Il fascino del ragno


“Noir World of Darkness”, 1887. Odilon Redon


Il ragno è senza dubbio una figura affascinante, ricca di simbologie astratte quanto di forti emozioni concrete, capace di respingere con disgusto quanto di calamitare con ammirazione.

Anche se ne ho già parlato qui, a proposito della tradizione popolare pugliese della taranta, voglio tornare a scrivere sul ragno – questa volta in modo più libero ed ampio.

 

Anche io ne ho sempre subito il fascino, nella sua doppia natura di paura ed incanto.

È uno dei pochi esseri viventi che mi immobilizza, quasi in modo ipnotico, nell'osservarlo pur con un brivido di paura se le sue dimensioni sono notevoli, come mi è capitato in Asia.

Per non dire della ragnatela: quella è proprio un capolavoro inarrivabile della natura, poche cose possono competere con la sua ingegnosa bellezza.

 

Io ho usato il ragno come metafora molte volte, in passato.

Tessere quella meraviglia, restare in lunga attesa nascosto, osservare la piccola preda rimanere invischiata in quei fili fino a che il suo agitarsi decreta la sua fine per poi andare ad avvolgerla fino a farne un bozzolo in attesa di succhiarne il midollo come alimento. Terrificante, ma che si presta a molteplici interpretazioni, da quelle psicologiche a quelle dialettiche: anche le parole, se usate con ingegno come i fili della ragnatela, possono avvolgere l'interlocutore di un dibattito per avere la meglio. Socrate in questo è stato il maestro supremo.

Non è un caso che la parola fàscino derivi dal latino fascĭnum, che significa «maleficio; amuleto».



Ecco, il ragno bene esprime questa doppia natura positiva\negativa. Fin dai primordi della storia. Nella mitologia dei popoli. E tutto ciò che ha una doppia valenza mi colpisce sempre. Chi mi legge e mi conosce da tempo sa bene quanto io ami quando il bianco si sporca con il nero.

 

In Occidente, di sicuro, il mito più antico e famoso è quello di Aracne, una figura mitologica da cui prende il nome l'aracnide, il ragno. Ovidio narra la sua storia nel VI libro delle “Metamorfosi”, ma pare che il personaggio, già citato nelle Georgiche virgiliane, sia d'origine greca.

Aracne viveva a Colofone, nella Lidia, quella che fu la Turchia e Smirne. La fanciulla, figlia del tintore Idmone e sorella di Falance, era abilissima nel tessere, tanto che girava voce che avesse imparato l'arte direttamente da Atena, dea greca della Sapienza, mentre lei si lodava di essere stata addirittura lei ad insegnare alla dea a tessere, tanto da sfidarla a duello.

Allora un'anziana signora si presentò ad Aracne, consigliandole di ritirare la sfida per non causare l'ira della dea, ma quando lei replicò con sgarbo, la vecchia uscì dalle proprie spoglie rivelandosi come la dea Atena, e la gara iniziò.

Aracne scelse come tema della sua tessitura gli amori degli dei e le loro colpe, e il suo lavoro era talmente perfetto e sagace nel descrivere le astuzie usate dagli dei per raggiungere i propri fini che Atena andò su tutte le furie, distrusse la tela e colpì Aracne con la sua spola.

Aracne, disperata, cercò di impiccarsi, ma la dea la trasformò in un ragno costringendola a filare e tessere per tutta la vita dalla bocca, punita per l'arroganza dimostrata nell'aver osato sfidare la dea.



Questo mito rimanda al tema dell'arroganza – hýbris – degli esseri umani nei confronti degli dei, presente in moltissimi racconti, mitologie e religioni. Valga come esempio principe la caduta di Satana per la sua arroganza e orgoglio nei confronti di Dio, o Allah, nell'Islam.

Infatti, il ragno appare come figura trasversale in molte religioni.

Nell'Islam, esso dà il nome alla ventinovesima Sūra del Corano (“Al-‘Ankabût – Il Ragno”), in cui viene citata la tela del ragno per paragonare alla sua fragilità la consistenza degli alleati che i miscredenti potrebbero avere se chiedessero aiuto ad altri che a Dio:

«E s'assomigliano quelli che si scelsero alleati altri che Dio, al ragno che si sceglie una casa, ma la più tenue delle case è la casa del ragno, se essi sapessero!» (Corano 29, 41, trad. Bausani)

Inoltre, quando il Profeta Muhammad, in fuga dalla Mecca, si nascose, insieme ad Abū Bakr, in una caverna, un ragno tesse miracolosamente la sua tela in pochi istanti all'entrata della cavità, ingannando gli inseguitori che credettero quella caverna abbandonata da tempo.



Questo esempio rende bena l'ambivalenza con cui il ragno è stato sempre interpretato nel tempo e nelle credenze dei popoli. Da una parte l'ingegno, la laboriosità, la perizia tecnica nel fabbricare la tela, e dall'altra proprio quella tela diventa simbolo di astuzia, perfidia, malvagità.

Lo stesso accade in India.

La perfezione millimetrica della sua tela rappresenta, da un lato,  l'ordine cosmico contrapposto al Caos, e dunque il ragno, in questo caso, è un simbolo ordinatore.

Nella tradizione millenaria Vedica, la rete di Indra è usata come metafora del concetto buddista di compenetrazione, secondo il quale tutti i fenomeni sono intimamente connessi. La rete di Indra ha un gioiello sfaccettato in ogni vertice, e ogni gioiello si riflette in tutti gli altri gioielli.

 

Come riportato nel libro “Il cappello di Vermeer” dello storico Timothy Brook:

“Quando Indra ha modellato il mondo, lo ha fatto come una tela, e ad ogni nodo della tela è legata una perla. Tutto ciò che esiste, o è mai esistito, ogni idea che si può pensare, ogni dato che è vero – ogni dharma, nel linguaggio della filosofia indiana – è una perla nella rete di Indra. Non solo ogni perla è legata ad ogni altra perla in virtù della tela su cui pende, ma sulla superficie di ogni perla si riflette ogni altro gioiello della rete. Tutto ciò che esiste nella rete di Indra implica tutto ciò che esiste.”

 

“Aracne”, 1868. Gustave Doré


In questo caso il ragno possiede un simbolismo cosmogonico, in quanto tessitore della trama della vita: la tela del ragno in eterno rinnovamento e a forma di ruota, è stata associata al Sole raggiante, il Sole che secerne i suoi raggi come il ragno i suoi fili.

 

Però, in un altro mito, la dea velata Maya tesse con la sua sostanza il mondo delle illusioni per poi riassorbirlo.

Il filosofo tedesco Arthur Schopenhauer, grande studioso delle filosofie induiste, rese celebre in Occidente  nell'Ottocento quello che lui chiamò il velo di Maya, ovvero l’illusione dettata dai sensi che impedisce all’essere umano di fare esperienza della Verità, del principio assoluto di realtà.

Nell’antica India, Māyā significava originariamente “creazione”. Nel Ṛgveda (VI, 47,18) si può leggere “Con i poteri della propria māyā Indra si presenta in differenti forme”. Maya rappresentava quindi il potere di dare una forma, dal quale proveniva il mondo materiale, plasmato dagli dei. Col passare del tempo, la molteplicità delle forme fece dimenticare all’umanità l’essenza unica delle cose, il principio assoluto di realtà, piombandola in un mondo “caleidoscopico” di forme e strutture nel quale finì per credere, dimenticandosi della sua origine, della sua essenza. Fu così che la Maya, o Creazione, divenne sinonimo di “illusione”.

Ancora una volta rappresentata dalla tela ingannatrice. Ordine cosmico contro l'inganno dei sensi. Realtà e illusione.



Di miti ce ne sono ancora molti, così come di letture che si danno al ragno, nelle superstizioni, non sempre negative. Anzi in Cina, come in Indonesia, la vista di un ragno in casa è di buon auspicio.

Lo stesso accade in Italia, con il detto: “Ragno porta guadagno”.

 

Se si dovesse immaginare, però, il ragno e la sua ragnatela legati alla Fotografia come potrebbe essere?

Dopo aver letto così profonde e molteplici interpretazioni il gioco è interessante.

 

Potremmo pensare alla ragnatela come a quel lungo e laborioso lavoro di attesa che ogni fotografo compie nei confronti della realtà, dove l'istinto, lo studio, la capacità, la prontezza, la visione, tessono fili invisibili che consentono ai suoi soggetti di “impigliarsi”.

Come il ragno, il buon fotografo attende attento pronto a scattare per far sua la preda, intrappolata ai suoi fili. Ogni fotografia è un frammento-insetto di reale che il fotografo avviluppa con cura per poi succhiare la sua anima. Quella stessa anima che poi compare nelle sue immagini.

Perché ogni fotografo sa dove piazzare la sua ragnatela, ognuna per differenti prede di cui si nutre.

E che meraviglia pensare alla tela di Indra, in cui ogni perla riflette ciò che altre perle riflettono fino a contemplare il mondo intero, che è poi il sogno utopico di ogni fotografo si poter dare immagine a ciò che è il suo mondo interiore, e ordine al Caos che è la vita che scorre irruenta davanti ai nostro occhi.

E poi Maya, la grande illusione che inganna i nostri occhi sensibili.

Leggere le parole di Joan Fontcuberta sulla natura intrinseca menzognera della fotografia trasforma quell'antico mito nel presente vissuto; perché se è vero che la Fotografia è nata con la patente di verità, come mezzo di rappresentare in modo “evidente” la realtà, il critico spagnolo ripete continuamente, portando a prova molti esempi, di come tutta la Fotografia non sia altro che “interpretazione”, un inevitabile incastro tra soggetto che fotografa, colui che è ritratto e colui che, da terzo, guarda la foto. Il taglio dell’immagine che si sceglie, la lente, l'apertura del diaframma, la tonalità, la distanza, l'editing, sono tutti fili che nel loro intreccio affermano il Velo di Maya quale illusione della verità.

Il mondo è la mia rappresentazione, ossia, una mera illusione ottica che nasconde la vera realtà, quella Noumenica, scriveva il filosofo tedesco, per cui noi non siamo in grado di vedere oltre la rappresentazione fenomenica.

 

Il Ragno e la sua Ragnatela ingannatrice.

Creatore laborioso di ordine dal Caos, da Cartier-Bresson ad Alex Webb, ma anche mera illusione ed astuto inganno, intento con la sua arroganza  (hýbris) a voler duplicare la realtà, a ri-crearla, cosa che solo gli dei possono fare.

 

Ma questo, alla fine, è solo un gioco dialettico.

L'ennesimo trick del ragno, grazie al quale le parole possono intrappolare l'interlocutore come il ragno la sua preda.

 

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