Barbiere in strada. Dhaka, 25 Febbraio 2020 |
Quando a Dhaka, un pomeriggio, ho visto questo barbiere tagliare i capelli in strada ho pensato: “Bene, io non posso tornare in Italia se non faccio questa foto!” E così è stato.
Ci sono dozzine e dozzine di foto che vanno perse, è normale, non sempre si ha la possibilità di fotografare, specialmente se ci si muove con la macchina o il bus, non si può sempre obbligare a fermarsi e avere il tempo di fare una foto. Ogni fotografo ha dentro di sé centinaia di immagini che appartengono solo a lui.
Ma questa io l'avrei rimpianta a lungo.
Perché essa rientra perfettamente nella categoria delle attività e mestieri che io amo immensamente, ed ho cercato di salvare con la fotografia in Indonesia e Malesia. Prima che tutto scompaia.
Quante piccole librerie tradizionali abbiamo pianto questo anno, qui in Italia, assistendo alla loro chiusura, così come i negozi di dischi: tutti schiacciati dalle grandi catene di distribuzione con cui è difficile competere a livello di dimensioni o prezzi, ma che avevano un livello di competenza e qualità senza eguali.
E così andrà il mondo, ovunque.
Con i piccoli negozietti famigliari all'interno delle case stesse, in Asia, che vendevano ogni cosa (la prima volta li vidi in Filippine, più di quindici anni fa, i cosiddetti sari-sari store), affiancati dalle catene di mini-market in franchising, tutti uguali, dalle Filippine al Borneo.
Questo mi rattrista profondamente.
Perciò dal primo viaggio in Indonesia ho capito subito quale sarebbe stato uno dei miei obiettivi da fotografo: tenere in memoria. Se non posso impedire che certe attività svaniscano sotto lo schiacciasassi della modernità e globalizzazione, che almeno io possa salvarli con la fotografia.
A vantaggio delle generazioni future che non avranno mai avuto il piacere di incontrare come me, dieci anni fa, per le vie di Giacarta, l'uomo seduto alla sua macchina da cucire Singer, in strada, facendo i piccoli rammendi a chi gli portava gli abiti.
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Da quel momento ho capito che era importante ricordare questi piccoli mestieri che un giorno sarebbero certamente scomparsi, come sta succedendo per esempio in Malesia, adesso, il cui cammino verso la modernità procede molto più velocemente rispetto alla gigantesca Indonesia. E comunque, come ho detto prima sta accadendo anche in Italia, già da molto tempo.
Ho iniziato a collezionare libri anche, che raccolgono fotografie o cartoline storiche di questi paesi. Adoro vedere la vecchia Giacarta, la Malesia, le Filippine, la Thailandia, la Cina o il Giappone.
E cercare poi ciò che ancora sopravvive, metterli a confronto.
Perché è inevitabile camminare verso ciò che è davanti a noi, è un processo inarrestabile, ma questo non significa dimenticare quello che eravamo. E soprattutto tenerlo a mente anche per i nostri figli.
In Indonesia e Malesia un termine molto importante e profondo e di difficile traduzione è adat: l'insieme di pratiche, costumi, leggi, convenzioni e pratiche accettate da una comunità. L'Adat è la spina dorsale dell'identità di una comunità e nazione, come esiste – per esempio – l'Adat malesiano o indonesiano.
L'Adat forma la mentalità e le pratiche di vita di un popolo, ed è fondamentale conoscerlo per comprendere a fondo una cultura o una nazione.
Io credo che certe pratiche, a livello molto basilare, rientrano in questo concetto complesso.
Le donne dei villaggi (kampung) che si ritrovano la mattina presto nelle rive dei fiumi per farsi il bagno e lavare i panni, rientrano in quella forma di socializzazione femminile che è parte del costume indo-malesiano che tende a separare antropologicamente le attività femminili da quelle maschili, così come la struttura architettonica delle case in legno dei villaggi, che hanno parti “maschili” e “femminili”, in senso di dominio dello spazio.
“Donne lavano i panni”. Desa Batu Jaya, Karawang, Indonesia, 2010 |
Giacarta, cartolina 1930 circa |
Adesso in alcuni di questi paesi questa abitudine non si vede più, perché ogni famiglia ha la lavatrice e perché non è più tollerata a livello religioso, e dunque le donne in alcuni villaggi hanno perso un momento privato di socializzazione. Mentre in Indonesia ancora è possibile assistere a queste pratiche; non è un caso che in Malesia o in Bangladesh, si possono vedere solo o in villaggi remoti o in quelli dei popoli più radicati nel tempo come gli Orang Asli in Malesia, o quelli tribali non mussulmani in Bangladesh, come le etnie birmane in Chittagong.
Sono piccoli passi, ma ognuno di questi passi partecipa alla lenta scomparsa dell'anima originaria di un popolo, di una tribù, o di una nazione intera.
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Forse tra cinque, sei anni, non verrà più permesso tagliare i capelli sul marciapiede della strada; cambieranno magari le leggi, o le usanze, o altri cento motivi.
E si perderà questo momento puramente “maschile”, urbano, conviviale e così bello da vedere, che diventa necessario per me fotografarlo.
L'uomo, o un popolo, che inizia a dimenticare o a provare vergogna del proprio passato “primitivo” (nel senso etimologico e meraviglioso di questa parola), sta iniziando la lunga discesa verso la dimenticanza di sé stesso.
Come quando chiesi a delle signore malesiane, la prima volta che mi recai in Malesia nel 2016, dove potevo fotografare le donne che lavavano i panni nelle rive di un fiume. “Ehhh, Stef! Itu zaman dulu!” Questo era tanto tempo fa! Mi rispondono ridendo e prendendomi in giro. “Adesso tutte noi abbiamo le lavatrici in casa”.
Però, a vedere bene, i loro occhi sono umidi..
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Scott Merillees: “Greeting from JAKARTA – Postcards of a capital 1900-1950” (EQUINOX, 2012)
“EAST ZONE – Antonio Beato, Felice Beato e Adolfo Farsari. Fotografi veneti attraverso l'oriente dell'Ottocento” a cura di Magda Di Siena (Antiga Edizioni, 2011)
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