La Maestra di Campagna – Seconda Parte




“Sono meno le acque dei quattro oceani
Che la vasta distesa di acque, in lacrime versate,
Dal cuore dell'uomo che si lamenta toccato dal dolore.
Per chi sprechi la tua vita, crogiolandoti in acerbi lamenti?”
(Therigatha, 47)

Punnee si alzò prima che la cerimonia terminasse.

Camminò con passo delicato verso l'uscita mentre in fondo alla sala del tempio alcune donne stavano preparando il riso bianco da offrire ai monaci.




Calzò le scarpe oltre la porta e si diresse verso il prato che circondava la sala della preghiera.

Non riusciva più a stare in un ambiente chiuso, aveva bisogno di luce e aria, tutti quei ricordi l'avevano resa malinconica.

Raggiunse un piccolo edificio, dove vi era la cucina e la sala per mangiare, e si sedette sul muro basso mentre delle donne stavano tagliando piccoli limoni verdi per il pranzo.

Sawadee jaa,” la salutarono. “Dee jaa,” Punnee rispose con le mani giunte e le punte delle dita a sfiorare il mento.

I suoi occhi vagavano dal livello ribassato dove le donne chiacchieravano e ridevano in circolo al ritmo dei colpi di coltello sulla pietra, alla sala più ampia, in fondo, dove si stavano apparecchiando le lunghe tavole per i fedeli.





Ma se con il corpo era seduta su quel muretto, con l'anima errava ancora nei ricordi del passato.

Tornò in sé quando si accorse che i monaci stavano uscendo lentamente dalla sala; allora si alzò, salutò le donne, si sistemò la cinta d'argento e con le mani premute sul tessuto appianò le pieghe della lunga gonna rosso bordeaux con disegni in stile batik.

Andò incontro ai monaci; appena fu loro vicino la donna si inginocchiò sull'erba, si tolse rapidamente le scarpe e si inchinò con le mani congiunte al loro passaggio.




“Yong Punnee...”

Lei trattenne il fiato, con la fronte premuta sui due pollici, poi alzò il viso e vide Surimedo dinanzi a lei che le sorrideva.

Attese che gli altro monaci fossero distanti e tornò in piedi.

Lui le sorrise e disse con voce calma: “Camminiamo...”

Punnee annuì e lo seguì senza essergli troppo vicino, di poco dietro di lui.

Era dimagrito ma tonico e il capo riluceva del suo colore bruno. Un tempo i suoi capelli erano più neri della notte e sottili.


Raggiunsero una piccola collinetta del prato dove gli alberi si ergevano possenti e solidi.

Surimedo si sedette ai piedi di un albero dai rami che calavano verso il suolo, con le gambe incrociate e i palmi della mano rivolti verso l'alto, sul tessuto arancione del kesa, la schiena dritta e il sorriso disegnato sul viso come una parentesi.

Punnee si adagiò davanti al monaco con le gambe piegate alla sua destra e si tolse le scarpe – era piacevole il contatto della pelle sull'erba fresca.

Con le dita della mano raccolse dietro l'orecchio l'unica ciocca di capelli che si era liberata dallo chignon. Il volto leggermente rivolto verso il basso.

Ci fu una lunga pausa di silenzio: un secondo per ogni anno che non si erano visti.

“Non sapevo che eri diventato monaco...” Disse Punnee prendendo coraggio e guardando il suo viso.

“Non ci siamo più incontrati da molti anni”, rispose lui con il tono di voce sempre uguale.

“Sapevo che stavi studiando all'università”, continuò Punnee mentre con la mano sinistra accarezzava le punte dell'erba.

“Sì, è vero. Mentre stavo completando gli studi a Sisaket iniziai a seguire mio fratello maggiore che era entrato nel sangha di questo monastero.

Andavo quasi ogni giorno ad ascoltare le lezioni dei monaci anziani. Mi piaceva molto, così decisi di iniziare il cammino di noviziato come samanera*. Otto anni fa c'è stata la mia upasampadā* ed eccomi qua.” Disse sorridendo.

“Il piccolo Theerapong è diventato Phra Ajahn* Surimedo”, rispose Punnee con una piccola risata.

Il monaco scosse la testa divertito e imbarazzato: “No, no, troppe lune dovranno passare prima di potermi chiamare così...”


© Ishu Patel
© Ishu Patel

“E tu?” Le chiese il monaco.

Sembrava che la sua intera esistenza si risolvesse nel movimento delle labbra e degli occhi, il resto del corpo giaceva immobile come l'albero dietro di lui.

“Io?” Punnee iniziò a giocherellare con i fili dell'erba vicino alle gambe.

“Anche io ho studiato all'università di Sisaket. Non ci crederai mai...” gli disse piantando i suoi occhi in quelli di Surimedo che rimasero impassibili, “...sono diventata maestra elementare, pensa, nella nostra scuola!”

Fece una breve pausa e continuò. “Alla fine non mi sono allontanata molto...”

“E la tua famiglia?” Chiese Surimedo con interesse.

“Mia nonna sta bene, chi l'ammazza a lei! Mio padre ancora fa lo stesso lavoro a Bangkok, mentre mè ormai è quasi sempre a casa, quando può fa piccoli lavori di cucito per i vicini di casa: non sta tanto bene, ha sempre una brutta tosse.

“Mia sorellina, nong Tawan, non ha mai voluto studiare, è sempre stata affascinata da Bangkok e dal sogno di conoscere un bel farang che la portasse in Europa o in America, per un po' è andata a studiare per fare la massaggiatrice ma ancora non si è capito che vuole fare della sua vita, sta sempre incollata al suo smartphone. Mio fratello nong Sombath si è trasferito ormai da anni a vivere in  un campo di  pugili di  un famoso  Nak Muay  della  Golden  Era  della  Muay thai  a  Nawanakon,  vicino Pathumtani, poco fuori Bangkok. Pare sia molto promettente, ogni tanto vediamo anche i suoi incontri in televisione, poi ci manda sempre delle fotografie al telefono di mia sorella, quando ha terminato un incontro e ha vinto, con un pacchetto di banconote tra i denti e il sopracciglio sanguinante che la povera mamma non sa mai se ridere o piangere!” concluse Punnee con una sonora risata.

“Tu non hai famiglia?”

Punnee rimase in silenzio e riprese fiato. Poi alzò il viso e sorrise.

“Sì, sì. Mi sono sposata. Mio marito fa l'autista di tuk-tuk* a Bangkok.

Sembra essere il destino degli uomini della famiglia,” esclamò la donna sorridendo con la mano a coprire le labbra. “Ci vediamo un paio di volta al mese, sai, come era con mio padre. Beve un po' troppo ma in fondo è un brav'uomo anche se a volte mi sembra di dormire con uno sconosciuto.”

Concluse Punnee sorridendo quasi a convincere più sé stessa che Surimedo.

“Ho anche una bambina, adesso ha otto anni, Khob, e frequenta la mia stessa scuola. La nostra scuola. Che buffo! Ci pensi? Sembra una ruota...

Figurati che il più delle volte, quando non vuole che sia la nonna a portarla, noi percorriamo la strada insieme: io la guardo mentre saltella davanti a me con il suo zainetto e la gonna blu, tra le piante verdi. Ogni tanto mi viene la voglia di gridarle: attenta! Che adesso salta fuori Theerapong e ti fa venire un attacco di cuore”. Ed esplose in una risata che interruppe subito volgendo il viso alla sua sinistra.

“Che stupida che sono...”

Avvertiva come una pietra in gola e le tempie calde.

“Perché dici così? Non c'è nulla di stupido: ero io stupido a farti spaventare in quel modo.”

Disse il monaco con il tono profondo della voce mentre cercava di guardare i suoi occhi.


“Ci pensi ancora all'elefante bianco?” Sussurrò Punnee con il volto ancora leggermente inclinato.

“Certo che ci penso. Quello fu il giorno più indimenticabile della mia vita”, rispose Surimedo.

Allora Punnee tornò a guardarlo.

“Veramente?”

È impossibile da scordare. Così come quel lungo viaggio in treno, il Re, noi due che ci intrufolavamo tra le gambe delle persone...”

A Punnee tornò il sorriso, portò nuovamente l ciocca di capelli dietro l'orecchio e lo fissò.

“Sei felice?” Gli domandò.

“Sono sereno”, le rispose senza un fremito nei muscoli del corpo.

“E tu, Punnee, sei felice?”

Lei non sapeva cosa rispondere.

“Vai a sapere poi che cosa è la felicità! Penso di sì.

Faccio il lavoro che ho sempre desiderato, ho la mia famiglia, vivo ancora con mia madre e mia nonna di cui mi prendo cura. Lo sai che non ho mai anelato ad andare lontano, alla ricchezza... Sono sempre stata dentro una maestra di campagna.”

Disse Punnee con un sorriso.



“Non tua madre non tuo padre
né chiunque della famiglia
può darti dono più prezioso
di un cuore ben diretto.”

Esclamò Surimedo adagio.

“Questo è uno degli insegnamenti del Dhammapada.

Bisogna saper lasciare andare ciò che àncora il nostro cuore.”

Punnee lo guardò a lungo, quasi a cercare in quel colto il Theerapong bambino.

“E tu non hai più nulla che tiene il tuo cuore ancorato?”

Gli chiese con malinconia.

“Io ho liberato il mio cuore ed è l'esercizio che faccio ogni giorno; però come vedi adesso siamo qui a parlare.

Questo momento è come un pesce che guizza fuori dall'acqua, poi torna ad immergersi e sparisce nel corso del fiume.

Io tornerò nella mia stanza e tu alla tua famiglia.”

Punnee divenne ancora più malinconica, però sapeva che aveva ragione.

Annuì.

“Comunque sono rimasto sorpreso di vederti e sono felice che ancora percorri quella stradina verso la nostra scuola.”

Punnee ebbe un moto di calore nel petto e negli occhi.

Stava per dire qualcosa quando vide Surimedo infilare una mano nella stoffa del saio; estrasse un piccolo filo di tessuto color ocra: il saai sin, il filo sacro*.

“Sei andata via prima di riavere il tuo,” le disse il monaco con il suo imperturbabile sorriso.

Punnee si guardò intorno, sapeva bene che loro due non potevano avere nessun tipo di contatto fisico.

Quasi con timore avvicinò la mano sinistra verso di lui, tenendola distante dal suo corpo.

Lui prese il filo ocra tra i due capi e lo posizionò piano sopra il suo polso.

Punnee trattenne il fiato contando i centimetri che separavano il filo sacro dal suo polso. Surimedo adagiò delicatamente il filo sulla pelle bruna della donna mentre con i pollici e gli indici iniziava a fare un piccolo nodo; quando strinse il nodo, per un brevissimo istante l'estremità degli indici sfiorarono la pelle del polso, poi tornò con le mani nella solita posizione, una sopra all'altra come nel mudra della meditazione, la schiena dritta

“Fallo durare a lungo.”

Punnee stava già stringendo maggiormente il nodo, con difficoltà, il viso caldo e gli occhi umidi.

“Fosse per me lo farei durare tutta la vita”, sussurrò la donna.

“Adesso va, e sii felice.”

Punnee lo guardò un'ultima volta; fosse anche il mondo intero divorato da una voragine, nulla avrebbe voluto altro in quel momento che abbracciarlo più che poteva.

Congiunse le mani e si inchinò leggermente.

Prese le scarpe e si alzò, camminando a piedi nudi sull'erba, decidendo che era meglio non voltarsi.

Theerapong era in quel filo ocra.

Ancora una volta era stato veloce come una saetta.

Mentre usciva dal cancello del monastero pensò a suo nonno e alla storia del serpente.

Era vero. Quel veleno non lascia alcuno scampo – letale e gentile.

Andò verso la fermata del pullman che l'avrebbe riportata al villaggio canticchiando una vecchia canzone banook* di Vongcian Phirost.




Salì sul pullman e andò a sedersi al fianco del finestrino. L'aria era umida e il veicolo era affollato di persone che tornavano ai propri villaggi.

Punnee poggiò la fronte e la gota sul vetro, contemplando le verdi pianure che sfrecciavano in senso contrario.

Quando all'improvviso ci fu una brusca frenata con urla, il tonfo delle ceste e delle borse che cadevano dai ripiani in alto e imprecazioni varie.

Anche Punnee per poco non urtava la testa sul sedile avanti a lei.

L'autista si scusò ad alta voce, dicendo che non era colpa sua.

La donna vide la gente alzarsi e andare avanti, allora anche lei provò a farsi largo tra i corpi accalcati nel piccolo corridoio centrale. Più si approssimava alla parte anteriore del pullman più ascoltava versi di meraviglia e stupore.

Riuscì infine a far sbucare la sua testa tra un gruppetto di uomini che erano a fianco all'autista e, con eguale meraviglia, vide oltre il grande parabrezza un gigantesco elefante dalla pelle chiarissima attraversare mansueto la strada da destra a sinistra, con la proboscide e le grandi orecchie che sembravano salutare le decine di facce stupite al di là del vetro.

Si addentrò nell'alta vegetazione al bordo della strada e si allontanò scomparendo.

L'autista mise di nuovo in moto il pullman e tutti tornarono al loro posto.

Anche Punnee.

Strinse tra l'indice e il pollice della mano destra il filo ocra sul suo polso e tornò  a guardare fuori dal finestrino. Con un sorriso dolce.


Domani sarebbe stato un altro giorno di scuola.



* Il samanera è, etimologicamente, un piccolo samana, o asceta. Con questo termine si identifica il monaco novizio (la monaca novizia) che osserva i dieci precetti in vista dell'accettazione nella comunità dei monaci (delle monache), i bhikkhu (le bhikkhuni) che compongono il sangha.
La cerimonia in cui si conferma al sangha l'intenzione di abbandonare la vita laica per entrare a far parte della comunità monastica è detta pabbajja, resa solitamente con la dizione: “andare oltre”, nel senso di passare dalla vita di casa alla vita del senza casa, essendo nel canone spesso definito il monaco buddhista un anagarika, un “senza casa” (da (n)-, prefisso di negazione, e agarija, uomo di casa).
* Upasampadā è la cerimonia con cui si sancisce formalmente l'accettazione del samanera nella comunità monastica.
*Phra Ajahn è l'appellativo con ci si rivolge ai monaci anziani sapienti che hanno studiato a lungo.
*I tuk-tuk sono i caratteristici taxi a tre ruote usati in Thailandia e in altre parti dell'Asia.
*Il filo sacro è un braccialetto fatto di filo benedetto dai monaci. Lo si porta finché lo spago si spezza, allora bisogna gettarlo in un corso d'acqua.
*Banook, significa campagna, e fa riferimento allo stile country delle vecchie canzoni tradizionali thai.


Vongcian Phirost:

Voglio ringraziare per avermi aiutato a scrivere questo racconto e permesso di usare alcune loro fotografie personali: Leonardo “Singto”, Punnee, e Luck.

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