Giacarta, settembre 2016 |
David Jiménez è un giornalista spagnolo inviato del giornale “Mundo” in
Asia dove ha documentato i conflitti più
importanti, dal 1998. Nel 2007 ha pubblicato il bel libro: “Figli del monsone.
Essere bambini in Asia: dieci storie di coraggio e di sopravvivenza”, uscito
per Tropea Editore.
Ultimamente sono alla ricerca di libri che raccolgono racconti o
articoli brevi perché è il genere letterario che sto esplorando come scrittore
da qualche anno.
Questo libro mi ha colpito perché parla di Asia e di bambini.
Leggerlo non mi ha assolutamente deluso.
Si percepisce che conosce a fondo la materia di cui parla ed è anche
empaticamente vicino ai soggetti delle storie.
Ma è in particolare il racconto sull'Indonesia che mi ha fatto
riflettere molto.
È la storia di Teddy, un giovane studente dell'Università Atma Jaya,
ucciso dai militari a Giacarta durante le sommesse di protesta degli studenti
nel 1998 per mandare via il Presidente Habibie, braccio destro dell'ex
dittatore Suharto. Una delle pagine più cupe dell'Indonesia, passata alla
storia come il periodo “Reformasi”, in grado però di condurre gradualmente il
paese ad una vera democrazia.
Al di là della storia in sé, mi hanno fatto pensare alcune parole di
Jiménez.
Innanzitutto, di tutti i paesi che ha visitato e documentato,
dall'Afghanistan alle Filippine, il giornalista confessa che l'Indonesia è
quella che gli è rimasta più nel cuore.
“Forse è possibile innamorarsi di un paese come di una persona, vedere
in quel luogo cose che per qualche ragione non trovi altrove; stabilire con
esso un legame speciale, sentirsi attratto dal suo carattere, viverlo con
un'intensità particolare. Sono paesi che approfittano del tuo stato di estasi
per nasconderti le loro mancanze e mettere sempre in risalto le loro virtù,
luoghi dove pensi di tornare quando ancora non te ne sei andato. Per me
l'Indonesia è questo. Quando arrivo so che non posso essere da nessun'altra
parte: potrebbero portarmi fin lì bendato e appena messo piede in uno dei suoi
aeroporti, in una qualunque delle sue città, saprei dove mi trovo solo grazie
al profumo di frangipani e all'odore dolce e pungente delle sigarette ai chiodi
di garofano. L'Indonesia ha un lato nascosto e primitivo che rende sempre
imprevedibile la sua gente, un lato che mi sconcerta e mi affascina al tempo
stesso.”
Di tanti libri che ho letto sull'Indonesia, poche volte mi sono trovato
totalmente d'accordo come in queste righe.
Mi è capitato sovente, negli oltre dieci anni che ho visitato
l'Indonesia, che mi si chiedesse perché fossi così profondamente legato a
questa terra.
Come scrive Jiménez, “è possibile innamorarsi di un paese come di una
persona, vedere in quel luogo cose che per qualche ragione non trovi altrove;
stabilire con esso un legame speciale, sentirsi attratto dal suo carattere,
viverlo con un'intensità particolare.”
Come le persone hanno quel qualcosa che ci fa innamorare di loro – e
non è per niente facile a volte capire cosa sia – così accade per i luoghi, le
città, i paesi.
Per esempio, se dovessi rispondere ad istinto perché amo visceralmente
Dhaka o il Bangladesh di certo direi: i colori.
Può sembrare banale ma non è così, per me. In Bangladesh c'è una
canzone intitolata “Ronger Dunia”, il mondo dei colori.
Ecco, Dhaka per me è stata, nel mio unico viaggio di appena un mese, il mondo dei colori che si
contrappongono e combattono contro le asperità della vita, il suo grigiore, la
polvere, il suo smog. Come se fosse costantemente in atto una battaglia epica e
simbolica che affascina e intimorisce.
Rispondere riguardo all'Indonesia è molto più complicato perché è una
risposta che si è stratificata negli anni.
È pur vero che certe cose si capiscono meglio quando è trascorso molto
tempo.
Però fin dal primo viaggio, nel 2010, ho avuto esattamente la stessa
sensazione descritta da Jiménez, usando le sue stesse parole ogni volta che mi
veniva chiesto in passato.
“Quando arrivo so che non posso essere da nessun'altra parte:
potrebbero portarmi fin lì bendato e appena messo piede in uno dei suoi
aeroporti, in una qualunque delle sue città, saprei dove mi trovo solo grazie
al profumo di frangipani e all'odore dolce e pungente delle sigarette ai chiodi
di garofano.”
Queste potrebbero essere tranquillamente le mie stesse parole. È
incredibile leggere da altre persone pensieri ed emozioni che abbiamo pensato
fossero i nostri intimi.
Per me Giacarta è il suo aeroporto. Non quello nuovo aperto da qualche
anno, ma il vecchio e più piccolo Soekarno–Hatta International Airport aperto
nel 1985. La prima volta che atterrammo là, uscendo in strada dalle porte a
vetri, fui sopraffatto da quel miscuglio indimenticabile di odori che ti rimane
attaccato per sempre.
La pioggia, l'umidità afosa, il sudore, l'odore dolciastro delle
sigarette “Sampoerna”. Ogni elemento si addensa chimicamente in un odore che
diventa Giacarta intera, la ingloba, come nelle essenze magiche narrate nel
libro “Il Profumo” di Patrick Süskind, in cui il protagonista Jean-Baptiste
Grenouille, nella Francia del XVIII secolo, riesce – attraverso l'arte
dell'enfleurage – ad estrarre il profumo che porterà alla follia gli abitanti
della sua città.
E tutti sanno il potere incredibile che hanno gli odori sulla nostra
memoria affettiva: sono ciò che ricordiamo meglio e più a lungo.
Nel bene e nel male, una volta colpiti da quell'odore non ce ne
possiamo mai più liberare.
Lo so che ridurre l'Indonesia, o Giacarta, e l'amore che si prova per
loro ad un odore può sembrare una follia.
“L'Indonesia ha un lato nascosto e primitivo che rende sempre
imprevedibile la sua gente, un lato che mi sconcerta e mi affascina al tempo
stesso.” Scrive Jiménez.
Le contraddizioni.
La fotografia che mi rese celebre in Indonesia per un lasso di tempo
raccontava proprio questo. Due bambini con lo sguardo oltre il fiume di
Giacarta, nella spazzatura dello slum Petamburan, intenti ad ammirare il
profilo dei grattacieli della sponda opposta.
E poi la musica. Quella melodia che entrò dalla finestra, nel 2010, nel
kampung a Karawang, “lagu Sunda”, le canzoni sundanesi dal ritmo veloce e la
voce malinconica e lenta. Non riuscivo a comprenderla, strideva l'attrito fra
la musica e la voce, ma era come se mi sgorgasse da una memoria di vita
precedente. La conoscevo perfettamente, era nel mio passato. Da allora mi
chiamarono “Kang”, il fratello sundanese.
Dovunque si guardi alla fine ci si scontra sempre con la
contraddizione.
Come quella delle donne, delle città e dei villaggi, che camminano per
strada tranquillamente con l'hijab indossando il pigiama per dormire.
Forse questo è il suo segreto. Ciò che ti entra sotto pelle e non te la
fa dimenticare mai. La sua anima perennemente contraddittoria.
Ma non credo che faccia lo stesso effetto su tutti. Solo su chi vive,
nella sua anima, quelle stesse contraddizioni. Chi non smette di lottare contro
se stesso dalla nascita. Chi non riesce a trovare la pace.
E in questa lotta segreta e tragica riesce a mantenere il sorriso, la
risata, sempre. Come una maschera, topeng, altra arte celebre in
Indonesia.
Allora ecco che quella musica dal ritmo martellante viene ammantata di
malinconia dalla voce che sembra rallentare il mondo intero, ecco la sigarette
che arde e rilascia non l'odore acre del tabacco ma quello dolce delle erbe,
ecco il bambino che nella via completamente allagata dall'alluvione esce
sorridendo a giocare a pallone tra gli schizzi d'acqua.
Amare l'Indonesia è amare la parte bipolare di noi stessi, quella più
intima e segreta, che parte dai nervi e dai gangli del nostro passato, delle
nostre paure e felicità. E non nelle vie conosciute dal primo giorno di vita
dei quartieri in cui siamo nati, ma ad oltre diecimila chilometri di distanza.
Ad oggi, per me questo è il motivo per cui l'Indonesia è la terra che
non mi abbandona mai, anche quando non la penso o provo ad ignorarla.
Perchè è impossibile fuggire dagli odori della propria anima.
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