Wuhan Tianhe International Airport |
Aeroporto di Wuhan.
Leggere le notizie è ancora uno shock. La mano copre le
labbra e il naso, come una mascherina, e l'altra mano regge il telefono come
pesando l'entità delle parole che sta leggendo.
Ognuna delle tre hostess è ipnotizzata sugli
schermi dei telefoni, con i volti seri e senza sorriso di chi non riesce ad eliminare
la preoccupazione.
Tre.
Tre come chi cammina nel pavimento vuoto e
deserto solamente di ombre lunghe dipinto.
Normalmente così vivo e rumoroso di voci,
annunci all'altoparlante, di lingue e sfregamenti di rotelle di valigie. Adesso solo linee d'ombra e il ticchettio dei propri tacchi delle scarpe
che rimbomba nel silenzio. Tutto tace, come in un quadro di De Chirico: la metafisica
dell'assenza.
Tre, come le due donne stanche che si lasciano
sopraffare dal sonno, sul tavolo di un fast food, nell'area ristoranti al piano
superiore, mentre l'uomo dietro di loro è intento a consumare il pasto. È difficile dormire
sereni in questi giorni; tutto si capovolge, la notte gli occhi rimangono
spalancati a fissare il soffitto e il giorno si chiudono appena è possibile.
Tre come chi comunque sia deve muoversi e
partire, seduto in attesa del volo o in cammino. Nelle sale vuote, al di là dei
vetri come pesci che stanno imparando a capire i limiti del proprio
acquario-mondo.
Tre come chi sa che cedere all'inerzia del
corpo è l'inizio della fine.
Noi siamo al mondo grazie al nostro corpo, non
alla mente; noi siamo esseri percettivi che vivono la realtà grazie ai nostri
sensi. Perciò regredire nella propria interiorità, dimenticando il corpo, ci
rende tutti più fragili e mortali.
Noi dobbiamo essere sempre in grado di sentire
il nostro sangue che scorre nelle vene. Adesso più che mai. La nostra vitalità interiore è l'anticorpo più
efficace.
Wuhan. Città che rimarrà impressa per sempre
dentro di noi: incisa come Babilonia, Itaca, Alessandria d'Egitto, Troia.
Queste fotografie parlano del nostro presente,
di un futuro che non riusciamo a capire come sarà. Ma siamo davvero sicuri di
questo?
In questi mesi noi siamo bombardati da immagini
terribili; dai mei amici in Asia mi giungono ogni giorno fotografie
raccapriccianti di morti accatastati, in Italia. Preoccupati per me a la mia nazione. E noi, loro, ci affidiamo ad asse,
perché sono appunto fotografie: frammenti fedeli del reale. Ma sono quasi tutte
false.
Come queste fotografie di Wuhan, così cariche
di solitudine, stanchezza, malinconia, preoccupazione. Ma sono fotografie che io ho
scattato nel dicembre del 2018. E non solo nell'aeroporto di Wuhan, ma anche quello
di Guangzhou.
La coincidenza è solo nel nome mitico della
città: Wuhan, che è ormai per noi un riflesso pavloviano alla paura. Perciò voi
leggete con me quelle immagini, vi fate portare dalle mie parole incantatrici
come occhi di cobra, voi ci catapultate
dentro tutte le vostre angosce, come se fossero dei feticci di magia nera. Ma non è la realtà.
Io vi ho ingannato.
Nella sua analisi impietosa della Fotografia
Roland Barthes, nel suo famoso saggio La Camera Chiara, scrive:
“Così è la foto: non sa dire ciò che dà
a vedere.”
“Nella tale foto, io credo di scorgere i
lineamenti della verità.”
Ma quale verità? Quella che noi vogliono vedere
o cogliono farci vedere?
Non è semplicemente una questione di mentire. Io non vi ho mentito: le fotografie sono autentiche, ho solamente omesso di dirvi l'anno in cui sono state scattate, parlando ad un presente che è quello della lettura delle foto. Le ho descritte seguendo l'emozione del momento.
Voi avete creduto a me, alle mie parole, più
che semplicemente alle fotografie. Perché come insegnano gli sciamani e la
psicoanalisi, dare un nome alle proprie paure le rende controllabili: ci aiuta
a guarire.
Per questo ci affidiamo con tanta forza al potere delle immagini. Ma, attenzione. Le fotografie non sono la realtà. Sono specchi di un caleidoscopio, specialmente se abbinate a parole. Non fatevi catturare da esse come pesci nella rete. Pensate.
“La fotografia è violenta: non perché mostra delle violenze, ma perché ogni volta riempie di forza la vista, e perché in essa niente può sottrarsi e neppure trasformarsi.” (Roland Barthes)
Roland Barthes: “La camera chiara – Note sulla fotografia” (Einaudi, 2003)
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