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La giornata era iniziata come tutte le altre. Pioggia e traffico. Daisy Kyawwin aprì
il negozio alle 9 in punto, dopo aver pregato al tempio lungo Gabaraye Pagoda
Road.
Sistemò le confezioni nuove di sanghati e i cartellini con i
prezzi ben in evidenza.
Si sedette sulla sedia rossa sbuffando per la pioggia incessante, poi
abbassò lo sguardo e si compiacque dello smalto delle unghie dei piedi color
giallo come il tessuto del longyi.
Accese la radiolina, facendola dondolare, sintonizzata sul canale che
trasmetteva vecchie canzoni birmane.
Questa mattina c'era più movimento per la strada; gruppetti di persone
parlottavano tra di loro in modo agitato sotto la pioggia battente.
Nell'aria il salmodiare ipnotico e grave delle preghiere dei monaci dal
tempio e le ruote pesanti delle jeep dell'esercito che correvano sulla strada.
Daisy amava passare il palmo della mano sul tessuto ruvido della blusa,
sui fianchi – la rilassava. Ogni tanto si sistemava i capelli lunghi raccolti a
chignon dietro il capo.
Da quando l'esercito era salito al potere non si facevano più affari
come prima.
La gente aveva quasi paura ad uscire in strada, molti negozi erano
stati costretti a chiudere. Lei, bene o male, aveva una clientela specifica e i
monaci avevano sempre bisogno di abiti nuovi.
Anche di turisti se ne incontravano pochi, ormai.
Questa mattina, poi, il tempio sembrava più affollato. Di solito si prega con più intensità quando c'è la premonizione di qualcosa che andrà storto.
Ishu Patel. Yangon, Myanmar |
Chissà che sta per accadere, pensava Daisy mentre osservava le unghie
dei piedi dondolanti sotto il tavolo come su di un'altalena.
Il tempo trascorreva lentissimamente, nel grigio della pioggia. Ora
dopo ora la gente andava aumentando per la strada, tra i vicoli.
Si prese una pausa per mangiare un piatto di shan noodles, il
suo pranzo preferito di riso e noodles saltati con salsa di pomodoro, pollo,
noci e curcuma, tra i tavoli della strada, mentre con la coda dell'occhio
controllava il suo negozio con il cartello “Pausa pranzo” appeso sul pannello
in legno che chiudeva la finestra principale.
Ishu Patel. Yangon, Myanmar |
Il cielo sembrava pesare sui profili degli alti palazzi e le pagode,
come un mare denso di oscurità che affonda adagio divorando ogni cosa che
incontra sotto di lui.
Daisy si sentiva strana, non terminò neanche il piatto di noodles.
Camminò velocemente tra i gruppi di folla con i cartelli con il volto di Aung
San Suu Kyi; spintonava per farsi spazio, ciò che desiderava era solamente
raggiungere il suo negozio, chiudersi dentro.
Erano le 15.34.
Chiuse la porta in legno. Si sedette sulla sedia rossa e accese la
radio, alzando il volume sulla voce di May Sweet che cantava la classica
“Maung”.
Ormai tutta la strada davanti al negozio di Daisy era stracolma di
persone urlanti, inneggianti il nome della Suu Kyi, con la pioggia che bagnava
i volti del popolo birmano.
Lei guardava nervosamente l'orologio, la folla e gli angoli del
marciapiede.
Non smetteva di sfregare le mani sudate sul tessuto del longyi,
ai lati delle cosce.
Erano le 15.52.
Le prime jeep dell'esercito arrivarono in modo prepotente, facendosi
spazio tra la folla. I militari erano scesi in strada e iniziarono a colpire
con violenza chiunque avessero a tiro.
Ormai il suono secco dei manganelli sui corpi e i cartelli rossi dei
manifestanti copriva quello della pioggia.
Lei guardò alla sinistra della strada, erano le 16 in punto. L'uomo in
abiti eleganti cercava di farsi spazio tra la folla proteggendosi il volto con
la borsa di pelle nera; ma l'ondeggiare cruento delle persone urlanti lo
spingeva verso la fila di negozi che si affacciavano sulla strada.
Daisy aprì la piccola porta in legno sul lato sinistro, mise il capo
fuori e guardò l'uomo che non sapeva più dove andare, terrorizzato.
Lei gli fece cenno di correre verso la porta.
Lui la guardò in modo disorientato, con le labbra aperte, quando uno
sparò squarciò le nubi nere.
I manifestanti urlavano e alzavano la mano con le tre dita centrali
unite in segno di libertà, tra chi cadeva a terra e chi si scagliava contro
l'esercito, mentre l'uomo corse in modo trafelato fino a raggiungere il lato
del negozio, entrò e Daisy chiuse la porta a chiave da dentro.
Si stava a malapena in due, in piedi, nel piccolo spazio tra il banco e
la parete alle spalle.
Entrambi guardavano terrorizzati la scena apocalittica sulla strada,
con gli scontri tra l'esercito e i manifestanti – volavano pietre e
manganellate, ogni tanto dei colpi di fucile.
Daisy senza esitazione chiuse, con un movimento lesto della mano, il
pannello in legno della finestra.
Di colpo calò il buio. Si affrettò ad accendere una piccola lampadina
elettrica che illuminò di giallo l'interno del negozio.
I suoni della rivolta adesso giungevano ovattati.
L'uomo aveva ancora le gote rosse dalla paura; provò a sistemarsi i
capelli neri bagnati dalla pioggia e l'abito elegante.
Daisy alla sua destra quasi tratteneva il respiro, con le mani aperte
in basso sul longyi dorato. Temeva che lui potesse ascoltare il battito
del cuore che le percuoteva il petto, mentre con la coda dell’occhio guardava
le mani curate dell'uomo mentre si sistemava la blusa.
Lui la guardò con viso verso il basso, la pelle bianchissima, e con un
filo di voce la ringraziò.
“Kyae Zuu Tin Par Tel.…”
Daisy inclinò leggermente in basso il viso dalla parte opposta dello
sconosciuto, e con le mani unite sul petto, le unta delle dita quasi a sfiorare
il mento, fece un cenno con il capo.
“Non si sa più dove andremo a finire...”
Disse lui, più calmo, osservando il pannello in legno scuro che li
separava dal mondo, quasi potesse vedere ciò che accadeva oltre.
Risuonarono altri colpi di fucile.
Entrambi trasalirono.
Daisy d'istinto alzò il volume della radiolina.
La voce di May Sweet occupava, adesso, tutto lo spazio delle loro
esistenze.
Lui guardò verso la radiolina sopra la testa di Daisy, con un mezzo
sorriso.
“Maung…” iniziò ad andare dietro alla canzone.
“Se tu credi nel tuo cuore
tu devi allontanarti da me, lentamente...”
Lei prese coraggio e lo guardò in viso, ma solo dal naso verso il
mento, agli occhi non arrivava il suo ardire, poi dischiuse le labbra rosate e
si unì a lui.
“Se tu mi amerai fino al prossimo ciclo,
non potrai mai dimenticarmi un secondo,
sto per allontanarmi da te…”
“Maunggg...(darling)”, cantarono in sincrono.
Lui sorrise e Daisy abbassò velocemente il viso con le labbra serrate
nel suo solito sorriso educato.
Anche l'uomo seguì il suo sguardo e posò gli occhi sui suoi piedi.
“Oh... lo smalto dello stesso colore del longyi!”
Esclamò con ammirazione.
Daisy aveva il sangue che le scoppiava le tempie, il sudore le aveva
ormai appiccicato la blusa rossa sulla pelle della schiena.
Non le era mai sembrato così piccolo il suo negozio.
“Grazie...” riuscì solamente a dire.
Poi si accorsero che i rumori oltre il pannello erano andati
attenuandosi.
Daisy con la mano destra afferrò il tassello al lato del pannello e
iniziò a farlo scorrere; la mano sinistra sopra la confezioni degli abiti a
reggere il corpo.
Anche l'uomo voleva vedere; si era fatto tardi.
Si sporsero entrambi per controllare la situazione, in quello spazio
angusto, quando la mano destra dell'uomo elegante si poggiò, casualmente, sopra
la mano sinistra di Daisy.
A lei sembrò che l'esercito sparasse tutte le munizioni verso il
cielo.
Le guance bianche avvamparono di sangue.
Lui la guardò costernato, non fece in tempo a sollevare la mano che
Daisy aveva già tirato via la sua, mentre la stringeva sul petto.
“Mi scusi... mi scusi... non volevo...”
Ripeteva l'uomo sinceramente imbarazzato.
In un attimo l'intera esistenza si riavvolse al contrario, fino al
momento in cui, ancora sedicenne, il marito mise la mano sopra la mano di lei,
come proposta di matrimonio, nell'usanza birmana.
“Non fa niente, è stato un caso...”
Disse la donna con il mento premuto sul collo, gli occhi piantati sul
tavolo dove annotava gli ordini ogni giorno. Non sapeva più di che colore erano
le sue guance: avrebbe donato metà del suo guadagno mensile per una ciotola di thanaka
che le coprisse l'intero viso.
“Allora, io vado...”, disse lui ancora imbarazzato, “ormai la protesta
si è fermata”.
Lei annuì, guardando il suo mento mentre stringeva ancora forte la mano
sinistra sul petto.
“È stata molto gentile, se non fosse stato per lei, chissà...”, accennò
con un sorriso gentile.
Lei alzo lo sguardo per la prima volta su i suoi occhi neri, coperti
da qualche ciuffo umido di capelli neri.
“L'importante è che tutto è finito...”, disse Daisy con un filo di voce
e il sorriso abbozzato.
“Veramente?”, chiese lui mentre prendeva la borsa di pelle nera.
“In che senso?” trasalì la donna con gli occhi grandi, stupita per
quella domanda.
“Nulla, nulla... Allora vado, buona giornata…?”, rimase con la voce
sospesa.
Lei abbasso di nuovo lo sguardo.
“Daisy Kyawwin...” gli rispose.
“Buona giornata, Daisy Kyawwin”.
Aprì la porta e uscì. Lei chiuse subito e guardò quell'uomo di cui non
sapeva il nome camminare veloce tra le poche persone rimaste, i cartelli della
protesta sull'asfalto bagnato dalla pioggia incessante.
“Maung...”
Daisy cantò senza pensare.
“Darling...
non potrai mai dimenticarmi un secondo...”,
mentre la voce di May Sweet scemava sulla fine della canzone.
Daisy si lasciò cadere sulla sedia in plastica rossa, guardò la mano sinistra
che sembrava ancora ardere, e si abbandonò in un lungo sospiro, come se lo
avesse trattenuto per anni.
Poi il suo sguardò si posò sulle unghie dei piedi giallo oro, e
sorrise.
Un sorriso lunghissimo.
Come la pioggia che faceva brillare le punte d'oro delle pagode.
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