Putul – Seconda Parte



"আমি বীরাঙ্গনা বলছি", (Io Birangona sto parlando), ©Artist M. Shafik, 2023 





Io sapevo la storia di mia madre.

Non avere un padre non fu facile; peggio ancora poi sapere chi fosse. 

Perciò quando iniziai a crescere decisi di non parlarne più con mia madre.

Gli sguardi di pena e di disgusto li lasciavamo scivolare via.

Ogni mattina osservavo il modo accurato e pieno di amore con cui lei raccoglieva l'argilla dal fiume e riflettevo che fosse la sua cura quotidiana – come se togliere pezzi di terra rossa dagli argini del fiume equivalesse ad asportare brandelli di sangue dalla sua ferita perenne, per farne piccole opere d'arte che donavano gioia.

Quando non hai più nulla anche la più piccola ed insignificante azione può riempire di senso un'esistenza intera.

Per Sushita Pal, e per me, realizzare le tepa putul era un fatto dannatamente serio. Come la preghiera mattutina e serale.

A volte la guardavo seduta a terra, dietro la cassetta di legno con le bamboline sopra, avvolta nel suo velo nero, nell'indifferenza delle persone che le passavano davanti e pensavo che era assurdo immaginarla come un'eroina nazionale. Una freedom fighter.

Eppure questo era agli occhi ciechi della nazione.

Un'eroina, violata e ferita, dimenticata nella polvere.

Persino derisa da coloro che sono ora liberi grazie anche a quelle ingiurie.

Ci impiegai anni a comprendere come un padre o un marito possano rifiutare e cacciare via una figlia o una moglie che hanno subito, senza colpa alcuna, ciò che mia madre e altre quattrocentomila donne bengalesi hanno subito nel 1971.

Lo compresi grazie agli sguardi e le parole che, a volte, piovevano su mia madre.


La strada per il mercato era un serpente di terra che strisciava a fianco della riva del fiume.

I cinguettii dei doyel ci allietava ogni mattina.

Le ore al mercato non erano pesanti, a parte nel mese di Borsha, a giugno e luglio, quando i monsoni rendevano impossibile anche uscire di casa.

Quelli erano i giorni più duri e lunghi, pertanto cominciavamo a conservare il riso già un paio di mesi prima perché sapevamo che non avremmo potuto vendere le nostre putul.

Durante la stagione delle pioggie, quando il fiume tracimava e inondava il villaggio, mia madre mi insegnò a mettere tutte le putul e le cose più importanti che avevamo in un sacco, a scavare una buca profonda nella terra vicino ad un albero, così che fosse possibile recuperarle quando l'acqua e il fango andavano via. Lo aveva imparato da sua madre e lei da sua nonna.

La nostra era un'esistenza semplice.

I giorni si susseguivano senza troppi sussulti.

Gli unici momenti di tensione erano quando arrivava il solito gruppo di tre o quattro uomini che si divertivano a prendere in giro mia madre.

Quando si rivolgevano a me riuscivo ad ignorarli, ma vedere mia madre piangere per le loro offese mi faceva ribollire il sangue.

Il mio odio cresceva di giorno in giorno.


Quella mattina avevamo venduto poche putul.

C'era poca gente al mercato.

Inoltre vennero in quattro questa volta.

Sempre loro. Il corpo tozzo e le pancie gonfie come hari* del misthi doi. Il volto di scimmie dalla pelle marrone e l'attaccatura dei capelli a poche dita dalle sopracciglia.

Solo vederli camminare mi dava la nausea, tracotanti e volgari.

Si fermarono davanti a noi e, senza chinarsi, cominciarono a ridere.

“Gli affari non sono andati bene oggi, boudi! Che peccato!”

Esclamò uno a cui fece eco un altro uomo sulla trentina.

“Mi sa che questa sera si mangia solo patate e latte”.

Scoppiarono a ridere. Poi un terzo uomo si avvicinò sopra di me.

“Peccato che sei figlia di una pakistano... Non saresti male, ti ci porterei nel bosco un pomeriggio...”

Disse con la voce impastata mentre la sua mano era sul punto di toccarmi la guancia quando diedi un colpo al suo braccio per allontanarlo.

“Neanche fossi l'ultimo uomo sulla terra!”

Risposi con un sibilo di serpente.

Lui mi offese ridendo e andarono via.

Mia madre era immobile, guardando le nostre piccole creature.

“E' meglio che torniamo a casa, figlia mia. Oggi non è una buona giornata.”

Prima di andare, con i pochi soldi guadagnati comprammo un sacchetto di lenticchie.


La via verso casa era silenziosa. Le nuvole in cielo si andavano addensando e il loro candore si tinse di grigio. Di sicuro avrebbe piovuto la notte.

Mia madre camminava leggermente curva sotto il peso della cesta sulla testa, retta dalla mano destra.

Ogni volta che le chiedevo di poterla portare lei si rifiutava. Un giorno avrai la tua di cesta, quando io non potrò più venire con te. Mi diceva con un filo di malinconia nella voce.

Giunte a metà del tragitto avvertimmo un rumore di passi dietro di noi.

“Ti serve una mano a portare il tuo cesto, cagna pakistana?”

Ad entrambe si gelò il sangue.

In un attimo fummo circondate dai quattro uomini. Il volto di Sushita divenne più bianco del latte.

Le labbra tremavano come piume al vento.

“Per favore...”

Io mi misi tra mia madre e l'uomo che era davanti a lei, ma loro mi afferrarono per un braccio e mi gettarono a terra.

Mia madre posò il cesto sul suolo ma quando era piegata un uomo sui vent'anni dietro di lei le diede una pedata sul fondoschiena e la fece cadere a terra. Lei provò a rialzarsi con le mani imploranti verso di loro.

“Per favore, non fateci del male!”

“Tranquilla, boudi. Non ti violenteremo. Nessuno di noi infilerebbe mai niente dove si sono rimpinzati i pakistani e i rajakar: è zona infetta!”

“Lasciatela stare!” Urlai con tutta la voce che avevo in gola mentre mia madre piangeva ancora nella polvere.

“Zitta tu! Figlia del seme sbagliato!” Mi urlò contro con rabbia di cane il più vecchio tra loro.

Poi un altro si chinò e vuotò il sacco sulla strada: una decina di putul rotolarono nella polvere rossa.

“Ma che belle bamboline!”

Sogghignò uno di loro.

All'improvviso, con il sandalo ne calpestò una che si frantumò in piccoli pezzi.

“Noooo!” 

L'urlo di mia madre fu lancinante.

Anche la foresta si tacque.

Si gettò ai piedi dell'uomo afferrando il suo piede. Allora altri due presero a calci le altre putul: alcune rotolarono intatte, altre si ruppero in cocci.

Il sangue gonfiava bollente nelle mie vene, nel collo, nelle tempie, sulla fronte.

“Basta! Basta! Per pietà!”

Sushita tentava di metterle in salvo ma gli uomini calpestarono la sua mano e le putul. Ne avevano distrutte più della metà.

Soddisfatti dell'opera si volsero tutti e quattro verso mia madre e, sempre con i sandali arrossati dalla terra, iniziarono a spingere e far rotolare il suo corpo come fosse un pallone.

“Perché non cambi villaggio, boudi? Vai in uno di quei ricoveri che il nostro Sheikh Saheb ha aperto per voi prostitute pakistane. Almeno state tutte insieme, chiuse nelle vostre stanze, senza ammorbare l'aria che respiriamo. Le vostre bocche sanno ancora di latte hurdu. Ne avete bevuto tanto in quei giorni, vero?!”




"আমি বীরাঙ্গনা বলছি 2" (I'm talking Birangona). ©Artist M. Shafik, 2023



Chiusi gli occhi. Dal ventre sentii montare un fuoco che faceva tremare la mia pelle. I pugni erano chiusi così forte che le unghie incidevano il palmo delle mani.

Mi veniva da vomitare.

Aprii gli occhi. I quattro uomini erano ancora intorno a mia madre.

Quattro putul che giacevano a terra ancora intatte si addrizzarono. In pochi secondi crebbero fin oltre due metri, con le braccia lunghissime aperte ai lati come croci colorate.

Uno degli uomini che le vide lanciò un urlo. Gli altri si voltarono e fissarobo terrorizzati le gigantesche bambole che erano già attorno a loro.

Il viso di mia madre sporco di lacrime e polvere era pietrificato.

“Ma che magia è questa!”

Urlò l'uomo più grande mentre provava a correre in mezzo a due putul, ma entrambe si piegarono leggermente di lato e con le due braccia distese lo colpirono violentemente, facendolo cadere all'indietro.

Anche gli altri tre tentarono di fuggire via.

Il ragazzo di vent'anni fu preso dalla punta della mano stilizzata per il colletto della maglietta e tirato su, penzolando come una scimmietta isterica a quasi tre metri di altezza. Piangeva e implorava pietà come un bambino terrorizzato.

L'uomo che calpestò per primo la putul di mamma provò a fuggire gattonando dietro una di loro. Io lo guardai con gli occhi colmi di rancore. La putul gigante si volse e con la base larga ad imbuto del corpo schiacciò le sue gambe. L'uomo rimase disteso pancia a terra battendo le mani nella polvere per il dolore.

L'ultimo fu afferrato e stretto forte al petto con entrambe le braccia dalla quarta putul, come fosse il suo bambino: lo strinse così forte che il naso gli iniziava a sanguinare e non riusciva a dire una parola.

Io camminai verso mia madre e la aiutai a rialzarsi.

La condussi davanti all'uomo che giaceva disteso per terra con metà corpo schiacciato dalla gonna blu e bianca della bambola.

Lui provò a fatica a guardarci dal basso, con la fronte corrugata per il dolore e gli occhi pieni di paura.

“Pietà! Pietà! Lasciaci andare! Non daremo mai più fastidio a tua madre!”

Implorava con la voce strozzata dal peso della putul.

Shotti?” Veramente, gli chiesi con lo sguardo pieno di odio.

Mia madre mi accarezzava la schiena.

“Basta, figlia mia. Lasciali andare. Basta...”

Io spinsi mia madre un passo avanti finché i suoi piedi fuorno davanti al muso dell'uomo.

“Chiedi perdono e forse vi lascerò andare.”

Gli dissi, indicando il piede di Sushita.

Lui lo afferrò repentinamente con entrambe le mani e poggiò la fronte sul dorso polveroso del piede, supplicando il perdono e la libertà.

Anche gli altri tre uomini, chi ciondolando dall'alto, chi soffocato nell'abbraccio, chi a terra colpito in testa da continue manate, urlavano pietà e perdono.

Chiusi gli occhi, espirai profondamente.

Le quattro putul liberarono gli uomini.

Giacevano uno a fanco all'altro, inginocchiati, il volto zuppo di lacrime mentre ognuno si massaggiava la parte dolente del corpo.

Abbracciai forte mia madre, in piedi davanti a loro.

“Adesso implorate la libertà. Che bella parola! Freedom. Stampatevela bene a mente. Oggi avete avuto la vostra piccola lotta per la libertà. Misera e meschina. Quella di mia madre è stata ben peggiore, e fu per la libertà di tutti noi. La prossima volta, se ci serà, se sarete veramente così stupidi, io non avrò pietà.”

Gli uomini annuirono coì intensamente che pareva il capo dovesse rotolare via dal collo da un momento all'altro.

Indicai la strada: “Sparite di corsa prima che cambi idea.”

Dissi con lo sguardo verso una delle putul con la piccola bocca rossa sotto due occhi enormi di pesce rivolti a destra e sinistra.

I quattro bifolchi si alzarono e andarono via barcollando e sorreggendosi l'uno con l'altro.

Sushita Pal non tolse gli occhi da loro finché non fuorno quattro puntini nel fondo della via.

Quando si volse le enormi putul erano tornate alla loro dimensione originale, uniche sopravvissute tra cocci e frammenti delle altre.

Si chinò su di esse. Con la mano raccolse ogni piccolo pezzo e le mise tutte nel sacco.

Lo caricò nella cesta, agitò il sari per togliere la polvere e si mise la cesta sulla testa.

Baciò la mia fronte.

“Grazie, figlia mia. Andiamo a casa adesso. Questa sera dobbiamo fare tante nuove tepa putul per domani.”

Io annuii e le sorrisi.


FINE



*Hari, la scodella usata per il misthi doi.


La storia raccontata è di fantasia ma Sushita Pal è il nome di una vera birangona, che a 18 anni, in Barisal, fu portata nel campo di Gournadi dove rimase per 15 giorni, violentata ogni giorno da quattro uomini. Lei  decise di abortire, sua madre e i suoi fratelli fuorno buoni con lei ma la famiglia del marito la cacciò via da casa loro. Ma la storia che ho raccontato attraverso Sushita Pal è ciò che hanno raccontato le birangona sopravvisute nelle interviste raccolte in due libri.

“Birangona 1971 – Saga of the Violated Women” di Muntassir Mamoon (Journey Moon Books, 2017) e “The Unsung Ballads – Statements of Birangonas of Bangladesh Liberation War 1971”, di Shafiqul Islam Kajol (Desher Kotha Publications, 2011).

Un dramma ancora troppo poco raccontato.


Un grazie speciale all'artista M. Shafik per le sue opere realizzate appositamente per questa storia.


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