Ikapati by Galo B. Ocampo |
Recentemente mi sono occupato del tema del colore della pelle, messo su
carta nell'appendice del libro “Corpi e identità – Donne dal Subcontinente
indiano all'Italia” scritto dalle mie amiche Sara Rossetti e Katiuscia Carnà.
È un argomento che mi sta molto a cuore e che è stato un motivo
dominante in tutti questi anni di fotografia e ritratti di donne asiatiche.
Nella mia appendice faccio riferimento al bel saggio di Pier Giorgio Solinas
intitolato “Colore di pelle colore di casta – Persona, rituale, società in
India”, in cui lui parla di “semantica dei colori” nella filosofia e cosmogonia
induista che permea non solo l'Induismo in India, ma – a mio avviso – anche
parte della cultura, arte e concezione della vita in molti paesi dell'Asia,
veicolato dai poemi epici indiani che sono nella trame di molti di questi
paesi.
Solinas ne parla nel capitolo “Colore di pelle colore di casta”.
Lo studioso analizza, da antropologo, un area ben circoscritta
dell'India, iniziando però con l'analisi dei quattro colori primari, o
sostanze, più ricorrenti nelle cerimoniali popolari della liturgia hindu.
Precisamente sono quattro:
il gobar, lo sterco di vacca, che è il nero;
il sindur, il pigmento naturale rosso, o vermiglione (solfuro di mercurio);
il turmeric, la curcuma domestica gialla;
il riso, sia macinato, crudo o cucinato, che è il bianco.
Questi quattro elementi-colori che compongono il cosmo simbolico
induista innervano ogni aspetto delle esistenze delle persone.
Un argomento complesso e affascinante, che non si estingue nel passato
o nella filosofia ma che ancora incide in modo prepotente nella visione
personale della bellezza in molte ragazze e donne dell'Asia.
Così mi sono messo a fare qualche ricerca, per vedere anche come gli
altri paesi avevano affrontato questa problematica, affidandomi questa volta
alle fiabe.
Io ritengo che le fiabe, i proverbi, le canzoni popolari, siano il
ripostiglio della cultura e delle credenze dei popoli. Ho detto ripostiglio
perché di solito viene considerato in modo minore, laddove negli scaffali delle
librerie ci sono la grande letteratura, i poemi, l'arte sublime della pittura e
della scultura. Il vanto di ogni nazione.
Ma anche dalle fiabe si può comprendere molto, cito uno su tutti lo
splendido libro di Tagore, “I misteri del Bengala”, una raccolta di storie di
fantasmi e misteri a modo di favola del grande premio Nobel.
Insomma, è così che sono venuto a conoscenza della fiaba filippina sul
mito di Magbabaya.
La fiaba narra del dio Creatore Magbabaya, il quale volle popolare la
Terra desolata e vuota di persone, perciò scese dal cielo e fece delle figurine
umane con la creta da asciugare al sole. Tornato dalla caccia si rese conto di aver
dimenticato le statuine a lungo sotto il sole e si accorse che la creta era
ormai bruciata, completamente nera come il carbone.
Allora il giorno dopo, fatte di nuovo le figure con la creta, le
protegge all'ombra di un albero e va a caccia. Ma al suo ritorno constata che
le figurine erano troppo pallide questa volta.
Così il terzo giorno, dopo avere completato le nuove statue di creta,
le mette sotto il sole ma – questa volta – rimane a controllare finché il sole
inizia a diventare troppo forte, allora le copre con delle foglie di albero, e
alla fine è soddisfatto del perfetto colore bruno simile a quello della sua
pelle.
Prende allora i tre tipi di statue di creta, ci soffia sopra per dare
loro la vita e le distribuisce nei diversi angoli della Terra, ognuno con i
diversi colori di pelle: ovviamente le persone con il colore bruno perfetto
erano gli abitanti delle Filippine, simili al dio stesso.
Comunque non è tanto di questo che volevo parlare, bensì di qualcosa
che mi ha incuriosito molto di più.
Sempre vagando tra i sentieri di queste antiche tradizioni filippine,
mi sono imbattuto nella cosmogonia delle divinità di questo paese da me
totalmente ignorato. La colonizzazione spagnola ha asfaltato – come purtroppo
spesso accade – le specificità etnico-religiose del popolo filippino, e fino a
oggi tutti conoscono questa nazione come una tra le più cattoliche al mondo.
Ma per fortuna le credenze, la spiritualità, l'antica saggezza è dura
da estirpare, soprattutto in un paese con centinaia e centinaia di gruppi
etnici e tribali.
La mitologia classica filippina, così come l'insieme delle religioni
popolari indigene filippine, chiamate Anitismo, risalgono a centinaia di
anni fa, e per alcune migliaia di anni fa.
Districarsi tra questa folta pletora di figure mitologiche, eroi,
divinità (divisi in anitos e diwatas) e spiriti ancestrali (ninuno),
è quasi impossibile, perché essi variano a seconda del gruppo etnico di
riferimento. Perciò non solo tra le diverse regioni delle Filippine, tra nord e
sud, ma anche all'interno di ogni singola regione ogni gruppo etnico ha il suo
pantheon di divinità.
Faccio un esempio: nel pantheon Ifugao, il gruppo etnico della Cordelliera
nel nord del paese, le divinità da sole sono calcolate in almeno 1.500. Bene,
ci sono oltre un centinaio di pantheon distinti nelle Filippine.
Per rendere l'idea della moltitudine di divinità che non ha nulla da
invidiare a quella induista, per esempio, anche se là si va oltre il centinaio
di milioni.
Sebbene in generale ogni filippino si rivolga a queste divinità o
spiriti ancestrali con il termine anito, poi ogni gruppo etnico e
regionale fa caso a sé con i differenti nomi e caratteristiche dei singoli.
Lakapati |
È proprio scorrendo i nomi e le personalità di tutte queste divinità
che mi sono imbattuto in Ikapati, o Lakapati, la divinità androgina,
ermafrodita, per molti addirittura transgender.
Visto che in Italia non è passata, da poco, una legge in Senato a
protezione dei diritti delle minoranze sessuali LGBT, scatenando un forte
dibattito nella società, mi è sembrato un perfetto tempismo.
Perciò credo valga la pena approfondire.
Va detto che non è un unicum nei pantheon delle divinità nelle diverse
tradizioni.
Nello stesso Induismo è celebre la figura di Shikhandi, uno dei
personaggi non secondari del grande poema epico Mahabharata, la quale svolse un
ruolo fondamentale nella vittoria di Arjuna nella battaglia finale di Kurukshetra.
La sua storia è anche interessante: una storia di vendetta che
intreccia le vite di Bhishma e Amba.
Prima di chiamarsi Shikhandi, lei era la prima di tre sorelle, con il
nome di Amba, principesse del regno di Kashi.
Bhishma, fatto voto di celibato, rinunciando al trono della dinastia
Kuru, si propose di cercare moglie per il suo fratellastro Vichitravirya il quale
divenne erede e sovrano.
Per questo motivo Bhishma si recò nel regno dove vivevano le tre
sorelle, proprio durante la cerimonia swayamvara (un evento in cui i
principi si contendevano una sposa), respinse tutti gli altri potenziali
pretendenti e condusse le tre principesse ad Hastinapura (la capitale Kuru) per
far sposare loro suo fratello Vichitravirya. Ma se le due sorelle giovani
furono ben felici di sposare il potente re, Amba rifiutò poiché era già
promessa in sposa a Shalva. Allora Bhishma le concesse di tornare dal suo
amato, ma lui rifiutò la donna considerandola già “corrotta”.
Anche Vichitravirya la respinse perché il suo cuore era già devoto ad
un altro, e quando disperata la donna si propose a Bhishma, colui che le aveva
infranto tutti i piani, fu di nuovo rifiutata a causa del voto di celibato.
Amba, in preda alla rabbia a assetata di vendetta, chiese aiuto a Shiva
che le concesse un ruolo fondamentale nella morte di Bhishma nella vita
successiva. Senza attendere Amba si tolse la vita per rinascere come Shikhandi.
Qui ci sono diverse versioni, ma tutte concordano – seppure con
variazioni – nel parlare di Shikhandi come nata femmina ma trasformata poi, da
Shiva o da un demone nel bosco, in un transgender, affinché ricordasse la sua
vita precedente di donna. In tale vesti, poiché Bhishma lo riconobbe come
incarnazione di Amba e rifiutò di combatterla, Shikhandi permise a Arjuna di
trafiggerlo con le frecce e ottenere la sua vendetta.
Shikhandi |
Torniamo a quella che può essere considerata una delle divinità più
intriganti della mitologia filippina, Ikapati (o Lakapati), la dea tagalog
della fertilità. F. Landa Jocano la descrisse come la “dea della terra
coltivata” e la “benevola datrice di cibo e prosperità”, il cui nome stesso
significa “datrice di cibo”.
Non è forse un caso che il nome venga dal sanscrito, e significhi
letteralmente “Signore del mondo”, loka (luogo, terra, campo) e
pati (padrone, signore), che poi era anche un epiteto di “Brahman il
Creatore” e “Vishnu il Conservatore”.
L'essere ermafrodita, transgender, dotata di entrambi i sessi, la rende
il simbolo perfetto della fertilità, anche se in alcuni commentari, tra cui
quelli dei frati, Ikapati è descritta come “il diavolo ermafrodita che soddisfa
il suo appetito carnale con uomini e donne”.
A lei si rivolgevano i contadini nel campi quando vi era carestia, così
come i pescatori che salpavano in mare.
È rappresentata iconograficamente come un uomo e una donna uniti che
rappresenta il potere creativo dell'unione dei due sessi; protettrice dei campi
seminati, dell'agricoltura, dei vagabondi e degli orfani.
Durante i rituali e le offerte – noti come maganito – nei campi e durante la stagione della semina, i contadini sorreggevano un bambino in aria mentre invocavano Lakapati e cantavano “Lakapati, pakanin mo yaring alipin mo; huwag mo gutumin” (Lakapati, dai da mangiare a questo tuo schiavo; non lasciarlo affamato).
Ero totalmente all'oscuro sia di questa divinità, sia della immensa
quanto antica tradizione mitologico-religiosa e divina delle Filippine,
nonostante siano oltre quindici anni che provo a studiare questa cultura e
popolo da me amato.
Due cose mi hanno dato da pensare.
La prima la accennavo all'inizio. Nonostante i complessi legati al
colore della pelle, c'è nella favola di Magbabaya qualcosa di non nuovo in
ambito antropologico, ovvero la capacità che hanno le culture e i popoli di
creare mitologie che si adattano alle proprie esigenze ed esperienze. Laddove
il colore della pelle è quello bruno, diventa necessario che il dio Creatore
sia dello stesso colore di pelle e ritenga degli errori i colori di pelle
chiari o più scuri. Peccato che, nel presente, molti tra i filippini,
soprattutto donne, abbiano dimenticato questa loro favola.
Le aiuterebbe a disfarsi di quel senso di inferiorità verso il
dominatore dalla pelle bianca, che rimane ancora un modello da imitare e invidiare.
Evento della comunità filippina. Roma, giugno 2013 |
Secondo, mi ha sempre colpito l'amore e spesso l'orgoglio delle madri
filippine per i propri figli omosessuali, sia maschi che femmine, e anche
transgender.
Non è così scontato perché rimane uno dei popoli al mondo più
profondamente cattolico e devoto. E noi italiani, che non siamo di certo così
fervidamente credenti come loro, non riusciamo neanche ad accettare una legge
che impedisca a qualcuno\a di essere aggredito o umiliato per il suo
orientamento sessuale.
Eppure raramente ho visto una madre guardare con tanto orgoglio e
vantare la bellezza di un figlio omosessuale, come nelle madri filippine.
Perché, alla fine, il discorso non è tanto sull'identità sessuale dei
figli ma, semplicemente, di quanto una madre sia in grado di amare.
A prescindere.
E qui secondo me si tirano le fila del discorso.
Così scrive Syama Allard nel suo bell'articolo su Shikhandi.
“In un certo senso, l'essenza della filosofia
indù è semplice. Ogni individuo è un atman (spirito o anima) eterno
incarnato. Essendo distinto dal corpo – compresi i suoi attributi esterni come
razza, genere e orientamento sessuale – ogni atman ha origine dalla
stessa fonte divina ed è quindi parte della stessa famiglia spirituale, meritando
la dignità dell'amore, del rispetto e della parità di trattamento.”
Questo è l'insegnamento di Shikhandi come di Lakapati.
Ciò che ci definisce all'esterno è un accidente, qualcosa che noi non
possiamo determinare. Quello che veramente ci rende tutti uguali è l'atman, lo
spirito, che è della stessa sostanza divina.
I pregiudizi sono una limitata visione dell'esistenza.
Io non ho mai dato troppo peso, nei miei molti incontri in giro per il
mondo e a Roma, al colore della pelle, all'orientamento sessuale, allo stato
sociale, per me Re e domestici sono sullo stesso piano.
Quando noi guardiamo con occhi sinceramente pieni di amore, come una madre appunto, non dovremmo mai vedere quanto ha cotto il sole la nostra pelle, la tendenza sessuale, ricchezza o povertà, ma solo atman.
Almeno io la penso così, e sono felice di avere aggiunto un altro piccolo tassello al grande mosaico della mia piccola conoscenza.
Per chi volesse approfondire:
An Ultimate Guide To Philippine Mythology’s Legendary Deities
Goddess Ikapati
Shikhandi: the Mahabharata’s transgender warrior
This article has a depth that you rarely find around. Thank you, Stefano!
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