(La cosa più difficile è conoscere sé stessi.)
(Proverbio sardo)
Clotilde Porcedda con bambino sconosciuto. Sini, Sardegna, 1940 circa. |
Sono nata a ottobre del 1947, terza di sette figli. Quattro sorelle e tre fratelli.
I nostri nomi iniziano tutti con la lettere A perché a mio padre
piaceva così.
Agnese, il mio nome, Adriana,
Aldina, Angela, Antero, Anchise e Alessio.
I miei genitori si sono sposati quando mia madre aveva 21 anni e mio
padre 24.
Mia madre Clotilde era nata a Genuri, in provincia di Cagliari, nel
1920.
A differenza di molte famiglie sarde dell'epoca, loro erano solo due
sorelle ed un fratello, perché la mamma Grazia morì quando Clotilde aveva solo
9 anni.
Mentre mio padre, Giovanni Battista, aveva due fratelli e quattro
sorelle.
Nato nel 1916, a Sini, provincia di Oristano, dove tutti noi siamo
nati.
Giovanni Battista Casu. Sardegna, 1930 circa |
Io ho sempre amato moltissimo mio padre. Lui era sempre sorridente,
intelligente, e mi faceva sentire di essere la sua preferita.
Mamma era più severa.
Non è riuscita a finire la scuola elementare, arrivò solo alla terza
elementare. Povera mamma, sapeva appena leggere e scrivere, ma era necessaria a
lavorare nella campagna e nei terreni di famiglia.
Anche mio padre era un contadino, però lui riuscì a terminare la scuola
elementare.
Mi ricordo la storia di mia madre e mio padre.
Si dice che la sorella più grande di mia madre ebbe un figlio prima del
matrimonio, destando grande scandalo in paese, che poi morì pure appena nato,
povera creatura – era sul letto, sembrava dormire, invece non respirava più.
Mia zia fu obbligata da suo padre a sposare comunque il padre del bambino. Lui,
mio nonno, era un uomo molto severo, aveva studiato per diventare prete.
Non avrebbe mai tollerato altri scandali, così le sue figlie non
potevano mai uscire di casa, fino alla maggiore età che all'epoca si
raggiungeva a 21 anni.
Così mia madre, stava sempre seduta fuori la porta di casa, a ricamare,
con le altre sorelle. Durante le feste del paese mio padre veniva a Genuri,
aveva appena terminato il militare, e appena poteva andava a chiacchierare con
mia madre seduta fuori casa. Niente di più era concesso. Assolutamente proibito
uscire da soli e incontrarsi in paese.
Fu così che si sposarono presto; appena compiuti i 21 anni. Era il
1941.
Mi ricordo che mio nonno era veramente tremendo. Nonno Cesare, neanche un'arancia dall'albero nel giardino potevi cogliere, solo quelle cadute per terra.
Le mie nonne non le ho mai conosciute, erano già morte prima che
nascessi. Solo entrambi i nonni.
Nonni paterni di mia madre. Sardegna, fine 1800 circa. |
Giovanni Battista (ultimo a destra in piedi) con gli amici del servizio militare. Sardegna, 1936 circa. |
Contadini da generazioni, mia madre e mio padre vennero ad abitare a Sini, dove facevano i coltivatori diretti. Hanno sempre lavorato la terra e il bestiame.
All'epoca Sini era un piccolo paesino che faceva neanche mille
abitanti.
Avevamo solo la scuola elementare, la scuola media era a 30 chilometri
di distanza, ad Ales, e ci voleva la corriera per andarci, perciò noi
primogeniti arrivammo solo alla scuola elementare. La prima scuola media aprì
in paese nel 1962, perciò solo i miei fratelli e sorelle più giovani ci
andarono.
Io ho abbandonato la scuola nel 1958, a dieci anni e ho iniziato a
lavorare nei campi con mia sorella Aldina, più piccola di me di tre anni – noi
due eravamo sempre insieme.
Ma già a 6 anni, terminate le lezioni, andavamo al pascolo a guardare
le mucche di papà. Mi ricordo che ognuna di noi aveva la sua mucca, la mia si
chiamava “Sannoredda”, che in dialetto significa “signorina” perché era molto
elegante, e quella di Aldina si chiamava “Delicata”.
Mentre mio padre seguiva il bestiame al pascolo, io e lei passavamo il
tempo giocando al mercato, con fili di erba e pietre a interpretare colei che
vendeva e colei che comprava. Mentre Sannoredda e Delicata muggivano beate
vicino a noi.
Finché non andammo a scuola non sapevamo neanche parlare italiano,
solamente in dialetto. A scuola disegnavamo le aste delle lettere sui quaderni
a quadretti e poi di corsa fuori a giocare alla corda, a nascondino, o a
prendere l'acqua alla fonte con le otri di terracotta tenute sulla testa o al
fianco.
Poi, nel 1954 arrivò la prima televisione.
La prima famiglia ad averla fu quella della nostra maestra. Lei era
così buona che apriva la porta di casa a tutta la nostra classe – noi andavamo
ogni giorno tutti quanti a vedere la TV per un'ora, seduti per terra.
Poi anche il sindaco e le due, tre famiglie più ricche del paese
poterono vantarsi della televisione.
Noi non l'abbiamo mai avuta, neanche il frigorifero o la lavatrice.
Furono tra i primi regali che facemmo a mia madre con gli stipendi del
nostro lavoro fuori la Sardegna.
Non che fossimo poveri, anzi, la nostra era una famiglia benestante, di
ottimi agricoltori. Mio padre vendeva tutti i prodotti che produceva per le
fiere di paese.
Avevamo una case molto ampia, con nove stanze, due piani, due entrate
nel muro di cinta, un orto con gli alberi da frutto e il pozzo più grande del
paese.
E tanti animali, veramente tanti.
L'asino che macinava il grano, le galline per le uova, maiali, conigli,
pecore, cani e gatti.
Clotilde a 20 anni |
Clotilde con le zie, 1969 |
Aldina in una foto di classe, 1957 |
È stata un'infanzia felice, anche se tutti noi figli abbiamo iniziato a
lavorare sin dai primi anni della fanciullezza.
Ma all'epoca era così, si nasceva tutti in casa, con una sola levatrice
già anziana quando fece nascere me, che aveva fatto partorire in casa tutti i
bambini del paese. Dolla, la chiamavamo in dialetto.
Io avevo la mia amica del cuore, Ignazia, che era la figlia della
maestra. Eravamo inseparabili. Ma poi lei si trasferì a Cagliari, per accudire
la bambina di una nonnina. A me mancava tantissimo, perciò terminata la scuola
implorai a mio padre di lasciarmi andare a lavorare a Cagliari. Avevo 13 anni.
Lui non voleva; dicevo che ero troppo piccola per lavorare lontano da
casa. Cagliari dista 80 chilometri da Sini, ma all'epoca sembravano una
distanza immensa.
Però io volevo andarci a tutti i costi, mi mancava moltissimo Ignazia e
sapevo che lavorava bene e guadagnava: io volevo comprarmi un vestitino nuovo,
era stanca di indossare sempre gli stessi abiti cuciti da mia madre, che ci
passavamo tutte noi sorelle.
Poiché io ero la preferita di mio padre lui dovette cedere ai miei
pianti e acconsentì a portarmi a Cagliari. Io lo so che lui confabulò con la
nonnina, in quella casa: “Io la lascio qui mia figlia, tanto vedrà che tra
pochi giorni implorerà di tornare a casa”.
In effetti ogni notte piangevo, perché mi mancava la mia famiglia, ma
di giorno ero sempre felice. La nonnina, ogni mattina, mi domandava: “Come
stai? Hai nostalgia? Vuoi tornare?”. Niente, io ripetevo che ero assolutamente
felice di stare là a lavorare. Ci restai per un anno. Avevo 14 anni.
Agnese in Sardegna, 1963 \ 64 |
Agnese con fratellino e sorellina in braccio, 1963 |
“Quanto ti pagano, bella bambina, per fare la bambinaia?” “2.500 lire”,
io rispondevo. “Se vieni da me ti darò il doppio: 5.000 lire!” Bene, così
cambiai famiglia. Ma loro avevano quattro bambini ed io ero sempre stanca.
Perciò accettai quando un'altra signora, sempre nel parco dove portavo i figli
a giocare, mi propose di lavorare per lei a 10.000 lire.
Sono rimasta a Cagliari fino ai 15 anni. Avevo anche un fidanzatino.
Poi le mie sorelle mi dissero che a Roma pagavano addirittura 20.000
lire.
Così mi trasferii a lavorare laggiù, dove incontrai tuo padre.
Era il 1964, avevo 16 anni. Ci sposammo nel 1970.
Ma non fu tutto sempre così felice.
Prima di partire per Roma ci fu il dolore più grande della mia vita.
Io avevo ancora 13 anni quando il mio amato papà Giovanni Battista si ammalò di tumore all'intestino.
Io lavoravo già a Cagliari, sapevo che stava molto male.
Già prima di partire lui aveva venduto tutto il bestiame, aveva tenuto
solo un gregge di 200 pecore. Ogni giorno io andavo con lui al pascolo, per
controllare le pecore – e lui.
Io le odiavo quelle stupide pecore, mi sembravano tutte uguali.
Poi, giorno dopo giorno, ho imparato a conoscerle. Avevo capito che
ognuna di loro aveva il proprio carattere. Erano giorni felici.
Quando ero a Cagliari mi dissero che mio padre girava tutti gli
ospedali della zona, ma alla fine i dottori gli dissero che non c'era più nulla
da fare. Due anni di vita, non di più, gli dissero.
Allora lui mollò tutto quanto e resto a casa. Là voleva morire.
Fece in tempo a concepire anche l'ultimo figlio, Antero.
Agnese (25 anni) con le sorelle più giovani |
Foto delle sorelle anni 1963\68 circa |
Io volevo tornare a casa, ma mia madre non voleva che vedessi mio padre così malato – sapeva quanto io fossi legata a lui.
“Sta bene”, mi diceva, “sta bene”.
Io non ci credevo.
Perciò un giorno tornai a casa. Prima di entrare vidi mia sorella dal
buco della serratura: era vestita tutta di nero. Mi aprì la porta, e vidi anche
mia madre vestita di nero.
Allora corsi su per le scale. Lo cercai nelle stanze.
Niente.
Era già morto. Il 1 settembre del 1962.
Avevo 15 anni, e per due anni ho odiato profondamente mia madre e le
mie sorelle, senza rivolgere loro la parola, perché me lo avevano tenuto
nascosto. Senza darmi la possibilità di salutarlo per un'ultima volta.
Da quella notte, per ogni notte, fino ad oggi, ogni volta che chiudo
gli occhi prima di dormire, spero e prego che lui possa apparirmi in sogno, per
salutarmi. Come sarebbe stato giusto che accadesse.
Ma fino ad adesso, non ho mai sognato mio padre.
Dopo sposata, tornai a Sini ogni anno, finché mamma venne a vivere a
Roma, nel 1972. Lei e Aldina hanno vissuto sempre nella stessa casa, insieme,
fino alla sua morte il 17 agosto del 2007.
Nel 2015 abbiamo venduto tutti i terreni di Sini.
Questa è stata la mia infanzia.
Aldina con la sua fotografia a 13 anni. Roma – 29 gennaio 2021 |
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