© Kristian Leven |
Il giorno seguente Cherry Oo attraversò Gabaye Pagoda Road, come faceva
di solito, si fermò nella Shwedagon Pagoda per una breve preghiera con l'incenso
tra le dita e si diresse verso il negozio della madre.
La strada era affollata di civili e militari e la pioggia non si curava
delle differenze nel martellare gli ombrelli e i tetti delle macchine.
Alle quattro in punto l'uomo elegante, con la sua valigetta e
l'ombrello, stava aspettando a fianco della porta di lato al negozio, sotto la
piccola tettoia con lo sguardo che vagava da destra a sinistra in cerca della
ragazza.
Quando Cherry Oo vide l'uomo vicino al negozio affrettò il passo, con
le sneakers che facevano lo slalom tra le pozzanghere nell'asfalto.
“Mi scuso per il ritardo”, esclamò la ragazza con un poco di affanno
nella voce, mentre cercava le chiavi nella tasca dei jeans.
“Non c'è problema, sono appena arrivato anche io dal lavoro.”
Le rispose il giovane uomo mentre osservava la strada davanti,
ricordando la volta in cui non vi era un buco vuoto tra la folla dei
manifestanti e l'esercito che li assaliva per disperderli; era ancora vivo
nell'udito il suono secco dei cartelli colpiti dai bastoni, le urla e i colpi
di fucile sparati in aria.
“Prego, si accomodi.” Disse Cherry Oo mentre accendeva la piccola
lampadina all'interno del negozio.
Il giovane uomo elegante entrò quasi con lo stesso spirito ed
attenzione di quando si entra in un monastero, avrebbe perfino voluto togliersi
le scarpe.
Tutto era rimasto identico, con il libro in pelle scura sulle
confezioni dei sanghati, le vesti
dei monaci, le scatole di incensi, le statuine del Buddha, la radiolona a
transistor appesa ad uno spago di lato sulla sedia di plastica.
Come se il tempo si fosse fermato, inchiodato nel suo scorrere dai
proiettili della memoria.
“Questo negozio era tutto il suo mondo...”
Disse la ragazza mentre prendeva dai cassetti dei piccoli quaderni.
L'uomo si accorse che gli occhi della ragazza trattenevano le lacrime.
“Passavate molto tempo insieme?” Domandò curioso l'uomo.
Cherry Oo rispose mentre era intenta a cercare oggetti della madre
sparsi per il piccolo negozio.
“Beh, io ho la scuola e lei doveva prendersi cura di mia nonna e del
negozio, però appena trovava del tempo lo passavamo insieme.
Per esempio, noi avevamo un rito che non saltavamo mai: quando passavo
un esame, di grado 1 a 11, nella scuola superiore, lei veniva a prendermi a
scuola e a piedi andavamo al vicino lago Inn Yer, là c'era un'area gioco e May
May mi faceva compagnia. Non ha mai mancato un giorno, ad ogni esame: era il
nostro momento intimo.”
“Capisco. È morta per l'epidemia?”
Domandò con delicatezza l'uomo, mentre Cherry Oo apriva il pannello di
legno per fare entrare un po' di aria e di luce.
La ragazza fece cenno di sì con il capo.
“Qui ormai si muore o per questa maledetta epidemia o per mano
dell'esercito...”, fece una breve pausa, “...di certo non si muore per la
pioggia.”
Disse con un sorriso, quasi a scacciare i fantasmi della tristezza.
“È vero. Se non fosse stato per tua madre magari adesso, anche io,
sarei cenere in aria. Quel giorno ci fu una folla che riempiva tutta la strada
qui davanti; poi arrivò l'esercito e iniziò a colpire dovunque capitava.
Iniziarono a sparare sulla folla, a trascinare per terra donne, monaci,
anziani, per arrestarli. Tua madre mi fece entrare qui dentro. Non la conoscevo
neanche, fu molto gentile. Mi disse giusto il suo nome prima che io andassi via.”
Raccontò l'uomo con lo sguardo perso oltre il rettangolo di pioggia e
asfalto.
“Sì, May May era fatta così. Era felice con poco. Le era sufficiente
una canzone.”
Disse Cherry Oo afferrando la piccolina radiolina penzolante e
l'accese.
Una vecchia canzone stava sfumando, tra chitarrine e la voce di un uomo
che sembrava cantare da un secolo remoto.
Il giovane uomo accarezzava con la mano la plastica trasparente degli
abiti dei monaci, mentre con gli occhi seguiva le scie dei fanali delle
automobili annebbiati dalla pioggia.
© Nandy |
“Che coincidenza! Questa era la canzone preferita di mia madre!”
La voce della ragazza galleggiava nell'oceano che il cielo rovesciava
su Yangon, mentre alzò un poco il volume.
“Maung....”
“Se tu credi nel tuo cuore
tu devi allontanarti da me, lentamente...”
La voce di May Sweet sembrò sdoppiarsi, come l'eco in una caverna.
Poi l'uomo avvertì una mano posarsi sopra la sua dolcemente.
Si voltò alla sua destra e vide il viso sorridente di Daisy.
Spalancò gli occhi e la bocca, impietrito.
“Sei tornata?” Sussurrò l'uomo, guardando la sua mano, con la chiara
percezione che ci fosse veramente la mano della donna poggiata sopra la sua.
Non stava sognando.
Daisy cantò con gli occhi fissi sui suoi.
“Se tu mi amerai fino al prossimo ciclo,
non potrai mai dimenticarmi un secondo,
sto per allontanarmi da te....”
“Maunggg...(darling)”, cantarono in sincrono.
“Sei tornata per restare?” Chiese lui stordito dall'emozione.
Lei gli accarezzò la guancia dalla pelle chiara.
“Sono tornata affinché tu faccia quello che avresti dovuto fare quel
giorno che ci siamo incontrati.”
Lui trattenne il fiato, poi si avvicinò sempre di più al viso di Daisy,
fino a sentire il suo respiro sulle labbra.
Chiuse gli occhi.
Si scambiarono un lungo bacio.
Un bacio lungo quanto il fiume del tempo che andava dal Regno di Pagan
del Re Anawratha, alle gesta funeste di Kublai Khan, attraversando la dinastia
di Konbaung del Re Alaungpaya, fino a perdersi in un futuro che nessuno
riusciva a intravedere ma odorava di serenità.
Un bacio potente quanto il passo degli elefanti nelle foreste e caldo
quanto la voce profonda dei monaci in preghiera.
Un bacio dolce come la polpa della papaya e salato come le lacrime
degli addii.
Mentre le loro labbra erano un'unica essenza il giovane uomo si accorse
che il calore della mano di Daisy che stringeva con vigore sembrava arretrare,
dalle punte delle dita fino alle nocche, al palmo, ai polsi. Sembrava di
stringere delle crisalidi. Anche i bei lineamenti del volto della donna iniziavano
a farsi filigrana, fragili e nebulosi.
Allontanò le labbra e con un'angoscia che gli dilaniava il cuore disse:
“No. Non andare via di nuovo. Ti prego...”
Daisy, o meglio la sua carne in trasparenza, sorrisse di nuovo.
“Noi non veniamo né andiamo da nessuna parte.
Noi siamo sempre qui.
Nell'oblio come nel ricordo vive sempre una parte di noi. Io non sto
andando via da te perché vivrò sempre, da adesso, nelle tue labbra.”
“Maung...
Non potrai mai dimenticarmi un secondo...”
“Sta bene? Signore! Sta bene?”
L'uomo mise a fuoco lo sguardo e vide Cherry Oo che agitava la mano
davanti ai suoi occhi.
Lui si guardò intorno, si osservò le mani, poi dissimulò naturalezza
sistemandosi la frangetta dei capelli neri sulle sopracciglia sottili.
“Si, si. Tutto bene...”
“Sembra che ha visto un nat*! Le parlavo ma non mi ascoltava.
Non faceva altro che fissare il vuoto e cantare “Maung”. Le piace proprio
questa canzone! Proprio come mia madre.”
Esclamò la ragazza spegnendo la radiolina.
“Possiamo andare adesso? Mia nonna mi sta aspettando a casa.”
L'uomo chinò il capo due volte con le mani giunte.
“Certo, certo. Scusami ancora. Non so che mi è preso.”
Poi accarezzò un'ultima volta la plastica delle confezioni di sanghati
mentre la ragazza richiuse il pannello in legno e spense la lampadina.
Cherry Oo chiuse a chiave la porta del negozio e aprì l'ombrello.
“Spero che questa visita le sia stata utile nel ricordo di mia madre.”
Disse la ragazza con un malinconico sorriso.
“Assolutamente. Non so come ringraziarti.” Le rispose l'uomo.
“E comunque tua madre non è mai andata via: è sempre qui con noi.”
Cherry Oo gli sorrise e annuì con la testa.
“Devo andare adesso. Buona serata.”
Lo salutò e si incamminò con passo spedito, perdendosi tra la folla
della gente che tornava a casa dal lavoro sforzandosi di vivere una vita
normale.
L'uomo aprì l'ombrello. Diede un ultimo sguardo al negozio e si
allontanò anche lui tra la folla, fischiettando la melodia di May Sweet.
La pioggia non cessava di cadere ormai da settimane su Yangon.
Le nubi nere sembravano avvolgere le cime delle pagode d'oro.
© Nandy |
In memoria di Khin Cho Win Win – Daisy Kyawwin
R.I.P.
Yangon
30 ottobre 1972
31 luglio 2021 – 4.30 p.m.
Alcune parole:
Questa storia è rimasta nel cuore di molti, in chi ha letto in libro in
italiano e qui nel mio blog. Come ha scritto la prof. Antonia Soriente nella
Postfazione al libro, la prima storia aveva un finale aperto che lasciava in
sospeso le vite e le emozioni dei protagonisti, proprio come i destini degli
abitanti di Yangon in questi anni terribili per loro.
Poi la morte è arrivata con tutto il suo crudele realismo e pesantezza,
chiudendo con forza ciò che io avevo lasciato aperto con la fantasia.
Il 30 luglio sarà l'anniversario del primo anno dalla morte di Khin Cho Win Win. Il suo addio mi ha lasciato l'amicizia con sua figlia. Il
ricordo di sua madre vive per sempre in quel primo racconto che Khin amava
molto.
Perciò ho voluto dare un secondo giro di ruota, non solo per
accontentare le richieste dei molti lettori che volevano sapere come fosse
andata a finire la storia: fosse per me sarebbe stata sufficiente la prima. Ma
è stata anche una richiesta di sua figlia Nandy, che ringrazio di cuore per
avermi concesso di usare le vere fotografie di lei e sua madre, oltre ad avermi
raccontato i dettagli della sua morte. Perché una delle presunzioni, o
illusioni dell'arte, è quella di rendere eterno ciò che eterno non è.
Però Khin ci credeva veramente a quel “prossimo ciclo” cantato da May
Sweet, così come sua figlia.
Questo è il senso del bacio.
“Se tu mi amerai fino al prossimo ciclo,\ non potrai mai dimenticarmi
un secondo,\ sto per allontanarmi da te....”
Poche volte una canzoncina pop ha racchiuso in modo così potente nei
suoi versi il senso profondo della vita delle persone: amore, ricordo eterno e
abbandono.
Questa volta è per te piccola Nandy.
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