Laoag, Ilocos Norte |
Ormai mancavano pochi chilometri al piccolo villaggio di Burgos,
nell'estremo nord delle Filippine.
Il suv già da tempo percorreva le strade sterrate e sabbiose del villaggio.
Imelda guardava fuori dal finestrino.
Sembrava come se il tempo si fosse fermato.
Le stesse palme, le stesse baracche metà in legno e metà in mattoni, le
galline, i bambini in pantaloncini corti che giocavano e i tricicli
parcheggiati fuori le case.
Tutto identico come quando lei era una bambina che si arrampicava sopra
le palme.
Ormai aveva le ossa che cigolavano, tra aeroplano e macchina saranno
stati due giorni di viaggio.
I due bambini alla sua destra non staccavano gli occhi dallo schermo del
telefono.
“Eccoci, tita!”, esclamò Oggie.
Imelda si sporse tra i due sedili anteriori e vide in fondo alla terra
bianca un palazzetto squadrato come un castello povero sulla sabbia. Intorno
una rete verde a delimitare il cortile, totalmente simbolica – anche le galline
ci passavano attraverso.
Appena il suv si avvicinò lentamente, una miriade di bambini si
precipitarono ai lati e dietro il veicolo, gridando e battendo le mani
entusiasti sulla carrozzeria.
A Imelda già pesava la testa.
Dalla porta uscirono uomini e donne con i bambini in braccio, tutti
sorridenti.
Scesero dalla macchina mentre Oggie mandava via come se fossero mosche
la torma di bambini in festa, intercalando imprecazioni in dialetto ilocano.
Jacinto stava già trainando i due bagagli dentro casa, con le rotelle
impolverate di sabbia bianca.
Imelda era attorniata di persone che le facevano un mucchio di domande
mentre la conducevano verso la porta.
Non era in grado di comprendere cosa dicessero, troppo stanca e
stordita dal mutamento repentino tra la calma del viaggio e il trambusto del loro
benvenuto.
Però le sue narici larghe aspiravano con piacere l'odore umido e salato
del mare poco distante.
Entrò nella grande sala con un tavolo enorme nel mezzo. Si guardava
intorno; una volta questa era una piccola casupola tirata su da suo padre, con
i mattoni a vista e il tetto coperto di foglie secche di palme e lamiere.
Ci dormivano in nove.
Adesso solamente la sala era grande quanto tutta la casa di una volta.
Le pareti erano verdi, una sul lato sinistri era ancora con mattoni in
evidenza. Qualche fotografia incorniciata di madonne e i suoi nonni.
Panche in legno scuro cesellato, sedie di plastiche di vari colori di
cui una senza una gamba appoggiata al muro.
Ci saranno state una ventina di persone, inclusi i bambini: riconosceva
le nipoti, un fratello con la moglie e i bambini, le sorelle del marito e i
nipoti Oggie e Jacinto che avevano posizionato la valigia grande viola sul
tavolo, con tutti i bambini e le giovani nipoti intorno, come quando viene
disteso il grande maiale arrosto sulle foglie di palma per la despedida.
Imelda cercava con lo sguardo suo marito.
“Tita, nasaan ang mga susi?”, le chiedevano eccitati delle
chiavi per aprire i lucchetti della valigia. Tutti sapevano che aprirla
equivaleva a vincere la lotteria, bisognava solo conoscere il premio.
Imelda cercò nel borsello le piccole chiavi e le diede ad una nipote,
alta, con il seno turgido che bombava la maglietta aderente e le cosce scure
che sembravano strappare gli shorts in jeans.
Appena aperta la valigia le urla si intensificarono. Magliette, borse,
confezioni di telefoni, cioccolato, tutto saltava fuori come pop corn sulla
padella.
Stavano già litigando tra di loro per accaparrarsi i regali migliori
mentre Imelda andò a cercare la loro stanza, in un corridoio laterale, dietro
una tenda verde scolorita.
Quando entrò vide il loro letto su cui dormiva un bambino piccolo tutto
nudo.
Alle pareti dei poster del pugile Manny Pacquiao.
Lei non capiva, era confusa.
Si accorse che era entrata Luzviminda, la sorella di poco più giovane
del marito. Il bambino si svegliò, Luz lo scacciò giù dal letto. “Vai!”,
spingendolo fuori dalla stanza.
Imelda guardò in ogni direzione lentamente, confusa.
“Nasaan si Romulo?”
Chiese ancora a sua cognata.
Luzviminda le mise le mani sulle spalle e la fece sedere sul bordo del
letto, poi lei si sedette alla sua destra.
“Qui adesso ci dorme mio fratello Raul con la sua famiglia”, disse lei
mentre si puliva le lenti degli occhiali con la punta del dito.
“E lui? Sta male?”
Domandò preoccupata Imelda, mentre si guardava intorno, in cerca di
qualche indizio.
“No, ate, al contrario!” esclamò la cognata mentre con una mano
le accarezzava la schiena umida di sudore.
Poi si fece seria in viso, anche la voce più greve.
“Ascolta Imelda. Sai quanto mio fratello è stato male...”
Non riuscì a terminare la frase che la giovane nipote dal seno turgido
si affacciò sulla porta brandendo una borsa nero di cotone con i lustrini.
“Tita, non c'è un'altra borsa come questa? Solo una hai preso?”, chiese
in tono seccato.
Imelda stava ancora pensando a cosa avrebbe detto Luzviminda, alzò lo
sguardi verso la nipote.
“Mi dispiace, credo di averne comprata solo una.”
Nel frattempo un'altra nipote sua coetanea dalla pelle scurissima e i
lunghi capelli lisci mechati di biondo le strappò dalla mano la borsa.
“Dammela! Questa l'avevo presa prima io!”, le ruggì in faccia, mentre
l'altra nipote, inviperita, le urlava “Tanga! Stupida!”, correndole
dietro sparendo dietro la tenda verde che tornò a chiudere l'entrata.
Luzviminda ancora fissava la porta con occhi torvi.
Poi tirò un sospiro. “Perdonale, sono giovani. Dicevamo...”
E si pulì nuovamente le lenti degli occhiali con il tessuto del
vestitino a righe.
“Mio fratello quando è arrivato qui stava veramente male, tutti noi
eravamo preoccupati. Per fortuna tu ci spedivi i soldi ogni mese per le sue
medicine.
Poi – che ti devo dire – sarà il clima di casa, il mare, il cibo, ha
iniziato a stare meglio.
Beve e fuma sempre in modo scriteriato!”, disse con un sorriso.
Imelda ascoltava in silenzio e annuiva.
“Ha iniziato a uscire, tornava tardi la sera.
E chi li controlla a quell'età!”
Esclamò con un tono di solidarietà femminile con la moglie ma anche di
comprensione per il fratello.
Poi puntò gli occhietti scuri, dietro le lenti, su quelli di Imelda,
quasi a leggere dentro i suoi pensieri, mentre con la mano sinistra le
stringeva forte la coscia destra.
“Romulo è ancora forte, è anziano ma vigoroso, sai...
Ha il sangue che ribolle e voi non vi vedevate da molto tempo. Quando è
l'ultima volta che sei venuta qui da noi?”
Le chiese in tono serio, quasi accusatorio.
Imelda la guardò e provò a balbettare qualcosa.
“Lascia stare! Sono anni ormai. Neanche conosci i figli dei tuoi nipoti!
Ma va bene così”, modulò di nuovo la voce in una tonalità dolce, “”Grazie alla
tua fatica guarda che bella casa che abbiamo adesso, siamo invidiati da
tutti!”, esclamò a voce alta Luzviminda guardandosi intorno.
“Va da sé, che l'ultimo anno lo abbiamo visto tornare a casa meno di
frequente...
Le voci girano, lo sai, tsismis*...”
Disse la cognata con un sorriso di compiacenza.
“Adesso Romulo vive con un'altra donna, a pochi chilometri da qui.”
Tagliò corto Luzviminda.
Imelda lo aveva già capito, ma quelle parole comunque la ferirono.
“Però adesso sta bene, in salute! Anche i dottori hanno detto che
sembra un miracolo di San Nicola!”. Continuò in modo frenetico, leggendole in
volto il dispiacere, quasi a non darle il tempo di pensare troppo.
Imelda annuì, mentre passava la mano sul materasso lentamente.
Jacinto si affacciò sulla porta con il viso rotondo, sudato e
sorridente di sempre.
“Tita! Che fai qui? Dai vieni che ti vogliamo mostrare una cosa!”
Sembrava un bambino per come parlava con entusiasmo.
Luzviminda la issò per un braccio.
“Ha ragione, dai andiamo. Ti abbiamo aspettato tanto.”
Le diceva mentre la spingeva per camminare, tutta sorridente.
“Da quanto non mangi il dinuguan*? Ti ho preparato il miglior dinuguan
di Ilocos Norte e Sur!”
Le urlò in un orecchio.
Imelda la guardò mentre tornava in sala.
“Io lo mangiò anche a Roma, si trova là, lo cucinano.”
Luzviminda la guardò quasi offesa.
“Non vorrai paragonare il mio dinuguan con quello di Roma? Hay
Naku!”
E andò verso la cucina imprecando in dialetto.
Imelda entrò nella grande sala dove si apriva ai suoi occhi una scena
apocalittica: la valigia giaceva sul tavolo aperta completamente come una capra
sventrata, non c'era rimasto quasi nulla al suo interno, anche i suoi abiti e
la biancheria intima erano sul tavolo; i bambini sedevano a terra, ognuno
intento a sgranocchiare una tavoletta intera di cioccolato, come le dita e il
muso sporco di cioccolata fusa per il caldo, anche altri bambini erano entrati
e cercavano di ottenere della cioccolata come i gatti al mercato del pesce. Il
fratello e i cognati erano usciti in cortile con le bottiglie di rum che lei
aveva portato – sapeva bene che non sarebbero durate mezza giornata. Le ragazze
più grandi e i nipoti indossavano anche due magliette una sopra all'altra per
non farsele portare via; le due nipoti erano sedute con una gamba sul tavolo
intente a mandare messaggi al telefono.
Oggie fece spazio alla zia per farla sedere sulla panca di legno
intagliato.
“Omopo, tita. Siediti, dobbiamo farti vedere una cosa.”
Lei si sedette tra due bambini presi a divorare una caramella dietro
l'altra, mentre Luzviminda tornava in sala con un piatto di carne rosso scuro
fumante.
Lo porse a Imelda con sguardo fiero.
“Dimmi quale è più buono adesso!”
Imelda iniziò a mangiarne un po' mentre vedeva Jacinto fare spazio
davanti a lei, spingendo via in modo rude i bambini seduti sul pavimento scuro.
Jacinto si piazzò davanti a lei, si era già tolto la maglietta, era
tutto sudato ma con il volto entusiasta.
La cognata sedeva sulla punta estrema della panca piegata sul piatto di
dinuguan, mangiando con appetito, mentre rivoli di sangue cotto le
colavano sul mento.
“Tita, noi vogliamo ringraziarti. Grazie a te siamo riusciti ad
ingrandire la nostra casa”, diceva allargando le braccia a destra e sinistra.
Corse verso il muro ancora a mattoni freschi, battendo le mani sopra: “Tita,
questa è un'altra stanza, è quasi terminata. Con 500 mila pesos che ci hai
mandato in un anno abbiamo costruito due stanze e una rimessa dietro casa, più
il garage.”
Imelda lo ascoltava in silenzio guardando i suoi parenti ognuno
indaffarato a modo suo, dal più piccolo bambolotto di carne e sudore fino agli
uomini che discutevano alticci fuori casa.
“Però... Però...”, disse Jacinto con occhi sgranati dalla felicità e
intonazione da attore navigato, “...adesso ti mostriamo la cosa più importante
che siamo riusciti a comprare. Aspetta!”
Disse, mentre corse sparendo dentro un varco laterale.
Imelda pensò a quanti dei soldi che aveva spedito per le medicine del
marito avessero preso una direzione diversa, dagli smalti sulle unghie delle
due nipoti fin dentro le mutande della donna che adesso dormiva con suo marito.
Tutti quei pensieri furono interrotti dal rumore di rotelle sul
pavimento. Vide Jacinto tornare spingendo un televisore dallo schermo piatto
enorme sopra un carrello in legno.
Il nipote lo posizionò proprio davanti a lei mentre si asciugava il
sudore dalla fronte con il braccio paffutello.
Imelda la guardò con la bocca aperta. Lo schermo lucente nero e piatto
era grande almeno quattro volte la sua televisione nella sua stanzetta a Roma.
Nel piano sotto del carrello c'erano due minacciosi altoparlanti
verticali che occupavano tutto lo spazio.
Jacinto non stava nella pelle dall'entusiasmo, si chinò di lato ed
estrasse da dietro la televisione due microfoni neri e lunghi come scettri,
pieni di pulsanti.
“Videoke e Magic Sing!”, esplose felice come quando a Natale scarti e
trovi sotto l'albero il regalo che stavi aspettando da una vita.
Imelda non sapeva che dire, lo guardava impietrita con un sorriso che
sembrava più una smorfia ebete di dolore.
“Adesso devi per forza cantare, tita!”
Disse Oggie mentre con il telecomando accendeva lo schermo enorme e blu
come un acquario senza pesci.
I due nipoti si piegarono indaffarati sul mixer armeggiando con il
telecomando, mentre sullo schermo saltellavano lettere e numeri; i bambini
iniziarono a posizionarsi comodi sul pavimento davanti al televisore e gli
uomini rientravano in casa con gli occhi rossi fumando incessantemente.
Una sorella prese il suo piatto vuoto dalle mani e andò in cucina.
“Eccola! Questa!”, gridò Jacinto intanto che indicava sullo schermo il
volto di Imelda Papin.
Suo fratello le disse con voce roca e annebbiata dal rum, “Papà ti
chiamò Imelda per questo, di ba? Era la sua cantante preferita...”
Jacinto aveva già fatto partire la canzone e impugnava il microfono con
tutte e due le mani, in piedi con la pancia in fuori e la schiena indietro.
Sino ba sa aming dalawaaaaa?”
Cantava a squarciagola come se avessero dovuto sentirlo a Manila,
mentre Luzviminda lo guardava un poco stizzita per la scelta della canzone,
come se lui avesse dovuto intuire che le aveva appena raccontato del marito.
Nel frattempo Imelda sentì il telefono vibrare nella tasca dei
pantaloni.
Con cura lo evirò fuori e tenendolo premuto vicino al fianco inclinò il
volto per vedere chi le avesse mandato il messaggio.
Era Lisa. Lo aprì.
Aveva smarrito anche il senso del tempo, presa dal jet lag e dal
tumulto di emozioni di quel primo giorno.
Lisa le aveva mandato un selfie, sotto le lenzuola, con solo il viso
fuori, sopra il cuscino e le labbra a cuoricino.
“Mi manchi tanto, zia, ti voglio bene, torna presto.”
Con tanti cuoricini rossi e bacini.
Imelda sorrise e le rispose con un cuore grande rosso e pulsante.
Oggie si era appena seduto affianco a lei, con il braccio sinistro la
stringeva così forte a lui che poteva sentire il sudore inumidire la sua
maglietta.
Il microfono era già vicino alla sua bocca.
A lei suonò piuttosto grottesca la scelta di quella canzone. Ma così
vanno le cose.
Pensò che avrebbe anche potuto piangere in quel momento che nessuno se
ne sarebbe accorto.
Le tornò in mente il messaggio di Lisa, smise di torturassi e afferrò
con la mano il microfono sotto la mano del nipote.
Iniziarono a cantare insieme mentre la sala si andava riempiendo degli
abitanti del villaggio, venuti a vedere tita, la balikbayan.
“Ako ba o siya?
Sino ba sa aming dalawa?
Ako ba o siya?
Sino ba ang mas mahalaga?
Sa damdamin mo't pagsinta...”
“Io o lei?
Chi tra di noi?
Io o lei?
Chi è la più importante?
Nei tuoi sentimenti e nel tuo affetto...”
Andarono avanti a cantare fino a notte fonda, illuminando con tutte le
luci accese del piccolo castello l'intero villaggio di pescatori, come un
jukebox nell'oscurità.
* Tsmisis, in tagalog, sono le chiacchiere e le dicerie sulle persone.
* Dinguan è uno stufato salato filippino di solito di frattaglie di maiale (tipicamente polmoni, reni, intestino, orecchie, cuore e muso) e /o carne sobbollita in un ricco e speziato sugo scuro di sangue di maiale, aglio, peperoncino (il più delle volte siling haba) e aceto.
Tutte le fotografie sono state scattate da me nel 2005, a Manila, Burgos e Laoag.
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