Le Ali Sulla Città – La Storia Di Shimu (Prima Parte)


© Gael Turine
© Gael Turine

Per tutti era Shimu, ma aveva anche un altro nome.

Lei e Tushar erano cresciuti insieme in una traversa di Pablock Road, nel quartiere di Mirpur, nella parte occidentale di Dhaka.

Le loro case confinavano ed erano separate da un muro in mattoni rossi alto circa due metri e poco più. Un albero si affacciava dalla parte dell'abitazione di Tushar, la cui chioma valicava il muro ombreggiando parte del cortile di Shimu.

Sin da bambini avevano sempre giocato insieme per le strade polverose del quartiere ed avevano frequentato la Mirpur Cantonment Public School & College.

Shimu viveva con la sua famiglia: il padre, Fakhrul,dalla folta barba nera e l'estremità color ocra come i denti consumati dal betel*, guidava il rickshaw da sempre e quando non era al lavoro trascorreva il suo tempo alla moschea Mirpur Ceramic Factory Jame, vicino casa. Sua madre, Ishrat, era una donnina minuta che lavorava in una delle tante industrie tessili della zona, insieme a due dei fratelli di Shimu.

“Li vestiamo tutti noi in Europa!” Amava ripetere con orgoglio Shariful, suo fratello maggiore. L'altra sorella si era già sposata da anni e viveva all'altro capo di Dhaka e non si vedevano quasi mai.

 

Shimu era una sognatrice. Fin da bambina.

Per Tushar i momenti con lei erano i migliori della sua adolescenza.

Appena potevano prendevano un rickshaw o un cng* e andavano verso Dhanmondi, non tanto per i centri commerciali e i ristoranti alla moda, ma perché Shimu amava vedere Dhaka dall'alto. Lei invidiava le sue compagne di classe che abitavano nei piani alti dei palazzi grigi del  quartiere. Tushar lo sapeva e cercava di portarla nei bar o nei locali pubblici ai piani alti delle torri che spuntavano come spine di durian nelle strade trafficate di Dhanmondi.

 




 

Shimu appiccicava il naso e la fronte al vetro e guardava in basso, con gli occhi brillanti.

Indimenticabile fu il 2009, da poco era uscito nei cinema il film di Giasuddin Selim, “Monpura”*. Erano andati a vederlo insieme, ancora al primo anno di scuola.

Oh, Shimu era rimasta estasiata. Tornando si fermarono seduti su dei mattoni rossi a qualche traversa da casa.

Quando l'attrice Farhana Mili, sulla canzone “Jao Pakhi Bolo Tare”, sogna di incontrarsi con il suo innamorato e la telecamera si alza su loro due nella barca sul fiume, come una libellula, Shimu ebbe quasi le lacrime agli occhi.

“Quanto sarebbe bello poter volare come un uccello in alto, vedere ogni cosa, ogni miseria e sporcizia da lontano.” Diceva con lo sguardo perso nel vuoto.

“Ma perchè? Che c'è di così brutto nella terra?” Le rispose Tushar strofinando la mano sulla terra polverosa ai suoi piedi.

“Io vorrei lasciare tutto questo un giorno, mi piacerebbe volare lontano, viaggiare. Sono stanca di tutto questo traffico, questo brulicare di persone che sembra non vadano da nessuna parte e ovunque. Di questa terra grigia punteggiata dal rosso del betel sputato. Non sarebbe bello? Volare come nel film? Sopra l'acqua azzurra e verde?”

Disse Shimu con entusiasmo a Tushar che, di colpo, balzò in piedi ed inizio a muovere le mani come ali imitando l'attore del film, correndo in cerchio attorno alla ragazza.

"Jao pakhi bolo taar-e
she jeno bhole na mor-e
shukhe theko bhalo theko
mone rekho e amar-eeee....*”

“Dai!!! Basta! Stupido!”

Le urlava lei sorridendo, mentre lo seguiva roteando la testa.

Tushar si fermò davanti a lei, con le mani sulle cosce e con il fiato grosso.

“Uff... Bene, se è così che vuoi da oggi ti chiamerò Pakhi*.”

“Pakhi???” Ripeté Shimu un poco confusa.

“Se ti piace volare ed essere un uccello meglio chiamarti Pakhi, tick ache*?”

Da quel giorno Shimu fu Pakhi, per Tushar.

 

Gli anni trascorsero.

Fino all'ultimo anno di scuola.

Ogni sera Tushar si arrampicava come una lucertola sul muro, per sedersi sul bordo con le gambe a penzoloni ad osservare Shimu che lavava il suo salwar kamiz* nella tinozza in rame.

“Pakhi!” La chiamava con voce squillante.

Lei lo guardava un attimo, scuotendo la testa, e tornava a raschiare con forza il pezzo di sapone sul tessuto bagnato, con un sorriso nascosto dai lunghi capelli neri.

Non si poteva affermare che fosse una bella ragazza. C'era chi la guardava a scuola, ma lei era piuttosto schiva, parlava più che altro con le sue amiche e Tushar quando uscivano in strada, davanti al portone in ferro della scuola, per mangiare al volo qualcosa, tra la miriade di voci e risate.

 


 

Era magrolina, ma il viso era ovale dal colorito ambrato, gli occhi sembravano prendere metà volto e le labbra erano morbide e spesse come polpa di papaya. Le nocche delle dita erano di un marrone più scuro rispetto al colore della pelle ma le unghie sembravano quasi rosa.

Shimu aveva chiesto, come favore, di non chiamarla Pakhi davanti agli altri, a scuola o in famiglia, aveva timore che qualcuno potesse prenderla in giro o che domandasse troppo.

 



Le giornate si ripetevano simili, una dopo l'altra, tra la scuola, lo studio e la famiglia.

Suo fratello Shariful ormai discuteva ogni sera con suo padre. La ragazza e sua madre li ascoltavano dalla cucina; sembrava dovesse diventare un sindacalista. Ishrat era molto preoccupata per questo.

“Non abbiamo più diritti! Ci mungono peggio delle mucche e quando le mammelle sono secche come otri vuote ci buttano a mare!” Parlava a voce alta e testa con suo padre.

“Quante fabbriche di tessile ci sono qui a Mirpur, abba*?

Ogni strada ne ha una decina: ci sono più fabbriche tessili che scuole! Meglio mandare i nostri figli a cucire che a provare ad avere un futuro migliore, no?”

La madre temeva per il cuore di suo marito. Si affacciò dalla porta della sala, con il viso preoccupato.

“Figlio, calma...” Shimu era dietro di lei che ascoltava.

“Guarda ammu*!” Urlò indicando sua madre. “Come fai a non vedere? Le hanno preso metà della sua vita. Per chi poi? Mica noi, no! Per gli occidentali che si fanno belli, si atteggiano con capi firmati...”, diceva Shariful camminando con la pancia in fuori e le mani a reggersi la maglietta come se fosse il bordo di una giacca,“...ignorando che sull'etichetta c'è scritto MADE IN BANGLADESH! MADE IN MIRPUR! E se ammu fosse stata una delle mille vittime del Rana Palace*? Allora mi daresti ragione, vero?!”

Shimu spiava dal bordo della porta; la madre si era già avvicinata alla poltrona dove sedeva suo marito Fakhrul.

“Basta! Non parlare così a tuo padre! Che colpa ha lui?”

Urlò la donna più con la smorfia del viso che con il tono della voce.

“Lasciamo perdere! Meglio che esco, almeno domani sarò calmo e pronto per la mungitura!” Disse il fratello uscendo, sbattendo la porta.

Quelli erano i momenti che Shimu avrebbe voluto spiccare il volo.

Allora usciva in cortile e da dietro il muro chiamava a bassa voce il suo amico.

Dopo dieci minuti vide il viso sorridente di Tushar sbucare sopra il muro in mattoni.

“Portami via...” Gli disse lei sorridente.

 

Presero un CNG e vagarono per le strade di Dhaka che stava già calando il sole.

Ma quelle strade non conoscevano orario, né il sole o la luna. Il moto continuo delle persone che si muovevano in ogni direzione non aveva sosta.

Shimu le osservava tra le grate verdi del veicolo bloccato nel traffico, con l'ulna verde-oro del vestito a coprire il naso e la bocca per lo smog.

“Ma secondo te che si dicono le formiche quando si scontrano una contro l'altra percorrendo la loro fila?”

Domandò la ragazza a Tushar che le sedeva accanto, pressato nello spazio angusto.

Lui la guardò con un'espressione tra l'interdetto e chi cade dalla nuvole.

“Eh...?”

Lei scoppiò in una risata: “Niente, niente...”

Shimu era un'attenta osservatrice, non le sfuggiva nulla.

Entrarono in una palazzina a Batighor.

Dentro l'ascensore che saliva lei gli chiese dove la stesse portando.

“In biblioteca”, rispose Tushar eccitato.

“Tu? In biblioteca?” Esclamò incredula la ragazza.

Appena entrati lui la prese per la mano e la trascinò tra gli scaffali pieni di libri.

“Pakhi, Pakhi... Non ti fidi mai di me.”

Uscirono su di un piccolo balconcino e lui la fece affacciare sul lato sinistro. Una ragazza stava leggendo un libro sorseggiando una bibita, seduta su un piccolo tavolino rotondo in ferro alle loro spalle.

Quando Shimu rivolse lo sguardo in basso fu colta da una felicità profonda. Su di un tetto di un palazzo basso degli uomini stavano consumando il loro pasto, seduti in diversi tavoli o in piedi.

  




 

Shimu puntò i gomiti sul bordo del terrazzo e con il mento sulle due mani osservò a lungo quel movimento casuale di punti neri sulla superficie della mattonelle grigie.

Avrebbe potuto trascorrere delle ore così – la rilassava.

Si dimenticava di ogni cosa.

Tushar, nella stessa posizione di lei, alla sua sinistra, guardava in basso e il volto della ragazza, cercando di comprendere cosa lei ci vedesse di così particolare in quelle piccole formiche umane. Iniziò a canticchiare a voce bassa.

“Meghrer opor akash hours
nodir opar pakhir basha
mone bondhu boro aasha...*”

 

Quello era uno di quei momenti apparentemente privi di senso ma che poi ricordiamo con malinconia, quando l'età ci ha spinto a largo da quei lontani giorni.

 

L'ultimo sbuffo della loro adolescenza, prima della fine della scuola, fu la festa di Falgun*, il 14 febbraio.

Come tutti i giovani, e la gente di Dhaka, quella mattina anche loro si riversarono nelle strade e nei parchi del centro della città, con abiti color arancio e giallo e le gote dipinte.

Tushar e Shimu andarono nel parco della Dhaka University, insieme ai compagni di scuola; non prima di essere passati a Shabagh, il mercato di fiori adiacente all'università per comprare i fiori da infilare tra i capelli.

 



Risero e fecero giochi di ogni tipo.

Nel pomeriggio Shimu e le sue compagne fecero il tifo per i ragazzi che si sfidarono in una lunga partita di cricket nel parco di Suhrawardy Udyan, di fianco al campus.

L'entusiasmo era palpabile come la polvere ruvida di terra che si alzava nella corsa dei ragazzi.

Fu l'ultimo Falgun che celebrarono come adolescenti.

 


Shimu avrebbe voluto continuare con l'università ma i soldi non erano abbastanza. Sapeva che sia suo padre che sua madre stavano stillando le ultime gocce di energia prima di tirare i remi in barca.

Non fu neanche sua madre a chiederglielo ma lei stessa a dirle che avrebbe cercato un lavoro come domestica in qualche casa. Che non doveva preoccuparsi.

Questo fece arrabbiare ancora di più suo fratello che ormai era entrato nel sindacato dei lavoratori.

La ragazza rassicurò la madre che era ciò che voleva, non doveva essere triste.

Per Tushar non ci fu nessun dramma o il minimo dubbio.

Sapeva bene che avrebbe lavorato, molto probabilmente suo padre sarebbe riuscito a farlo entrare nella compagnia che stava costruendo il metro rail, il treno sopraelevato che era la speranza di tutti per risolvere il terribile problema del traffico, anche se ognuno – in cuore suo – sapeva che poco sarebbe cambiato.

Shimu era certa che non avrebbe seguito sua madre e suo fratello in una delle dozzine di fabbriche tessili. Lei voleva almeno salire e non scendere sotto terra, o la sua luce sarebbe stata spenta per sempre.

 

La sera precedente al suo primo giorno di lavoro, dopo avere steso ad asciugare sul filo in cortile il salwar kamiz migliore, rosso e verde, si avvicinò al muro in mattoni, sotto la chioma dell'albero.

Guardò le stelle e sussurrò.

“Tushar...? Tushar...?”

Dall'altro lato del muro penetrò, dopo un po', la voce di lui come vento tra i mattoni.

“Jao pakhi bolo taar-e
she jeno bhole na mor-e
shukhe theko bhalo theko
mone rekho e amar-eee.....”

 

Shimu sogghignò a labbra strette.

“Scemo...”

Bolo Pakhi*...” Le disse.

La ragazza premette la guancia sinistra sulla superficie ruvida dei mattoni, con la brezza serale che le faceva danzare i capelli neri davanti al viso e, con una lacrima che le rigava la pelle, bisbigliò.

“Dove mi porti stasera...?”

 





CONTINUA...

*Il betel (Piper betle L.) è una pianta appartenente alla famiglia delle Piperacee. In molti paesi asiatici il betel viene masticato affinché vengano lentamente rilasciati gli alcaloidi. Questo bolo è composto da sottili fette della noce, spolverate di calce e avvolte in foglie di pepe di betel.
L’idrossido di calce è aggiunto per consentire una migliore “estrazione” degli alcaloidi durante la masticazione del bolo; lo stesso fanno i consumatori di foglie di coca; per aromatizzare il bolo vengono aggiunte delle spezie come il cardamomo o la noce moscata.
Il blando effetto narcotico, il sapore aromatico piccante, è dato dalla foglie di pepe con intorpidimento della lingua e secchezza delle fauci. Coloro i quali masticano il betel quid – assieme all’idrossido di calce – hanno la bocca e i denti di un colore rossastro diffuso o marrone per gli abbondanti tannini della calce, come l’ac. gallico.
Il betel è la quarta sostanza psicoattiva più auto-somministrata al mondo dopo la caffeina, l’alcol e il tabacco ed è quella più comunemente usata in Asia. Si stima che oltre 600 milioni di persone utilizzino il betel quid in tutto il mondo. (www.insostanza.it)
*I cng sono uno dei mezzi di trasporto di Dhaka: tricicli a motore su cui è montata una gabbietta in ferro con un sedile all'interno.
*“Monpura” è stato un blockbuster in Bangladesh, uscito nel 2009, diretto da Giasuddin Selim, la cui canzone principale “Jao Pakhi Bolo Tare”, composta da Arnob e interpretata da Krishnokoli, racconta del dialogo tra due innamorati attraverso un uccello usato come messaggero.
* “Vola uccello da lui,
chiedigli di non dimenticarmi mai.
Sii felice, sii contento,
per favore ricordati di me.”

*Pakhi significa uccello.
*“Sei d'accordo?”
*Abito femminile composto da pantaloni leggeri e una blusa con il velo chiamato ulna che cade sulle spalle o i capelli.
*Padre.
*Madre.
*Per un cedimento strutturale avvenuto il 24 Aprile del 2013, il Rana Palace, un edificio commerciale di otto piani crollò a Savar, un sub-distretto di Dhaka, con 1.129 vittime e circa 2.515 feriti estratti vivi dal palazzo. L'edificio conteneva una banca, appartamenti e altri negozi e fabbriche di abbigliamento. Appena furono notate le crepe venne chiuso tutto e sgombrati gli appartamenti, tranne le fabbriche tessili ai piani inferiori, anzi i lavoratori (tra cui moltissimi bambini e bambine) furono minacciati di perdere il lavoro se non fossero venuti a lavorare al mattino dopo, proprio quando ci fu il crollo. Emerse poi che in quella fabbrica si produceva abbigliamento per molti marchi famosi americani ed europei.
* “Il cielo vola sopra la nuvola,
il nido dell'uccello attraversa il fiume
Il mio cuore è pieno di speranza.”

*Pohela Falgun (bengalese: পহেলা ফাল্গুন Pôhela Falgun o পয়লা ফাল্গুন Pôela Falgun), noto anche come il primo giorno di primavera del mese bengalese Falgun, è una festa celebrata in Bangladesh. La celebrazione ebbe inizio nel 1991 grazie agli studenti della Facoltà di Belle Arti dell'Università di Dhaka. Il primo di Falgun di solito cade il 13 febbraio del calendario gregoriano.
*“Dimmi, uccello”

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