria macchina fotografica: lasciami vedere il tempo.
Leggendo tra i commenti a questa fotografia c'è
quello di una ragazza che era stata a Dhaka: “Sento i rumori dei rickshaw!”
Questa è la conferma che la foto è arrivata
dove doveva arrivare.
Questa è la mia Dhaka.
1/25 sec. f14. 10mm. ISO 250. Old Dhaka, Dhaka, 17 Febbraio 2020 |
Michele Smargiassi: “Un'autentica bugia – La fotografia, il vero, il falso” (Contrasto, 2015)
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