Tre Artisti A Confronto: Cina, Bangladesh, Indonesia

    “Quando me ne sarò andato, fate in modo che i miei quadri non muoiano!”
    (Felix Nusshaum)


I Ketut Nama

L'arte per me è sempre stata una grande fonte d'ispirazione. Sarà che, si può dire, sono nato con la penna in mano, poco la matita, e sempre rigorosamente ad inchiostro nero. Ho amato disegnare e dipingere fin dalle scuole elementari, e amavo sfogliare i libri d'arte. Poi con il tempo ho lasciato, abbondonando il disegno, e delegando adesso i miei occhi a disegnare con la macchina fotografica.

Del resto il legame tra arte e fotografia è storico e non sono rari gli esempi di grandi fotografi che hanno alternato la loro carriera con la pittura o il disegno, cito tra tutti due tra i miei preferiti in assoluto: ovviamente Cartier-Bresson e Saul Leiter.

Poi, come dico sempre a chi segue i miei corsi, le nostre fotografie si nutrono di tutto quello che ci appassiona, dai dipinti cha amiamo, alle musiche, ai libri letti, ai cibi. Ogni cosa entra nelle nostre immagini e le rende uniche e diverse dagli altri, proprio per il complesso bagaglio culturale che ci portiamo dietro. Per questo motivo, ancora adesso, ai libri dei fotografi alterno la ricerca di cataloghi o libri di pittori o artisti, dovunque vada.

Anzi, i pittori locali mi aiutano a capire più a fondo culture diverse dalla mia, sono porte che aprono corridoi visuali a quello che poi potrà essere il mio racconto per immagini di quei luoghi. In questo caso vorrei parlarvi di tre artisti molto diversi, per stile e provenienza. Jiang Guo Fang dalla Cina, Sheikh Mohammad Sultan dal Bangladesh e I Ketut Nama, dall'Indonesia.

I primi due sono pittori molto famosi in patria, mentre l'ultimo è un pittore e illustratore di Bali. Tutti e tre hanno qualcosa che li accomuna relativamente a me: in Cina non ci sono mai stato, in Indonesia ci sono stato molte volte nel corso di dieci anni ma non sono mai andato a Bali, e il Bangladesh dipinto da S. M. Sultan è quello rurale che io non ho visto nel mio ultimo viaggio in quel paese, perché ho trascorso quasi tutto il mio tempo a Dhaka.

Perciò, ognuno a suo modo, racconta qualcosa che non conosco. Ma il motivo per cui mi interessa parlarvi di loro, e la ragione profonda del fascino che la loro arte ha su di me, è la tradizione.

Jiang Go Fang

Il primo è uno tra i pittori moderni più importanti in Cina. Jiang Guo Fang nasce nel 1951 nella provincia di Jiangxi da una famiglia contadina, per poi – grazie ai suoi studi – diplomarsi all'Accademia Centrale di Belle Arti in cui insegnerà e inizierà la sua carriera di pittore professionista.

La sua fama è legata agli oltre 170 dipinti dedicati alla Città Proibita. Ed è infatti alla mostra dedicata a questi dipinti, nel 2005 a Roma, che l'ho scoperto, perdendomi nel fascino misterioso delle sue grandi tele. È stato il primo ed unico pittore moderno a poter esporre i suoi quadri all'interno della Città Proibita, nel 2004.

Da sempre affascinato dalla mitologia attorno a quella famosa epoca e a quella magnifica dimora, costruita nel 1420 e costituita da oltre 9.000 sale estesa per 5 kmq, che ospitò la famiglia imperiale prima della loro decadenza. Così scrive Jiang:

“Il mio amore per la cultura e la tradizione mi spinge a dedicare ogni mia energia alla creazione di dipinti a olio ispirati alla Città Proibita. Come pittore, da un punto di vista estetico, la Città Proibita cristallizza uno degli aspetti più raffinati della cultura del Popolo Cinese. […] La Città Proibita ogni qualvolta citata in romanzi, drammi, film o altra forma d'arte è stata oggetto di critica e di condanna. Nel campo delle Arti, la rappresentazione della Città Proibita avrebbe potuto essere interpretata negativamente. Incurante di tutto ciò la mia passione per la Città Proibita resta immutata e la Città Proibita continua a popolare i miei sogni.”

Jiang Guo Fang, “Infanzia,” Olio su tela, 2003  

  


Jiang Guo Fang, “Un giorno nella Hall of Gathering Excellence,”
Olio su tela, 1993
 


La sua è una sensibilità pittorica che si ispira molto ai pittori fiamminghi che studiò da ragazzo in Accademia, Van Eyck e Vermeer su tutti. Le luci e i colori caldissimi, quasi sempre su tonalità rosse e dorate, i chiaroscuri, le ombre, rendono le sue immagini come sogni, intrise di malinconia. I volti dei suoi soggetti, anche se donne nobili, principesse, bambini figli di principi, sembrano sempre infelici, racchiusi tra le splendide mura dei palazzi, nel lusso e nell'oro e dai tessuti magnifici, ma mai liberi.

S. M. Sultan

S. M. Sultan nacque invece nel 1924, nel villaggio di Masumdia, in una divisione di Jessore in Bangladesh. Figlio unico, dovette abbandonare presto la scuola per aiutare la propria famiglia, lavorando con il padre muratore. Questo segna la sua infanzia, capovolgendo poi il lavoro del padre che da un disegno bidimensionale trasformava il progetto in una realtà tridimensionale, mentre lui renderà la realtà bidimensionale con la sua pittura.

È molto poetico sia che scrisse Ahmed Safa su Sultan:

“There are some that are born, but the circumstances of their birth cannot hold them. All of them cannot be called rare-born either. There are some children born with a peculiar nature in this world. Their natural urge is to cut off the bindings of their birth. Not all of them manage to trascend into another life-cycle in their life-time. In crores, one may find only a few who attain at birth transmigration into a higher life-cycle. The god of life on his own comes forward to light that wonderful flame of transcendence in the lamp of the new-born life.” 

Insomma, un predestinato capace con la sua arte di transcendere i limiti di una vita sempre ricorrente per chi nasce in quei luoghi. Una peculiarità che si nota in tutte le scene rurali dei suoi quadri sono le case tradizionale dei villaggi, in bamboo, legno e canne, nonostante lui e il padre tiravano su case in mattoni. Mori nel 1994 a 71 anni, dopo una vita fuori dagli schemi, votata all'arte in ogni sua forma, anche al canto e alla musica.

S. M. Sultan, “Hair dressing,” Olio su tela, 1987

S. M. Sultan, “Cutting fish-2,” Olio su tela, 1989



È stato il cantore del Bangladesh rurale, della bellezza della sua natura; amava circondarsi di animali, bambini e osservare il fiume Chitra – dipinto molte volte – davanti la sua dimora. Odiava la città e soffriva quando doveva venire a Dhaka per le sue esibizioni. Il suo mondo era il suo villaggio a Narail, dove tirò il suo ultimo respiro.

Le donne sono voluttuose e forti, gli uomini hanno corpi possenti che rimandano all'anatomia di Michelangelo. Ha rappresentato tutte le attività quotidiane dei villaggi, immortalando quel mondo da sogno in cui era cresciuto.

I Ketut Nama

Il libro dell'artista indonesiano ha una storia diversa. In realtà è un libro illustrato per bambini che comprai molti anni fa alla Fiera del Libro per l'Infanzia di Bologna, dove lavoravo per il padiglione dell'Indonesia.

Il libro si intitola Ni Terong Kuning (La Melanzana Gialla), ed è una fiaba del folklore balinese raccontata dallo scrittore Putut Oka Sukanta e illustrata da I Ketut Nama, e racconta la vicenda, che ha origine nella Reggenza Buleleng a Bali, di una famiglia il cui padre era un famoso giocatore nel suo villaggio, e rinomato per i suoi galli da combattimento.

Un giorno dovette partire per un lungo viaggio, lasciando la moglie incinta, e ammonendola che se il nuovo nato fosse stata una femmina lei avrebbe dovuto ucciderla e darla in pasto ai suoi galli. Ma la madre si rifiutò, nascondendo la figlia a casa di sua madre che la crebbe. Ma quando il padre tornò e scoprì la verità obbligò la figlia a seguirlo in un luogo lontano per ucciderla, ma gli angeli la salvarono e il padre invece di porre fine alla sua vita tagliò un ramo di banano e lo diede da mangiare ai suoi galli, convinto fosse la figlia, facendo così morire tutti i suoi preziosi galli. Questo fece cadere il padre nel totale scoramento e pentimento. La figlia impietosita chiese agli angeli di poter tornare a rincuorare il padre, e così fu. La famiglia si riunì felice, il padre morì per la troppa sofferenza patita e la figlia fu sposata dal Re del villaggio perché era stata l'unica in grado di vedere il Paradiso e gli angeli.

I Ketut Nama è un pittore tradizionale balinese nato a Ubud nel 1949, ed ha esposto i suoi dipinti anche in Europa.

I Ketut Nama
Ubud è stata fin da sempre il centro nevralgico dell'Arte Balinese: ovvero, l'Arte Induista Giavanese che ha avuto origine nel Regno del Majapahit, fino ad arrivare a Bali nel 1300, con riferimenti all'epica del Ramayana e Mahabharata, con molte storie folkloristiche. Ida Bagus Made Togog (1013-1989) è stato il pittore più famoso di Batuan, un villaggio di Bali, da cui ha avuto origine, assieme a Ubud, nel 1930 il classico stile artistico balinese. Tra i molti temi raffigurati, quello della lotta tra i galli è un classico dell'iconografia balinese, vedi anche i dipinti di I Ketut Ginarsa.

Bali è di sicuro l'isola più famosa tra le 17mila isole dell'Indonesia, anche se poi è la più atipica, lontana in senso culturale e religiosa da Giava. Ma, senza ombra di dubbio, è quella – proprio per la forte connotazione induista – che ha mantenuto viva e potente l'antica tradizione epica del Ramayana e Mahabharata che informa tutta l'arte e la cultura indonesiana, così come per la Malesia, la Thailandia fino all'India da cui ha avuto origine.

E, in secondo luogo, Bali è l'isola che deve fronteggiare in modo più deciso rispetto a tutte le altre aree dell'Indonesia, la contaminazione che arriva dall'Occidente, essendo stata da sempre l'isola del turismo di massa e delle esplorazioni da parte di scrittori, pittori, antropologi occidentali dal secolo scorso.

Per concludere, questi tre artisti, come avete visto, sono molto diversi tra loro, per stile e cultura, ed il mio è stato semplicemente un suggerimento. Un consiglio per i vostri occhi, perché a me dà grande piacere guardare le loro opere. Ma c'è qualcosa che va oltre il mero interesse artistico, qualcosa che li rende parte di un unico discorso e li accomuna. Ed è proprio l'amore per la tradizione, come dicevo prima.

Il tentativo di rendere immortale, con il loro lavoro, un passato mitico, affettivo ed amato, che è già scomparso o è minacciato, sopraffatto dalla modernità, dal turismo o dalla globalizzazione che ci vuole tutti uguali e senza storia.

Paradigmatico e poetico è l'esempio di S. M. Sultan: tirar su mattoni con il padre e poi abbatterli con i suoi dipinti, per far vivere nei cuori del suo stesso popolo un passato che era amore per la natura e la tradizione.

Quasi a rompere quel circolo-di-vita, come scriveva Ahmed Safa.

E che sembra essere la traccia genetica comune di molti paesi dell'Asia: avere il proprio destino già scritto, nel cammino irrefrenabile verso la modernità.
E l'oblio...
Che l'Arte possa salvarci.


“Jiang Guo Fang – Il pittore della Città Proibita” (Gangemi Editore, 2005)
“S. M. Sultan” a cura di Sadeq Khan (bangladesh Shilpakala Academy, 2003)
“Ni Terong Kuning - The Yellow Eggplant” di Putu Oka Sukanta \ I Ketut Nama (Grasindo, 2010)







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