Lo Specchio della Nostalgia

“Questi frammenti ho puntellato contro le mie rovine.” (T.S. Eliot)


 Sultana e suo marito nel negozio di sari. Torpignattara. Roma, 29 maggio 2021


Recentemente, durante un'uscita fotografica, mi è capitato di ascoltare una mia carissima amica, una signora del Bangladesh che gestisce da venti anni uno dei negozi storici di sari a Torpignattara, parlare con i partecipanti al corso.

Le avevo chiesto di raccontare delle molte persone che avevano lasciato Roma per trasferirsi a vivere all'estero, soprattutto a Londra.

Anche lei ha provato a vivere per un paio di anni a Londra ma, alla fine, è tornata a Roma. I suoi parenti che vivono in America la capiscono bene, sanno i pregi del nostro paese, il cibo, il bel tempo. Niente a che vedere con lo stile di vita inglese.

“E poi la gente! Io mi trovo veramente bene con tutti gli amici italiani che vivono qui.” Non c'è gente migliore, dice.

Questa cosa mi ha fatto riflettere un poco, e ne ho parlato anche con l'insegnante Stefano, mentre tornavamo a casa in macchina.

Niente di così sconvolgente, per carità, però non è male – ogni tanto – sentirsi valorizzati.

Premesso che non ho mai avuto forti afflati nazionalisti, l'inno nazionale o la mia bandiera non mi suscitano particolari emozioni; forse perché è ormai da quindici anni che convivo con le comunità migranti di Roma, e mi trovo perfettamente a casa mia a Giacarta come a Kuala Lumpur.

 

Il punto è un altro. Le parole di Sultana sono state come uno specchio in cui noi possiamo osservarci e darci un valore.

Fu proprio lei che, alcuni anni fa, mi scrisse (e ancora conservo quelle parole annotate) a proposito dei tanti anni di fotografie alla sua comunità, “Stefano, tu sei il nostro specchio della nostalgia”. Con un italiano un po' ambiguo ma, per questo, ancora più suggestivo.

Ci riflettevo questi giorni quando, finalmente con i vaccini in aumento, inizia a farsi prossima l'idea di tornare a viaggiare, che credo manchi ad ognuno di noi.

 

Lo specchio è uno degli elementi fondamentali nella psicologia cognitiva ed evolutiva. Lacan ne ha fatto uno stadio fondamentale dello stato evolutivo dell'essere umano: solamente quando il bambino riconosce sé stesso come altro da sé, allo specchio, inizia la fase vera e propria dell'evoluzione psicologica.

Se noi rimaniamo ancorati alla nostra “stanza”, alla nostra cultura e identità, non saremo mai in grado di apprezzarne le sue molteplici sfumature.

Abbiamo bisogno di uno specchio.

Questo penso sia il segreto del mio amore viscerale per le altre culture e popolazioni, come ho scritto molte volte.

Non solo. Ma ciò che è fondamentale, per me, è proprio vivere la dimensione dell'estraneità, nel senso fenomenologico dell'etranger di Albert Camus.

È troppo facile vivere un'intera esistenza seduti comodi nella propria poltrona senza uscire mai dalla porta. E in quella stanza sentirsi superiori, come il Re shakespeariano padrone dell'universo dentro il guscio di noce.



Io credo di non avere provato un'esperienza più ricca e costruttiva – anche distruttiva allo stesso tempo – del viaggio.

Dopo anni e anni trascorsi a dialogare con lo “straniero”, termine che è indissolubilmente legato in molte lingue con l'etimo di strano, è un esercizio importante quello di cedere sé stessi allo sguardo altro, che è maggioranza.

Viaggiare e trascorrere lungo tempo in terre lontane, ci insegna che vuol dire essere “straniero.” E quanto della nostra cultura o identità ci portiamo dietro come filamenti collosi.

Secondo me non esiste altro modo di apprezzare fino in fondo la nostra esistenza se non quello di porgerla su di un vassoio ad una moltitudine di sguardi che ci vedono come lo straniero, il diverso. La minoranza.

 

Ancora ricordo la rabbia che provavo quando, i primi anni che andavo in Indonesia, i bambini mi chiamavano “bulè”, il bianco.

Ti viene quasi voglia di strappare con le unghie la propria pelle per negare quell'evidenza. Non è facile mettere in secondo piano, in chi ci guarda, il proprio aspetto esteriore.

È come l'incubo del colore scuro della pelle in molte donne dell'Asia e del Subcontinente indiano.

Solo quando sei in quei luoghi lontani inizi a stilare un elenco di cosa ti porti dietro, come romano, italiano, europeo, occidentale...

Ti rendi conto di come vieni visto, non solamente come essere singolo ma come cultura e paese di provenienza, anche se spesso è tutta una melassa di luoghi comuni o di riferimenti a città europee lontane miglia dalla propria città – come molti italiani che chiamano “arabe” le donne musulmane, magari asiatiche, solo perché indossano il velo.

E laggiù ci sei solamente tu. Si ribalta ogni sistema di valore.

Ma è proprio quello l'unico modo, a mio avviso, per dare un valore alla nostra identità e a quella degli altri.

È il potere dello specchio.

 

E un meccanismo di specchi è il cuore interiore della macchina fotografica.

Una lente che scalpella ad ogni scatto l'identità di chi ci sta davanti, e la nostra.

Curiosa coincidenza che la mia amica bangladese ha usato il termine nostalgia, riferito allo specchio delle mie fotografie, perché nostalgia ha la radice etimologica nel ritorno.

È il dolore del ritorno.

Proprio come il dolore emotivo del bambino che si scopre allo specchio un essere separato dal mondo (e dalla madre).

 

Ma quello è il momento che ci permette di crescere.

 

Perciò torniamo al più presto a viaggiare. Mischiamoci, perdiamo e troviamo noi stessi. Una e mille volte.

Diventiamo tutti stranieri, in ogni luogo, che è l'unico modo di combattere il dolore della lontananza.


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