Chissà quante volte sarà capitato di veder fare, e io per primo amo
fare questo gesto in quasi tutte le fotografie che mi ritraggono, il segno di
vittoria con la mano. Un gesto innocente che ho mutuato dai bambini n Asia e
che ormai è diventato qualcosa di spontaneo e immediato.
Poi se mi chiedono perché lo faccio non so neanche che rispondere: mi
piace e basta, mi infonde allegria e mi ricorda i selfie con i bambini nei villaggi
in Indonesia o con quelli cinesi a Roma; anche perché spesso non si sa come
mettere le mani quando si viene fotografati.
Le nostre vite sono piene di piccoli gesti, o parole, di cui abbiamo
dimenticato il significato o forse non abbiamo saputo.
Questo poi è veramente minimo e innocente.
Ci voleva un poderoso volume appena comprato per dargli un significato.
E che significato!
Il libro si intitola “Photographies East – The Camera and Its Histories
in East and Southeast Asia” curato da Rosalind C. Morris per la Duke University
Press di Londra, uscito nel 2009, e raccoglie alcuni saggi di antropologi sulla
presenza e significato dell'atto fotografico in Asia, fin dalle sue origini,
spaziando tra Cina, Giappone, Indonesia, Taiwan e Thailandia.
Non è il primo libro che ho su questo argomento, ho già accennato in
precedenza all'altro volume dedicato alla storia della fotografia in Asia di
Zhuang Wubin.
Ciò che accomuna queste narrazioni è la premessa sull'impatto che la
fotografia ha avuto sulle varie società dei paesi asiatici.
Qualsiasi studio di questo tipo parte sempre dal ruolo della fotografia
come uno degli strumenti dell'aggressività europea e colonialista: fin dai suoi
primi giorni, essa è stata il “segno dello straniero” e – come tale – uno dei
tanti equipaggiamenti dell'arsenale colonizzatore con cui gli occidentali hanno
dominato in Asia.
Va specificato però che non è un discorso che si riduce alla classica distinzione
dicotomica tra Oriente ed Occidente, o tra modernità tecnologica e primitivismo
organico, ma la questione è molto più complessa e va nel profondo della
fotografia in se stessa; prova ne è che lo scetticismo – fino al terrore vero e
proprio – delle popolazioni asiatiche non era rivolto solamente al
colonizzatore bianco che impugnava la macchina fotografica ma all'attrezzo in
sé, dato che lo stesso timore e scetticismo erano rivolti anche verso i primi
fotografi cinesi.
In realtà la comparsa dell'atto fotografico portava con sé tematiche
molto simboliche ed impattanti, come la relazione intima tra la fotografia e la
morte; oppure tra la fotografia e la violenza; la percezione del potere occulto
inerente alla tecnologia; o il legame che essa ha con le pratiche di
dominazione e soppressione politica.
Ricordo, a proposito, che il più delle volte le prime fotografie
scattate in Oriente raffiguravano i potenti Re delle dinastie thailandesi o
cinesi, o che erano proprio quei sovrani i primi a possedere le attrezzature
fotografiche e a dilettarsi in quell'arte, come accadde in Malesia.
Questo è un argomento assolutamente affascinante, a cui sto dedicando
molto tempo e su cui tornerò di sicuro in futuro.
Anche se, più che dalla digressione storica, questa volta sono rimasto
affascinato dalla lettura antropologica e filosofica di questi saggi raccolti
nel libro.
Chi mi legge da tempo sa quanto sia importante per me la riflessione
filosofica sull'atto del fotografare. A maggior ragione se tutto ciò è
relazionato all'Asia.
Perché ciò che emerge in modo prepotente dalle diverse tesi di questo
studio è che il colonialismo occidentale non ha portato con sé solamente il
mezzo meccanico della macchina fotografica ma ha imposto anche le sue
differenti visioni inerenti al tempo, allo spazio o alle grandi categorie come
la vita e la morte.
L'idea dell'estraneità contenuta nel discorso della fotografia
ha come suo corollario la concezione della macchina fotografica come l'origine
di una fessura, la quale segna la separazione tra due orientamenti del tempo
molto diversi: “Si apre tra un orientamento al passato come ciò che è tagliato
fuori dal proprio futuro e un orientamento al futuro come forma ideale del
passato”. (Rosalind C. Morris)
Queste due diverse direzioni del tempo hanno ascritte in sé da una parte il lutto e dall'altra la malinconia. Tutto ciò accade proprio grazie alla macchina fotografica che si colloca nel mezzo del flusso temporale.
Ovviamente questo discorso non è relativo unicamente all'Asia ma è
valido sempre e comunque quando si discute del valore filosofico dell'atto
fotografico, da Barthes alla Sontag: scattare una fotografia trascina con sé il
conflitto tra due differenti modalità temporali e rinnova continuamente il
dramma simultaneo della scomparsa e della persistenza.
Le persone ritratte nelle fotografie che scattiamo ogni giorno,
inconsapevolmente, diventano sempre segni visibili di un'assenza che però
permane al lungo nel tempo, a differenza delle nostre esistenze piantate nella
realtà finita.
Il problema sorge quando questi impianti filosofici e culturali si
vanno a scontrare con quelli asiatici che sono radicalmente diversi dai nostri.
Concetti quali il tempo, il passato, la morte, l'anima, variano da
paese a paese, da villaggio a città.
Darli per scontati è un errore enorme; ma questo fa parte della
presunzione del “colonialismo ideologico” che ci spinge a pensare che in ogni
parte del mondo in cui andiamo, tutti debbano condividere le nostre idee e i
nostri sistemi di valore.
Fotografo sconosciuto |
Valga come esempio l'interessante analisi che fa Nickola Pazderic nel
suo capitolo intitolato “Mysterious Photographs”, in cui analizza lo strano
fenomeno delle “foto misteriose”, lingyi zhaopian, divenuto popolare
negli anni Novanta a Taiwan.
Questo fenomeno è accomunato a ciò che nel 1800 gli inglesi chiamavano
le “spirit photographs” o “ghost photos.”
Gli anni Novanta furono per Taiwan il punto di passaggio tra un passato
segnato dalla legge marziale instaurata nel 1949 con l'arrivo del Partito
Nazionalista (KMT), ricordato con timore come il baise kongbu (terrore
bianco) sotto la tirannia del presidente Chiang Ching-kuo, che annoverò l'esecuzione di 4.000 persone, 8.000
imprigionati e oltre 20.000 perseguitati. Fu il periodo in cui il presidente
mantenne il suo regime autoritario e criminale in nome dell'unità alla Cina,
fino alla liberazione da questo clima dittatoriale con il ritorno delle Nazione
Unite alla fine degli anni Novanta e la proclamazione dell'identità dell'isola
come Taiwan.
Quelli che seguirono furono gli anni del boom economico, della
democrazia e del riconoscimento dell'isola tra le trenta maggiori potenze
economiche e commerciali del mondo.
La fine degli anni Ottanta, grazie al potere dello sviluppo economico,
infusero nuove energie e sogni di consumismo e imitazione dei modelli dominanti
occidentali.
Non è semplice riassumere la lunga analisi di questo articolo.
L'autore stabilisce un forte legame tra queste strane e spaventose
fotografie che riportavano spesso presenze di fantasmi impressi nei negativi
delle fotografie e il successo incredibile che ebbe la wedding photography,
ovvero le fotografie pre-matrimoniali o dei matrimoni, a cui nessuna coppia
poteva sottrarsi e che fece fiorire centinaia di sudi fotografici appositi.
La fotografia come forma necessaria alla “indefinita perpetuazione
della memoria dell'apparenza delle relazioni sociali.”
Da una parte vi è la necessità, impossibile da declinare per essere
accettati socialmente, di apparire nelle fotografie, dall'altra le ataviche
paure legate a tutto ciò che ruota intorno all'apparecchio fotografico e
all'atto dello scatto.
Anche se non arriva mai ad essere una esplicita ammissione, per i taiwanesi la fotografia continua ad avere un potere misterioso ed occulto.
©Masatoshi Naito |
L'antropologo ha registrato l'opinione frequente tra la gente per cui
la macchina fotografica ha la capacità di catturare campi energetici a basse
frequenze prodotte sia dagli individui che dai fantasmi (come è testimoniato
dalle “ghost photographs”).
Qui arriviamo al cuore di questo argomento e alla sua parte
affascinante, per me.
Per la società taiwanese la fotografia spontanea, quella che noi
chiamiamo “di strada”, è quella che suscita più sgomento e giudicata
negativamente. Rubare la foto di una donna che fa compere, cammina o parla inconsapevolmente
è considerato uno “scatto furtivo” (toupai), il cui utilizzo è quello
del puro piacere di chi lo realizza.
Per assurdo, nella percezione della società taiwanese, è più
tollerabile la consapevolezza di essere costantemente ripresi dalle telecamere
di videosorveglianza, fin anche all'interno delle toilette per donne, piuttosto
che essere fotografati inconsapevolmente.
Riporto qui questa splendida metafora che è però avvertita come reale
nella concezione taiwanese (e non solo), la quale aiuta a comprendere bene
questa stranezza.
“Va
notato che gli spiriti del disordine e della perdita rimarrebbero invisibili
alla maggior parte degli occhi se non fosse per la fotocamera. Il dispositivo,
tuttavia, è anche caratterizzato dalla scienza e dal mistero perché cattura
schemi energetici e perché la sua lente è concepita come yang (intrusiva,
ordinatrice e maschile) mentre i suoi negativi (fumian) sono considerati
yin (ricettivi, disordinanti e femminili). Inoltre, i referenti fenomenologici
dei buchi neri, dei tunnel temporali e dei campi spirituali hanno anche molto
in comune con l'ontologia ambivalente della telecamera, nella misura in cui
questi significati tengono insieme l'universo mentre minacciano di risucchiarne
la vita.” (N. Pazderic)
Questa percezione della macchina fotografica aiuta a comprendere meglio
quel timore nell'essere fotografati piuttosto che essere filmati dalle
telecamere.
Come racconta un anziano taiwanese all'antropologo, quando era ancora
un ragazzino nel villaggio, era opinione comune tra i contadini bifolchi (tubaozi),
come li chiama lui, che doveva assolutamente essere evitato di essere
fotografati perché la macchina fotografica, con il suo flash, avrebbe catturato
l'essenza delle persone ritratte, e che i negativi all'interno della camera,
una volta tirati fuori avrebbero portato con sé quelle anime.
Christian Metz lo scrive molto bene nel suo articolo “Photography and
Fetish” (1990): “La foto, come la morte, è un rapimento istantaneo dell'oggetto
fuori dal mondo in un altro mondo, in un altro genere di tempo – a differenza
del cinema, che sostituisce l'oggetto, dopo l'atto di appropriazione, in uno
scorrere del tempo simile a quello della vita.”
©Masatoshi Naito |
Ecco allora emergere le varie forme di resistenza a questo pericolo, di
sottrazione alla violenza della fotografia.
Ho letto, per esempio, che è anche una credenza costante taiwanese –
come mi era capitato già di sentirlo dire in Indonesia, soprattutto dalle donne
– quella per cui, dato il potere occulto della fotografia, tre persone non
dovrebbero mai posare in una singola foto, poiché lo sbilanciamento dell'ordine
dello yin e dello yang renderebbe più breve la vita del soggetto che sta nel
centro. Oppure che è abitudine raggrupparsi vicini quando si è fotografati per
la paura di rimanere fuori dal gruppo delle persone.
E, non per ultimo, tornando al nostro punto di partenza, è abitudine fare il segno “V” di vittoria con le dita della mano proprio per debellare lo sguardo aggressivo della macchina fotografica. Il tutto ovviamente è vissuto con divertimento ed eccitazione, ma proprio perché si sta resistendo ed esorcizzando questo potere occulto della lente.
È incredibile come certi atteggiamenti innocenti possano nascondere
trame così fitte di paure, superstizioni e credenze.
Che poi questo gesto sia diventato comune in ogni parte del mondo e
ceto sociale è innegabile, così come è certo che ha reciso per molte persone
quel legame al suo significato iniziale.
Però quell'idea della macchina fotografica come lo specchio dello yin e
dello yang, con la sua potenza maschile ordinatrice proiettata verso l'esterno
e quella femminile ricettiva e portatrice di disordine all'interno del negativo
che succhia la vita e la sputa fuori, con le sue anime, come un buco nero, penso
sia tra le più forti che abbia mai letto.
Bene, questo è ciò che intendevo all'inizio, ovvero dell'abitudine
“colonialista” di ignorare le profonde differenze che ci separano, che non sono
solamente quelle del linguaggio o della religione.
Il semplice maneggiare un apparecchio fotografico per chi lo vide per
la prima volta e ne comprese il funzionamento scatenò una miriade di paure di
cui ancora vi è traccia in questi divertenti e ingenui atteggiamenti.
Questo è un argomento su cui, di certo, tornerò a scrivere.
Per ora mi fermo qui e spero possa avervi aiutato a pensare ancora una
volta al potere legato ad un dito che preme un pulsante.
Così come a quello di due dita a V puntate verso l'obiettivo.
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“Photographies East – The Camera and Its Histories in East and Southeast Asia” curato da Rosalind C. Morris (Duke University Press, 2009)
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