“Bambina cambogiana in un antico tempio ad Angkor Wat”. Siem Reap, Cambodia. © Ishu Patel |
“Mony, come ogni giorno, attraversava la foresta che dal piccolo
villaggio a Kouk Chak arrivava a lambire il fiume Siem Reap, dove trascorreva
alcune ore a lavare i panni. Il più delle volte si recava con altre donne del
villaggio, ma le capitava anche di andare da sola.
Camminava con il fiato grosso reggendo il ventre gonfio come un'anguria
con una mano e con l'altra il canestro in rame con gli abiti. A quell'ora la
foresta era un concerto di versi di uccelli e urla di scimmie; le vedeva
saltare da un ramo all'altro sopra la sua testa con una pioggia di foglie verdi
che baluginavano ai raggi del sole.
Era ormai intenta a tornare al proprio villaggio, tra gli arbusti e le
liane che penzolavano, quando vide il cielo farsi improvvisamente nero. Con
angoscia alzò lo sguardo verso il sole ed il suo respirò morì in gola
nell'osservare Rehaou ingoiare l'astro dorato.
Provò ad accelerare il passo, con gli arbusti che si spezzavano
graffiandole le gambe e i piedi, ma ormai non vi era quasi più una spada di
luce a cadere tra le chiome degli alberi.
D'improvviso fu tutto buio come la notte; anche la foresta divenne
muta.
Mony strinse il ventre con entrambe le mani, mentre le lacrime le
rigavano le guance. Si sedette ai piedi di un largo albero e attese la luce.
Quando raggiunse il villaggio suo marito Salto le corse incontro
preoccupato.
I giorni che seguirono furono mesti e pieni di inquietudine.
Mony giaceva sul letto accarezzando il ventre continuamente mentre sua
madre e suo marito provavano in ogni modo a farla mangiare.
Ognuno sapeva della sventura che era caduta sulla sua famiglia. Il
marito ogni sera offriva riso e vino di riso agli spiriti. Chiamò anche il kru
del villaggio affinché creasse degli amuleti per la giovane moglie.
Suo figlio nacque prematuro di alcune settimane e lo chiamarono Kosal,
che significa magico.
Siem Reap, Cambodia. © Ishu Patel |
Non tardarono a capire, vedendolo crescere, che non era come tutti gli
altri bambini. Ogni anno che passava si accentuava il suo ritardo mentale.
Mony non si dava pace, sapendo che era stata lei la causa di quella
sventura. Salto provava a calmarla, chiamava i kru di altri villaggi e i
più oscuri thmup*, ma Kosal era ormai deriso da tutti gli altri bambini.
Mony cercò anche, da sola, un anziano thmup che viveva isolato
nel cuore della foresta. Il vecchio Kae Yaw viveva in una grotta piena di
serpenti e nessuno sapeva dire la sua età esatta: le pietre della caverna erano
più levigate della sua pelle. La povera Mony implorò l'anziano stregone di
guarire suo figlio, gli offrì riso, sree tram, ma quando vide gli occhi
avidi di Kae Yaw divorarla con il respiro sibilante come i serpi al suo fianco
capì che doveva offrirsi a lui. La giovane madre disperata non perse tempo,
aprì il sampot e si distese al suolo mentre il vecchio stregone la
possedeva tra i serpenti che le sibilavano alle orecchie.
Al suo ritorno Kosal era sparito. Suo marito le disse che molto
probabilmente era a giocare nella foresta; ora che nessun altro bambino voleva
giocare con lui, poiché incapace di parlare e dal viso contratto come una
maschera, il bambino amava trascorrere il suo tempo solitario nella foresta.
Mony corse a cercarlo. Niente.
Gli uomini del villaggio, tutta la famiglia lo cercò per due giorni,
finché una mattina fu trovato il suo corpo, più a valle, incastrato tra le
pietre del fiume, ormai senza vita.
Lo strazio di Mony fu impossibile da raccontare.
Maledisse sé stessa, il marito che non aveva protetto suo figlio, il
villaggio che lo derideva, il vecchio thmup che aveva abusato di lei
senza nessun risultato.
Iniziò a vagare per la foresta, senza mangiare. Il marito chiamò di
nuovo il kru del villaggio ma Mony diventava irascibile quando vedeva i
guaritori e iniziava ad urlare ed inveire contro tutti e tutto.
Ormai era irriconoscibile: la bellezza che le era riconosciuta da ogni
uomo del villaggio aveva lasciato il posto ad un viso smunto, gli occhi
affossati cerchiati di nero, i capelli sporchi e unti.
Un pomeriggio scomparve.
Salto dovette cercarla da solo, con l'aiuto della madre e di alcuni
fratelli.
Come un presentimento lasciò gli altri a cercarla nella foresta mentre
lui si diresse verso il fiume, percorrendo la riva a valle. Dopo qualche miglio
trovò il corpo della moglie a galleggiare come una ninfea bianca tra le rocce,
cullato dalla corrente. In cuor suo sapeva che questa volte non era stato un
incidente come per il figlio: lo strazio della moglie le aveva corroso l'anima
come un tarlo divora il legno.
Il suo corpo fu bruciato, con le fiamme alte in cielo ad arrossare le
chiome degli alberi mentre le preghiere cantilenavano in cerchio al fuoco.”
“Povera Mony,” disse Bopha al nonno mentre la madre aveva portato ad
entrambi due piatti di prahok*, con riso e fagioli.
“Non sei stanca di sentire queste vecchie storie?” Chiese Ly Mut alla
nipotina mentre si ficcava in bocca una bella porzione di cibo.
Bopha scosse la testa affamata più delle parole del nonno che del buon
piatto preparato dalla madre.
“Hai detto che non finisce qui, vero?”
L'anziano annuì con la testa. Bevve di nuovo il suo amato vino di riso
e abbracciò, per un attimo, l'intero villaggio davanti a lui con lo sguardo.
Gonfiò il petto e sospirò.
“Adesso viene il momento della storia di Chhanny.” Disse Ly Mut con
dolcezza. Bopha lo guardò e con la bocca piena esclamò: “Io conosco tante
persone con questo nome, tha!”
Il nonno fece sì con la testa mentre i suoi occhi diventarono due
fessure intense come stelle lontane nel cielo della notte.
“Chhanny è un nome bellissimo che vuol dire chiaro di luna,
dalla fusione di chhan, luna, e ny, luce. Ecco perché molte donne
si chiamano in questo modo.”
Poi poggiò il piatto vuoto sullo stuoino, e prese una foglia di betel
da masticare. Imbracciò il suo tro e iniziò a pizzicare le tre corde
quasi a regalarsi un sottofondo alle sue parole.
“Chhanny era nata nello stesso villaggio di Mony; certo, ormai erano
trascorsi molti anni: era il 1950, circa. Ancora era lontano il periodo nero
che avrebbe sconvolto il nostro paese.
Era una bellissima bambina della tua età. Introversa e molto sensibile.
Non era come tutte le altre bambine a lei coetanee.
Appena poteva si inoltrava nella foresta, poteva camminare per ore.
Aveva come un intuito che la guidava tra la fitta vegetazione, senza
che si potesse perdere mai.
Sua madre Raskmey le chiedeva solamente di non tornare la sera.
“Sì, mak*, non preoccuparti,” la rassicurava Chhanny.
Ma più della foresta ciò che le dava maggior piacere era godere della
solitudine mistica di Angkor Wat.
Ogni volta che la vegetazione si apriva rivelando lo spettacolo di quel
tempio lei provava come un brivido che risaliva dai piedi fino alla base del
collo.
A quell'epoca non era frequentato come ai nostri giorni. Era ancora
come un enorme elefante sdraiato ai bordi del fiume, assonnato nella sua eterna
solitudine.
Era il tempo delle grandi piogge, quando le nevi dell'Himalaya si
sciolgono e vanno ad ingrossare le acque del Mekong, gonfiando i suoi due rami.
Ogni pomeriggio le nubi si aprivano rovesciando oceani di pioggia – sempre allo
stesso orario, come la strofa d’una canzone .
La bambina lo sapeva perciò arrivava ad Angkor Wat sempre leggermente
in anticipo. Quando iniziava a scorgere le cinque torri che sovrastavano il
tempio il suo cuore iniziava a battere di emozione; non avevano più l'oro dei
tempi di devaraja Suryavarman, ma a lei non importava, era ancora in
grado di scorgere la sua immensa bellezza.
Attraversava il ponte di pietra sul fossato luccicante dell'acqua,
quasi salutando i cobra e i leoni scolpiti sulle balaustre laterali, ed ogni
volta sostava dinnanzi alle tre porte, scegliendo se entrare dalla piccola
centrale o dalle due laterali enormi che un tempo erano per gli elefanti.
Camminava con i piedi nudi sulle pietre, tra i corridoi in ombra, e gli
spazi aperti alla luce che filtrava come spada appuntita tra le foglie.
Chhanny si sentiva come la protagonista di uno degli episodi del
Ramayana scolpito in quelle pietre millenarie. Non solo ne godeva con lo
sguardo ma anche con il tatto: aveva imparato a riconoscere ad occhi chiusi la
differenza tra le figure grezze e ruvide scolpite nella roccia e quelle
rivestite di una patina lucida, dovuta all'abitudine dei fedeli più semplici di
incollare piccoli pezzi di fogli d'oro sui personaggi buoni raffigurati,
accarezzandoli di continuo.
Ogni tanto avvertiva un alito gelido alle sue spalle. Sapeva che era
normale in quei labirinti di pietre, però le lasciava una sensazione di
disagio, come la saliva di una lumaca. Allora usciva all'aperto, si sedeva
schiena alla pietra e gustava la pioggia rovesciarsi rumorosa sul
tempio-montagna, mentre le scimmie saltavano urlando da liana a liana.
Angkor Wat. © Jaroslav Poncar |
A volte le capitavano anche degli strani eventi che la inquietavano.
Un pomeriggio, mentre attraversava il ponte di pietra, si sporse dalla
balaustra per osservare lo specchio d'acqua nel fossato, sorrise al suo volto
increspato dal movimento della superficie quando all'improvviso le apparve il
viso di una donna al posto del suo, senza che fosse in grado di leggerne i
tratti poiché l'acqua si fece torbida e scura. Chhanny urlò spaventata e
distolse lo sguardo; poi prese coraggio e guardò in basso, dove era tornato il
suo viso da bambina tra le nuvole riflesse dal cielo.
Con i mesi questi insoliti accadimenti si intensificarono, ma non ne
parlò con i suoi genitori perché temeva che le avrebbero proibito di andare
nella foresta.
Invece, come ogni giorno, la bambina mangiava velocemente il prahok
preparato dalla madre e si addentrava tra gli alberi.
Però iniziava ad avere l'impressione che ci fosse qualcuno o qualcosa
che la seguisse.
Chhanny era una ragazzina profondamente coraggiosa, ma quando una sera
che stava tornando in ritardo, si accorse che l'intera foresta divenne muta di
colpo, come se qualcuno avesse soffiato sulla fiamma della lampada e fosse
caduto improvvisamente il silenzio; ebbe un brivido che la immobilizzò nel
cuore di una piccola radura. Si guardò intorno, alzò il viso ad osservare le
alte chiome degli alberi millenari, ma neanche una foglia si muoveva, non un
verso di uccello o una scimmia a scuoterne le fronde. Tutto taceva in modo
irreale e pareva che la luce del sole che tramontava non riuscisse a penetrare
la coltre di foglie e rami.
Piuttosto che correre si fermò irrigidita che pareva una delle figure
scolpite nella pietra di Angkor.
Ebbe la sensazione che qualcosa si muovesse velocemente tra la
vegetazione intorno a lei, ma appena si voltava verso quell'ombra essa svaniva
e si appalesava nella direzione opposta.
Chhanny si chiedeva dove fossero andati gli uccelli, le rane del fiume,
le farfalle e i serpenti.
Poi l'oscurità scomparve e la foresta tornò ad animarsi dei versi degli
animali e del fruscio delle foglie scosse dal vento.
Con un lungo respiro tornò a casa ma non le fu facile addormentarsi – iniziò a dormire con la luce della lampada alimentata ad olio di pesce vicino al capo.”
“La foresta era indemoniata, tha?” Chiese Bopha con la voce
flebile increspata dall'emozione.
Il nonno premette il dito indice sulle sue labbra e con un sorrise le
disse: “Ascolta...”
Poi riprese a pizzicare le corde del tro e continuò il racconto.
© Aishwarya Arumbakkam |
“Chhanny aveva quasi dimenticato quel che accadde nella foresta.
Erano trascorso mesi e lei era tornata ad essere la principessa
solitaria di Angkor Wat.
Ne aveva percorso ogni corridoio, si era arrampicata sugli alberi che
crescevano sui tetti dei santuari, avviluppando la pietra con la loro corteccia
come se fossero da sempre stati ognuno parte dell'altra. Coglieva le orchidee
che adornavano le apsaras scolpite par abbellire i suoi capelli e contava i
fichi d'india che crescevano tra le enormi pietre quadrate tinte di licheni e
muschi.
Si aggirava nei lunghi cunicoli che puzzavano di sterco di pipistrello
fissando ad uno ad uno i volti enigmatici della apsaras dai lobi delle orecchie
allungati fino a toccare le spalle e i copricapi a punta, tutte con gli occhi
chiusi, fin quando alla fine del corridoio una delle immagini scolpite spalancò
gli occhi in un lampo. Chhanny lanciò un urlo che risuonò con l'eco per tutta
Angkor.
Uscì correndo da una delle porte contornate dalle radici spesse e
nodose degli altissimi alberi. Il sole era svanito: l'intero tempio era
annegato nell'oscurità più totale.
“Mak! Mak!”
Chhanny gridava correndo verso il ponte di pietra. La foresta le sembrò
più fitta del solito, faceva fatica a farsi largo tra la vegetazione, come se
l'intera flora si chiudesse su di lei, stritolandola.
Tra gli alberi una macchia bianca appariva e scompariva correndo
parallela a lei. Il cuore era impazzito
e il suo viso era bagnato di lacrime e sudore.
Sapeva che le rimanevano da percorrere altre miglia prima di uscire
dalla foresta così, mentre correva, iniziò ad urlare verso la vegetazione
oscura come il cielo: “Chi sei? Che vuoi da me? Lasciami in pace!”
Non riuscì più a correre, aveva i polmoni gonfi come mammelle di bufala.
Si fermò dietro un tronco a prendere fiato con le mani sulle ginocchia,
piegata in due dalla fatica e dalla paura.
Quando aprì gli occhi vide di fronte alla punta dei suoi piedi le dita
di un piede rugoso e nero. Scattò dritta impietrita dal terrore. Davanti a lei
una donna dai capelli lunghi e crespi più della mangrovia la fissava. Non
riusciva a vedere il viso perché tutto era buio e dalla faccia si scorgevano
solamente gli occhi che la scrutavano.
Chhanny sentì le gambe farsi molli peggio della zuppa; provò a correre
via ma la donna la bloccò con le mani sulle spalle.
“Dove vai, figlia mia? Finalmente ti ho trovato. Rimani con me... non
andare via anche tu...”
La bambina gridò a pieni polmoni tentando di divincolarsi.
“Non sei la mia mamma! Vai via! Lasciami!”
Ma il demone stringeva con forza le mani sulle spalle della bambina.
“Lo so, srey*, che tutti ti prendono in giro. Ti deridono.
Nessuno vuole giocare con te, povera piccola mia. Ma io sono tua madre, ti amo.
Non ti lascerò più andare via, allontanarti... Resta...”
La voce poteva dirsi femminile ma era come se provenisse da un'epoca
remota; sembrava risuonasse nei labirinti di pietra di Angkor Wat.
“No! No! Non voglio!”
Chhanny battendo i piedi gridò fino a gonfiare le vene del collo che parevano
i rami che la circondavano.
“Abbandona il villaggio... Rimani con me nella foresta...”
Le sussurrò il demone con le parole che diventarono un fiato caldo e
appiccicoso sul viso della bambina. Allora Chhanny raccolse tutte le forze che
le restavano e diede una spinta con entrambe le mani sul petto della donna e
urlò come un tuono e il volto più rosso del sangue: “Vai viaaa!”
Il demone svanì all'improvviso e la bambina cadde a terra priva di
sensi.
Suo padre la trovò la notte, dopo ore e ore di ricerca con gli altri
uomini del villaggio.
Nessuno riuscì a capire cosa le fosse successo. Non erano in grado di
svegliarla: dormì per due giorni e due notti. La famiglia raccolta attorno al
suo giaciglio pregava continuamente e faceva offerte agli spiriti e ai monaci,
ma gli occhi di Chhanny rimanevano chiusi; il corpo disteso, immobile,
solamente il petto si muoveva leggermente nel respiro. Anche il kru del villaggio
provò a curarla ma la bambina non si destava.
Decisero allora di chiamare un gruppo di Pleng Arak da un villaggio
vicino. Arrivarono in cinque, alcuni dei musicisti erano molto giovani, il
suonatore di tro sembrava avere qualche anno più di Chhanny. L'uomo più
anziano che guidava il gruppo si sedette con il suo Chapei Dong Veng* ai
piedi della bimba e gli altri ad arco ai suoi lati.
Suonarono molte canzoni antiche più delle statue di Angkor Wat, per ore
e ore, cantilenando “Reamun, reamun ey – Diffondi la tua magia.
Invita i tuoi amici spiriti a unirsi a noi questa notte” – illuminati solo
dalla fiamma della lampada, pregando lo spirito arak di abbandonare quel
giovane corpo innocente.
Alla quarta ora di musica, in piena notte, Chhanny aprì finalmente gli
occhi, tra le lacrime di gioia della madre e del padre. Vide dinanzi a sé uno
ad uno i giovani musicisti che avevano intercesso per lei con l'oltre vita.
Finalmente Mony era tornata al suo mondo tra le foreste ed il fiume in
cerca di suo figlio.
Da quel giorno Chhanny e il giovane suonatore di tro diventarono
inseparabili; lui non la lasciava più andare da sola ad Angkor Wat e lei
adorava descrivere al giovane le centinaia di storie del Ramayana scolpite
nella pietra. Insieme si arrampicavano sugli alberi e coglievano le orchidee.
Dopo due anni si sposarono con una grande festa al villaggio.
“Meno male che è finita bene, tha,” Disse Bopha tirando un sospiro
trattenuto a lungo per la tensione.
“Che fine ha fatto poi Chhanny?” gli domandò.
Ly Mut sorrise mentre masticò un'altra foglia di betel, strizzò gli
occhi tra le rughe e guardò dritto negli occhi Bopha.
“Oh, è stata una donna felice. Riuscì anche a sopravvivere al periodo
buio dei Khmer Rossi. E poi... Tu l'hai anche conosciuta”, disse l'anziano
gustando lo sguardo confuso e stupefatto della nipotina.
“Io? Quando?” Esclamò Bopha guardandosi ingenuamente tutt'intorno come
se fosse proprio a fianco a lei.
“Chhanny era tua nonna”, rivelò masticando la foglia rossa tra i denti
mentre pizzicava le corde.
La bambina realizzò e spalancò occhi e bocca mentre con i palmi delle
mani batté a schiocco sulle ginocchia.
“Allora eri tu quel giovane suonatore di tro!” esclamò ad alta
voce fiera di aver compreso un'importante segreto per la sua età.
Ly Mut annuì con un sorriso, accarezzando i capelli della bambina e le
disse: “Sì, ero io, e l'anziano direttore del gruppo era mio padre. Perciò non
prenderti gioco degli spiriti e delle nostre tradizioni. Loro sono parte della
tua famiglia. Siamo sopravvissuti anche al disegno criminale di Pol Pot e del
suo delirio di cancellare del tutto la storia del popolo khmer, ma lui è
svanito come cenere nella jungla mentre Angkor Wat ancora riposa immutabile
nella sua gloria e bellezza.
Ricordati sempre di questa storia e quando sarai madre raccontala ai
tuoi figli.”
Bopha annuì convinta fino al midollo di ogni parola dell'anziano.
Poi lui le diede un pizzicotto sulla guancia e le disse: “Adesso vammi
a prendere un bicchiere di sraa tram che ho la bocca più secca di un
campo di grano dopo un anno di siccità!”
Continuò a suonare mentre con lo sguardo seguiva Bopha schizzare
saltellando su per le scale di legno fin dentro la loro casa.
Allora avvicinò l'orecchio alle corde e sospirò con un sorriso.
“Certo che le corde in seta erano un'altra cosa...”
*Thmup, stregoni o fattucchiere, sempre esistiti in Cambogia, con il tempo iniziarono ad essere isolati dalla collettività e a vivere nella foresta, che nella credenza khmer è il luogo simbolico e oscuro (brai) opposto al campo, al villaggio (sruk). Recentemante ci sono stati anche casi di caccia e uccisione dei thmup.
*Prahok è una pasta di pesce salata e fermentata (solitamente di pesce-fango) utilizzata nella cucina cambogiana come condimento. È nato come un modo per conservare il pesce durante i mesi in cui il pesce fresco non era disponibile in abbondanza. A causa della sua salsedine e del suo sapore forte, viene utilizzato come aggiunta a molti pasti della cucina cambogiana, come zuppe e salse. Un proverbio cambogiano recita “No prahok, no sale”, riferendosi a un piatto dal sapore povero o insipido, evidenziando così la sua essenzialità nella cucina cambogiana.
*Mak, mamma in lingua khmer.
*Srey, termine con cui ci si riferisce alle ragazze in generale.
*Chapei Dang Veng è una chitarra cambogiana a due corde con il manico lungo ed è usata nelle orchestre Arak e Pleng Ka.
Post Scriptum.
Di certo questo è stato il racconto più difficile da scrivere, non solo perché non sono mai stato in Cambogia ma anche perché non sapevo quasi nulla della sua storia e millenaria cultura.
Tutto è partito da un libro che ho letto e mi è venuta voglia di approfondire per scrivere la nuova storia sull'Asia. Ho impiegato tre settimane di studio.
La figura del nonno è presa dalla vita reale di Ly Mut, una leggenda ancora vivente della musica Pleng Arak, a cui mi sono ispirato grazie alle sue interviste. Non volevo che un racconto sulla Cambogia dovesse necessariamente parlare di Pol Pot, ma mia piaceva raccontare l'antica tradizione culturale e il suo forte legame con il mondo degli spiriti.
Non avrei mai potuto scrivere in questo modo il racconto senza l'aiuto di un giovane amico khmer, Rorthanakdara Run “Dara”, a cui va il mio profondo ringraziamento, e Visell, il fondatore della pagina Facebook “Khmer Culture” che ha amato e incoraggiato questo mio racconto.
Di grande aiuto è stato per me il libro di Wim Swaan su “Le città scomparse dell'Asia: Ceylon, Pagan, Angkor” (Res Gestae) e, come al solito, le suggestive fotografie di Ishu Patel.
Dedicato alla millenaria cultura khmer.
The story of Ly Mut:
Forgotten melodies of Pleng Arak
A quest to document the sound of Pleng Arak
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