CampoRom. Roma – 28 marzo 2017 |
"La fotografia, come tutte le cose, è sempre una questione di punti di
vista, di come si decide di raccontare le cose.
Per la prima volta nella mia vita sono entrato in un campo Rom a Roma,
per due volte di seguito.
È da anni che desidero visitarne uno da dentro; se dovessi dire perché
mi verrebbe da rispondere che sento una vicinanza con le persone che ci vivono,
la stessa sensazione che provo quando vado nei villaggi dell'Indonesia, o negli
slum di Jakarta. Andando al cuore di questa sensazione, penso che sia un volere
cercare la bellezza e la bontà dove è difficile vederle.
Non nascondo che quando sono entrato la prima volta in questo campo il
cuore batteva forte e i sensi erano allertati al massimo, ma di fondo c'era
sempre l'ostinazione a sorridere, ad accarezzare i bambini, a salutare anche le
persone che ti guardano male: io diffido di loro e loro di me, questo è
difficile da rimuovere – ma perché?
Il male e il bene c'è in ogni luogo, così come la luce e l'oscurità in ogni
persona, dentro me in primis. E allora buttiamoci senza rete alla
ricerca del bello e della luce. E così che loro ti aprono la porta di casa, ti
raccontano di un figlio scomparso nella propria terra natia da vent'anni, i
ragazzi ti dicono che vorrebbero andare via da questi campi che sono prigioni
sporche. Le donne ti dicono di stare attento perché c'è gente cattiva e non
vogliono che qualcuno mi faccia del male; ci sorridiamo.
Non ero andato per fare un lungo reportage, ho solo accompagnato
un'amica fotografa arrivata da lontano per un suo progetto, e non ho
fotografato chi non voleva. Ho con me solo alcune fotografie, cartoline da un
posto sporco, squallido, e non voglio neanche dire dove perché non è importante
il posto, ma che ci vivano delle persone con un cuore e un'umanità. Come me,
come voi.
Assolutamente niente di diverso, che è quello che ho imparato in
Indonesia: essere sporchi non significa essere cattivi, ed è troppo facile
nascondere agli occhi quello che dà fastidio vedere e disturba la normalità
delle nostre vite.
Ma loro sono come noi, sono un unico grande sorriso che parte da Roma e
arriva fino agli slum senza fognature di Jakarta. Ma che è lo stesso in ogni
angolo oscuro del mondo; ed è là che noi dobbiamo portare la luce delle nostre
macchine fotografiche.
Grazie di cuore per avermi aperto le vostre porte e ai fotografi che mi
hanno accompagnato. Grazie ad Adriana, Ruti, Adamo e Alessandro.
Bisogna sempre credere nelle persone. Almeno dargli loro un'occasione.”
Questo scrissi quel lontano 2017. Da allora non ho mai più avuto
occasione di entrare in un campo Rom, ma nel febbraio del 2020 entrai in quello
enorme dei rifugiati Rohingya in Bangladesh.
La sensazione che rimane è sempre la stessa.
Che è poi una pratica psicologica tipica dell'essere umano, quella di
nascondere ciò che non è gradevole da vedere. Solo la profonda cultura
orientale sa apprezzare la bellezza dell'imperfezione.
Fin dall'apartheid nel Sudafrica degli anni Cinquanta, la pratica della
separazione\segregazione è una costante che attraversa i decenni e i
continenti.
Che va dal micro al macrocosmo degli esseri umani: la psicoanalisi ci
insegna come anche noi, nel nostro singolo, isoliamo nell'inconscio – provando
ad ignorarlo e rifiutarlo – ciò che ci spaventa e provoca repulsione della
nostra anima.
I campi Rom, come ogni ghetto, sono delle “nevrosi” della società.
Delle perversioni.
E, come il caro Freud scriveva, l'unico modo per sconfiggere le nostre
nevrosi è conoscerle, dare loro un nome.
Per questo motivo mi fa piacere riproporre a distanza di anni queste
semplici fotografie.
È bello vedere i sorrisi nella sporcizia.
Sarebbe meglio, poi, se quella sporcizia non ci fosse...
Caro Stef, quella realtà è una delle più significative che io abbia mai vissuto. Il campo di via Salviati è l'emblema dello stato assente, dello stato che si gira dall'altra parte. Io lì dentro ho trovato tanta umanità. Gli occhi increduli dei vecchietti vissuti nel regime comunista, occhi che guardavano i propri nipoti e pronipoti lasciati alla deriva mi ramaranno impressi per sempre. L'impotenza, la rassegnazione e anche quel pizzico di dignità appesantita dalle condizioni di vita mescolata con il dolore... sono tratti distintivi di quella generazione che custodisce la mamoria e che a breve non ci sarà più. O forse l'abbiamo già persa...
ReplyDeleteGrazie mille Adriana 🙏
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