Madras, India, 1971 ©Edouard Boubat |
Ci sono fotografi non troppo noti che però hanno avuto un loro percorso
e una identità precisa. Capita di scovarli rovistando tra i libri usati nei
chioschi di seconda mano, tra la polvere e l'oblio. È il caso di Edouard Boubat.
Confesso onestamente di non averlo mai sentito prima, e ho preso il suo
fascicolo perché la foto in copertina mi ricordava le immagini classiche di
Willy Ronis o Giacomelli. Leggere su di lui è stato molto interessante e rivelatore, poi, del
colpo di fulmine per le sue fotografie, che mi ha fatto tornare a casa
soddisfatto dell'acquisto.
Ed è per questo che voglio condividerlo con voi.
Nato a Parigi nel 1923, ha vissuto l'infanzia con sua nonna nella
campagna, di cui sempre porterà con sé quel senso di armonia bucolica.
A 23 anni scopre la fotografia, che lo porterà a tenere varie
esposizioni e Parigi e conoscere Robert Frank ed Eugene Smith nel 1949.
Negli Cinquanta inizia i suoi lunghi viaggi, da corrispondente, che lo
porteranno nei quattro angoli del mondo. Dagli Stati Uniti all'India, che ritrae svariate
volte, fino a Hong Kong. Muore in Francia nel 1999.
Uno dei punti di svolta della sua vita e della sua visione fotografica fu il periodo da fotoreporter durante la seconda guerra mondiale: ne fu talmente sconvolto che decise di dedicare la sua arte alla celebrazione della vita. Questo è veramente lampante nelle sue fotografie, e lo sento molto vicino a me.
Ad aprire il libro una poesia del suo amico Jacques Prévert che coglie perfettamente il cuore del suo lavoro, parlando della sua permanenza in India:
“Boubat ha vissuto laggiù, ha visto tutto ciò, e quando è ripartito,
gli hanno detto arrivederci, come si dice a un amico.
Tutto questo sembra perfino troppo semplice in un mondo in cui
ovunque i cronisti della morte e della sventura
svolgono il loro lavoro tra carneficine e massacri.
Boubat, al contrario, nelle città più vicine come nelle terre
più remote e negli infiniti deserti del tedio, cerca e trova delle oasi.
È un corrispondente di pace.”
In questo modo verrà ricordato, come corrispondente di pace.
In effetti l'impressione che mi ha dato sfogliando le pagine, posando
gli occhi sulle sue immagini, è un senso di serenità e ricerca della dolcezza
che non è poi così distante dalla mia visione della fotografia.
Come scrive bene il critico Romeo Martinez:
“La natura stessa delle fotografie di Boubat, liriche, serene,
leggibili, lontanissime da tutto quel tragico che era stato pane e vita
quotidiani per troppi anni e dal quale tutti desideravano fuggire. Però, in
Boubat la predilezione per i soggetti dolci e felici non è mai stata volontà di
fuga, di evasione della durezza della vita, ma piuttosto obbedienza spontanea
alla sua natura umana, a una profonda vocazione.”
Io ho sempre considerato le mie fotografie allo stesso modo. Non ho mai smesso di
ricercare la serenità in ogni luogo dove sono andato, i sorrisi più che le
lacrime, i colori più che le ombre.
Questo può sembrare anche un limite. Sempre Martinez scrive sullo stile
del fotografo francese, a proposito della ricchezza nelle sue immagini di
fiori, corpi morbidi e seni materni che allattano, come tutto questo “è anche
l'origine di un malinteso. Molti infatti lo hanno letto e ancora lo leggono in
superficie, e la propria superficialità scambiano per la superficialità del
fotografo. Perché le immagini di Boubat sono trasparenti, leggibili, finite, le
hanno prese per leziose; perché sono serene e liriche, le hanno chiamate
evasive. Non si sono accorti che quelle fotografie rivelano una continua
ricerca del reale e una affermazione della sensibilità.”
Questa è stata la ragione dell’eclissamento di Boubat, l'essere preso alla leggera, sottostimato. Stessa sorte che, come ho già scritto, subisce OlivierFöllmi. Non a caso, entrambi i fotografi lavorano su registri dolci e romantici.
Le fotografie del Messico di Boubat sono la versione soffusa di quelle dure di Tina Medotti. La sua India
è fatta da famiglie in casa e donne che scherzano nel mare di Madras. I bambini
giocano e sorridono sempre. Le ragazze del Senegal sono sensuali come quelle
francesi.
“Maternity”, Paris, 1973 © Edouard Boubat |
Io mi ci ritrovo molto in questa visione della vita, piuttosto che della sola fotografia. Per questo mi hanno colpito le sue immagini. Dispiace che rappresentare il lato positivo ed emozionante della vita possa diventare un limite; come se solo la fotografia che colpisce duro e mostra dolore o difficoltà sia degna di rilievo.
Ma per far comprendere meglio la visione di Boubat è meglio lasciare alle sue parole, il suo autoritratto.
“Tutto ciò che sono oggi, lo devo ai miei incontri, agli amici, ai modelli che hanno posato per me, ai miei viaggi-reportage...
Esiste, nell'attimo magico che precede ogni forma di creazione, un istante meravigliosamente fecondo, in cui l'artista si arresta sgomento, stupefatto: la visione quotidiana del mondo svanisce, si dissolve, mentre il grido della sorpresa scaturisce dal profondo del cuore...
L'apertura del diaframma corrisponde anche a un'apertura del cuore e a una messa a fuoco dell'infinito. L'universo si apriva davanti a noi: tutto era ancora da scoprire. Circolavano pochi libri, la televisione non esisteva. Tutto era nuovo ai nostri occhi: paesi, villaggi, continenti, albe e tramonti, anche i servizi fotografici erano nuovi...
Tutti i raggi luminosi passano attraverso il centro dell'obiettivo che, talvolta, si rivela piccolo come la cruna di un ago. Il foto stenoscopico non è messa a fuoco su un punto preciso, è aperto alla globalità della visione. Lo sfondo non è mai insignificante: soggetto e sfondo si armonizzano in una sintesi. Se l'uomo è sereno anche l'opera risulterà serena, equilibrata.
A chi mi chiede 'Perché?', mi limito a rispondere: 'Perché amo.'
Quando ho cominciato a fare fotografie, dopo la guerra, spalancavo gli
occhi sulla realtà, provavo un intenso desiderio di conoscere e indagare il
mondo intero. Non si può imparare il mestiere di fotografo. A quel tempo mi
inventavo la mia strada, creandola ad ogni istante: mi auguro di continuare a
crearla nuovamente, in ogni istante, ogni giorno che verrà.”
“Prima neve”, Parigi, 1955 ©Edouard Boubat |
Devo confessare che, leggere queste righe, mi ha ricordato la figura di
Tiziano Terzani, uno dei reporter (e ottimo fotografo) più celebri in Italia,
che ha attraversato il mondo intero, specialmente l'Asia, testimoniando con i
suoi racconti i momenti più importanti – e spesso – crudeli di quei paesi: dalla
rivolta in Filippine, alla violenza dei Khmer Rossi in Cambogia, il Vietnam,
fino al suo amato Tibet, l'India.
Soprattutto nel bellissimo libro-intervista-memoria scritto con il
figlio Folco in punto di morte, “La fine è il mio inizio”.
Anche Terzani usa lo stesso termine di Boubat, rispondendo al figlio: “Adesso sono curioso. No, non sono curioso, sono sereno, Folco. Sono sereno. Non mi aspetto assolutamente più niente.”
Dopo aver testimoniato per decenni le crudeltà, i soprusi, le guerre in
ogni angolo del mondo, decise di ritirarsi per anni a vivere da solo su una
baita nell'Himalaya indiano, prima di tornare a morire, malato, nella sua
Orsigna, circondato dalla famiglia.
Ormai aveva da tempo sposato la spiritualità induista, aveva trovato la
pace interiore nella solitudine dei monti. La pace nella bellezza delle cose
che ricominciano ogni volta che finiscono.
La serenità piuttosto che la felicità.
La bellezza nei piccoli gesti.
Mardras, India, 1971 ©Edouard Boubat |
Questa idea che solamente le immagini concettuali, forti, drammatiche,
meritino attenzione relegando quelle più semplici e serene nel limbo della
leziosità o leggerezza la ritengo profondamente ingiusta. Leggerezza non è
superficialità. Una madre che abbraccia e bacia suo figlio non è leziosa ma è
parte dell'umano gioco, è un altro modo di raccontare la realtà, è la serenità
di chi gode nell'osservare anche le foglie di un albero.
Come scriveva Terzani, quando sei nella solitudine di una baita in cima all'Himalaya, anche un fiammifero acquista un valore a cui non avevi mai pensato, e fare un salto ti fa sentire la presenza del vento. Dopo i cadaveri in Cambogia, Mao, il Vietnam, le guerre, tutto si azzera davanti all'infinta valle dell'Himalaya.
Lo stesso viaggio che ha compiuto Boubat. Provare a raccontare la realtà con altri toni, altre sfumature. In modo positivo, cercando la bellezza nei gesti gentili, nei sorrisi. Anche a costo di apparire eccessivamente romantico o non attuale.
Ma alla fine chi se ne importa. Come scriveva il fotografo francese: “L'apertura del
diaframma corrisponde anche a un'apertura del cuore e a una messa a fuoco
dell'infinito.”
E a chi mi chiede perché lo fai... La risposta è semplice, e
superficiale, dannatamente superficiale: “Perché amo.”
Edouard Boubat |
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