Gli Evaporati

 

Shoji Ueda, 1950


Recentemente sono venuto a conoscenza di un fenomeno molto particolare che accade nella società giapponese. Mi sono informato meglio.
 

Si sa quanto la società giapponese – e quella cinese – sia competitiva. Il tasso dei suicidi, fin dall'università, è altissimo in questo paese, il più alto al mondo, con 30-53.000 casi ogni anno.

L'insuccesso negli studi, come nella vita affettiva o nel lavoro, è come uno stigma, un peso e un'onta inaccettabile.

Ma non esiste solamente il suicidio come soluzione.

Famosi sono anche gli “hikikomori” (stare in disparte), i giovani che decidono di autoescludersi nelle proprie stanze: al giorno d'oggi sono 500mila (su 127 milioni di abitanti), i giovani vittime di bullismo, che hanno fallito a livello scolastico o licenziati dalle aziende, che decidono di vivere l'intera esistenza senza mai uscire dalle stanze, immobile ore e ore davanti ai computer, vivendo vite non reali.


Lo studio e il lavoro, in Giappone, raggiungono livelli di stress insopportabili: a scuola tutti i giorni della settimana, 12 ore al giorno di lavoro con pochissimi giorni di ferie, proibito parlare al cellulare nei vagoni della metropolitana, dove molto spesso la gente dorme – perfino in piedi.


Michael Wolf, Tokyo Compression #39, 2010


Inoltre, elemento ancora più determinante e profondo, la cultura giapponese predilige il silenzio e le emozioni non vengono mai comunicate. Nei matrimoni stessi, le coppie non manifestano le loro emozioni. Tutto è avvolto dal silenzio e da una gentilezza di facciata, che cela drammi interiori laceranti.

E quando questi drammi inchiostrano di nero i bei abiti bianchi di alcuni di loro, come ideogrammi di dolore su fogli di carta di riso, decidono di scomparire.

O meglio, di “evaporare”.


Non il suicidio, quindi.


Bensì, migliaia di cittadini, uomini e donne di ogni età e ceto sociale, ogni anno si lasciano tutto alle spalle per scomparire dalla società che li ha feriti.

Come è emerso da un libro inchiesta, recentemente pubblicato: “The Vanished: The 'Evaporated People' of Japan in Stories and Photographs” (Gli Evaporati del Giappone attraverso storie e fotografie) della coppia francese, lei autrice e lui fotografo, Léna Mauger e Stéphane Remael.

Johatsu”, vengono chiamati in giapponese.

Il loro lungo reportage ha documentato di come esistano ormai agenzie dedicate a queste persone, capaci di cancellare le loro vite a livello amministrativo, e in poche ore “trasportarli” in località remote, senza che famiglie, amici o consorti ne sappiano nulla.

Nel libro sono raccontate anche le storie di questi “traslocatori notturni”, un nuovo mestiere in Giappone, il cui compito è appunto quello di far perdere le tracce a chi lo richiede.

Un giro di affari milionario, protetto anche da una legge nazionale sulla protezione dei dati personali, che consente ad una persona maggiorenne di andare ovunque senza dover fornire spiegazioni, anche alle proprie mogli o mariti, e il diritto all'anonimato, e dunque senza poter essere rintracciati dalle autorità, se la fedina penale è pulita.

Non a caso esistono degli investigatori privati che provano invece a ritrovare queste persone evaporate.


Comunque non è un fenomeno recente, adesso se ne parla di più. Ma fin dagli anni Settanta i giovani lavoratori cresciuti in campagna scappavano dal lavoro duro verso le città.

Non a caso il nome Johatsu è preso dal titolo di un documentario diretto da Shōhei Imamura, del 1967, “Evaporazione dell'uomo”, che racconta la storia di un uomo che si lascia tutta la vita, fidanzata compresa, alle spalle.

Poi negli anni Novanta ci fu il boom di questi casi, e adesso è una realtà raccontata in inchieste, libri e servizi nei telegiornali della BBC.


È un fenomeno inquietante e fa riflettere.


Soprattutto in questi tempi dove, al contrario, ciò che provoca ansie e solitudini è il non essere visibili a tutti. Nelle nostre società ci si ammala e si muore, in modi assurdi, per avere un selfie unico da postare sui social networks che possa attirare su di noi più interesse possibile (che si traduce in numeri di “like”).

Certo è che tra le due polarità la virtù è nel mezzo.

È assurdo pensare di sparire, una mattina, senza dire niente ai propri genitori, amici, o consorti, per vivere in un luogo dove niente rimane del nostro passato, come una nuova identità.

Ma è anche altrettanto inquietante come non sia ormai possibile scomparire – che si traduce in essere offline nei social networks- per un'ora senza destare allarmismo nei nostri amici.

È come se avessimo un GPS nel cuore e dovessimo essere sempre “presenti” e rintracciabili; come se le luci verdi o blu che indicano la nostra presenza online equivalesse a quelle dei macchinari che tengono le persone in vita negli ospedali.


Due società allo specchio, due disturbi mentali.

Due differenti tipi di stigmi sociali: l'insuccesso e l'incomunicabilità che porta a far perdere ogni traccia della propria esistenza, volutamente irrintracciabili; e, dall'altra parte, lo stigma di non essere abbastanza e “propriamente” visibili agli occhi del mondo, troppo poco esposti e pericolosamente offline, come se sparire per qualche ora coincidesse con il confessare colpe e peccati da tenere nascosti.


Conoscere le altre società e culture, nei loro drammi e problematiche, ci insegna a capire molto meglio anche la nostra.

 

Shoji Ueda, 1984

 




Léna Mauger ad Stéphane Remael: “The Vanished: The 'Evaporated People' of Japan in Stories and Photographs” (Skyhorse Pub Co. Inc, 2016)
Michael Wolf - Tokyo Compression, Peperoni Books (October 10, 2010)



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